Pietra
Ogni mia pietra è un pezzo di specchio in cui si riflette il peso e la leggerezza del mondo, la sostanza del mio cemento ha la forma dei segreti di questa città. E’ su di me che fa ombra il sole quando si scopre dalla luna all’alba; è sulla mia faccia senza volto che si poggia la mano stanca degli anziani senza tetto che la disperazione fa invecchiare nell’inverno dell’ultima stagione
Sono il testimone dei baci a mezza bocca che gli innamorati in fuga dall’universo mi confessano inconsapevolmente. Quante teste ad occhi chiusi ho sostenuto. Quanti brividi ho rubato dalle schiene che, su di me appoggiate, si sono desiderate alla ricerca di una sola identità in due.
Sono il custode del sangue scivolato a morte dalla vena rotta di una sconosciuta che al buio chiedeva aiuto, non so quando sia accaduto. Ho solo lo sguardo e l’udito per osservare; in me non esiste il tempo che scandisce , sento solo il mondo che passa .
Non sono un muro che separa, le pietre che mi abitano si fanno dipingere di parole il ventre.
Sono uno di quelli che accoglie; in me sopravvivono fenditure che i poeti senza nome riempiono di versi all’imbrunire:
“Ci baceremo nel tempo di un addio amato bene e li resteremo fino alla fine del sempre.”
Ho la fronte cucita col nome di Alice a cui qualcuno, col volto bruciato dalla delusione, ha scritto:
“…chissà se mi hai davvero vissuto,
chissà se ogni tanto mi hai rischiato,
chissà se mai mi hai amato.”
Ho lo stomaco pieno d’impronte fantasma che la rabbia di un uomo mi ha graffiato dentro :la prima volta che l‘ho incontrato è stato di testa: uno, due , tre colpi alle pietre della mia faccia di sinistra, quelle ancora libere dai racconti di ognuno, tranne il suo. Arrivò zoppicando ; blue-jeans bucati come un punto a croce riuscito male e una maglietta furori stagione: manica lunga di un rosso sbiadito che tirava convulsamente verso i polsi per coprirsi pure l’invisibile.
Si sedette sulle mie gambe senza ossa e, afferrata la testa tra le mani, continuava a rotearla senza fermarsi: fatemi entrare – ripeteva a voce bassa, come fosse una litania profana, recitata in assenza di santi- .
Abito la sponda di un anfratto disegnato apposta per far galleggiare l’odore di tabacco e il tintinnio di tazzine da caffè provenienti da un bar in miniatura. E’ una liturgia, per me, il movimento di lenzuola tirare, spiegate e stirate dalle braccia rugose di due donne in sandali francescani; entrambe indossano sempre gonne a tubo di colore scuro, lunghe fino alle ginocchia , bluse bianche puntellate da spilli e crune con cui si adornano il petto dalla mattina. Dopo l’ora di chiusura del negozio , che indicano ai passanti e a me , lasciando la serranda aperta a metà, si trattengono là dentro fino a che la luna si fa faro al centro delle stelle e il vicolo si zittisce. Continuando a stirare giacche e pantaloni come fosse un mantra propiziatorio o un rito di scaramanzia , recitano il rosario con la devozione di chi sa di essere ascoltato, e aspettano risposte che forse non troveranno mai. Devono essere donne sole, senza più legami vincolanti: Se così non fosse, ad un certo punto della giornata dovrebbero avvertire l’urgenza di ritornare a casa, per soddisfare l’attesa di un figlio che aspetta un bacio dietro la porta, oppure l’insofferenza di un marito che cerca un pasto caldo da spartirsi in due ,sul rumore di silenzi fatti d’abitudine o di parole pregne di condivisione. Questa città è costruita come fosse un labirinto aperto che obbliga tutti a passarsi accanto, un agglomerato di viuzze imbottite di folla frenetica. Quelli che passano per il mio indirizzo si toccano la pelle e le voci , ma non si incontrano mai. Si sentono e si maledicono nel volume alto delle loro stesse imprecazioni , ma nessuno si ascolta oltre una sosta di pochi minuti sul giudizio dell’aspetto altrui.
Eccolo che torna anche oggi, lo stavo aspettando. È dalla reazione a catena che creano le teste delle persone al suo arrivo in strada, che me ne accorgo. Solo le auto proseguono noncuranti.
Per loro Mario è un pazzo di quarant’anni che si aggira senza meta per le vie del proprio paese con alito da ebbro e il pericolo nelle mani che tiene sempre chiuse a pugno.
Barcolla, ha una bottiglia di vino senza etichetta tra le dita, mi sta appoggiando la mano sugli occhi, è umida e sanguina leggermente dal centro del palmo: Chissà su quale muro si sarà dannato prima di raggiungere me. Mi dà le spalle, beve l’ultimo sorso di rosso fermo sul fondo della bottiglia di vetro , poi la fa roteare con un calcio fino al gradino della lavanderia di fronte. Anna e Rosetta piegano e spiegano le lenzuola , stirano e pregano sottovoce, ma quando arriva lui il loro tono si fa chiaro e autorevole, quasi ad ordinare al Dio in cui credono la protezione dell’anima del pazzo.
Tra queste quattro mura non posso più entrarci- ricomincia a ripetere, mentre mi guarda in faccia come se capisse che ascolto-
“Non lo sanno loro che quando perdi tutto, quando la vita tradisce la tua dignità cominci a sentire la voce del diavolo nella testa, entra da sola ,senza il permesso di nessuno, è lui che mi fa tremare , è lui che morde la pelle del mio stesso corpo ,è lui che mi abita il sangue se inveisco contro qualcuno.
Non lo sanno che quando un uomo incapace di farsi compagnia resta da solo, non può che diventare quello che sono io adesso.
La sua disperazione trafigge l’anima di ogni mia pietra, se non fossi un muro mi piegherei in due dal dolore .
Sono anni che qui dentro non entra più nessuno, i pazzi stanno fuori ad aspettare la vita che non hanno più.
Hanno solo me per ricordarsi quanto questa struttura che reggo, li faceva sentire al sicuro, almeno dagli sguardi della gente.
Mario viene qui tutti i giorni. Si appoggia a me per darsi un indirizzo, un luogo in cui stiracchiarsi le braccia al crepuscolo.
Quando si appoggia a me, sono io che mi aggrappo a lui per sopravvivere. Un vecchio muro di un ex manicomio non si regge né sulle frasi d ‘amore, né sul movimento della città, può nutrirsi solo dell’anima di un pazzo, mentre aspetta di morire insieme a lui.
Michela Salzillo