Tiziana Cantone
Di Michela Salzillo
Aveva cambiato nome, si era trasferita in un’altra città e abbandonato il vecchio lavoro, ma non è servito a nulla. Inseguita ovunque dallo scherno dilagante dei social network, alla fine, Tiziana Cantone, si è tolta la vita. Aveva trentun anni, ma l’età non ferma in alcun modo la dilatazione di un tempo diffamatorio e giudicante. Soffocata da un fardello troppo grosso per poterci convivere, si è stretta un foulard intorno al collo e si è uccisa a casa di una zia, a Mugnano, in provincia di Napoli. Era stato un gioco quello di due anni fa, quando accettò di farsi riprendere mentre faceva sesso con un coetaneo. Lei stessa aveva inviato quel video a degli amici, voleva fare ingelosire un ex. Un gesto del genere traccia un errore ancor prima che venga compiuto, probabilmente. Le leggerezze, si sa, su internet non conoscono redentori. Attraverso la moltiplicazione in clic, spesso, come in questo caso, diventano condanne indelebili che possono far male più di una coltellata. Un video, oggi , ha in sé un istante, ci mette poco a diventare virale.
Da WhatsApp a YouTube; da Twitter a Facebook, quel:“ Stai facendo il video? Bravo!”, pronunciato da Tiziana durante la ripresa, diventa un tormentone che prolifica commenti, opinioni e reazioni discutibili. Non mancano parodie e fotomontaggi che, come una catena inarrestabile, stimolano a fare sempre di più, sempre peggio. Anche alcuni calciatori scomoderanno il loro aguzzo istinto, facendosi riprendere mentre tentano di riprodurre la scena incriminata. Nel giro di poco, il volto di Tiziana non bisogna neppure più cercarlo. Nei motori di ricerca basta inserire la parola “bravo”, affinché le prime notizie indicate diventino questa storia. Al passo con le condivisioni del contenuto porno, alla velocità della luce, crescono gli insulti. Le offese, ben presto, scivoleranno fuori da internet per attraversare il suo paese, Casalnuovo, ed è così che la vita di Tiziana diventerà un faticoso tentativo di sopravvivenza.
Prima del triste epilogo di due giorni fa, togliersi la vita era stata una prova riuscita male. Si era già imbottita di barbiturici, ma era stata salvata sul filo del rasoio. Dopo questo episodio, che di per sé costituiva il richiamo ad un malessere profondo, Tiziana aveva provato a reagire, si era regalata un ragionevole sforzo, perché chi le voleva bene l’aveva incitata a non mollare, ma il coraggio non è una paura semplice.
Aveva provato a farcela Tiziana, si era dedicata ad un processo che le riconoscesse il diritto all’oblio, con la conseguente e naturale rimozione di tutto quanto riguardasse la vicenda. Dal video hard alle pagine offensive create in suo nome, ma tutto si è rivelato più difficile a farsi. Teoricamente, l’oblio è un diritto che può assolutamente essere preteso da tutti, anche dalla Cantone, ma il web è un mondo complesso pure per cose del genere. Solo qualche giorno fa, il tribunale le aveva dato ragione, ma fattivamente quei fotogrammi non sono mai scomparsi, questo perché su internet ciò che viene pubblicato lascia sempre una tracciabilità più o meno chiara. Un’evidenza che Tiziana non è più riuscita a gestire, se non con l’irrimediabile. La procura di Napoli, intanto, ha aperto un fascicolo che cita l’istigazione al suicidio, rivolgendo le probabili accuse di stalking e violazione della privacy al primo artefice della diffusione mediatica. Ma la colpa, forse, parte da un po’ più lontano.
Tiziana Cantone l’abbiamo uccisa tutti
Sapete cosa è successo subito dopo la sua morte? Ci siamo divisi fra pentiti e arcigni ripetitori di condanna che, nel frattempo, è pure raddoppiata. Da un lato siamo diventati tutti dei comunisti del sesso, rivendicando una libertà che in fondo non riconosciamo come lecito diritto, ma è più una facciata dalla veduta comoda. Agli esami di coscienza, e credo non sia un azzardo, veniamo bocciati parecchio spesso, però in qualche modo dobbiamo pur arrivarci al settembre dell’ipocrisia.
Dall’altro fioccano addirittura plausi per la scelta di negarsi la vita. Arriva da facebook un commento che, reso pubblico, è stato prontamente rimosso dall’autore, la cui esistenza è però provata, al pari dello stesso motivo che aveva impedito la totale eliminazione del famoso video di Tiziana. Basta smanettare un po’ per rendere facile la lettura di queste parole:
“Ti è piaciuto zoccolare e farti guardare? Adesso non ti resta che da un foulard penzolare… stai facendo il video? Brava! Spero che da domani tutte quelle come lei facciano la stessa fine. Tutte da un foulard a penzolare”. Potrei fare il nome del rispettabile signore, ma so perfettamente che diffamazione e notizia non sono sinonimi, perciò mi sposto al lato di chi, dopo il suicidio, ha salvato Tiziana da ogni peccato, rimettendole colpe e responsabilità prima riconosciute. Non serve, e non solo perché una ragazza di trentun anni non avrà futuro, ma perché i cambiamenti repentini fanno più danni delle persistenti prese di posizione. Se non fosse morta, sarebbe rimasta una poco di buono da condannare, e se questo significasse riconoscermi parzialità me ne farei una ragione. Non diamoci assoluzioni perché l’assassino di Tiziana non è soltanto il cyberbullismo, ma lo è anche quell’opinione comune che dipinge la donna come una santa asessuata, quando le va bene, e quando invece le va peggio, colpevole di uno stupro perché non indossa il reggiseno. Lo sappiamo tutti che se la vicenda si fosse svolta a parti inverse, staremmo a consegnare trofei. Certo, Tiziana ha fatto degli errori, è stata superficiale, ma non si capisce perché questo è abbastanza per non citare, più di lei, il responsabile della diffusione del video. O forse è tutto fin troppo chiaro: la verità è che le emancipazioni del mondo sono beffa difronte a chi legittima alla donna un sesso che sia finalizzato alla sola procreazione- e il fertility day ce lo insegna- mentre concede all’uomo la libertà di concedersi il fulgido vanto di una fellatio fatta bene, senza rischiare danni o lesioni di dignità.