campagna
Di Erica Caimi
“Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità, e spesso non quelli che ti aspetteresti”, diceva Primo Levi. Chissà se i nostri ragazzi partiti dall’Italia per combattere sul fronte russo nel 1941 si aspettavano che quel viaggio sarebbe stato per molti un lungo pellegrinaggio verso la propria condanna a morte. Questa storia ci coinvolge da vicino, anche se arriva da molto lontano, dalle sponde del medio Don, più precisamente.
Campagna italiana di Russia nell’inverno del 1941
Bisogna risalire al lontano ’41 quando Mussolini decide di inviare un Corpo di Spedizione Italiano da supporto ai tedeschi nell’Operazione Barbarossa, rinforzato da successivi folti contingenti che nel ’42 diedero vita all’Armir, l’Armata Italiana in Russia. A Rossoš’, sulle sponde del Don, tra il settembre del ’42 e il gennaio del ‘43, mentre i tedeschi ripiegavano su Stalingrado, i militari italiani organizzavano il Comando degli alpini in un edificio della città, un’usadba in origine, cioè una nobile dimora di campagna, che aveva ospitato Lev Tolstoj, in visita ai vecchi proprietari, fuggiti all’estero dopo la rivoluzione. Quando l’inverno, sfortunatamente particolarmente rigido quell’anno, fa sentire i primi colpi, gli ufficiali si rendono subito conto dell’inadeguatezza dell’equipaggiamento e gli alpini si vedono costretti a barattare cibo con i civili russi in cambio di vestiti e valenki (calzature russe invernali). Senza contare che con temperature che toccano picchi di quaranta gradi sotto zero, anche le armi e i camion non funzionano più. In queste condizioni, il 16 dicembre del 1942 l’armata rossa avanza senza troppe difficoltà e sbaraglia l’esercito italiano, poco attrezzato e stremato dal freddo. All’Amir viene dato ordine di ritirarsi. Non resta quindi che imboccare la lunga via del ritorno e alcuni battaglioni si dirigono disperatamente verso ovest, il sentiero più facile, perché più battuto e facilmente percorribile, ma il più pericoloso perché li espone al rischio di agguati, costringendoli al contrattacco in campo aperto. Molti nella fuga marciano senza armi, alcuni a piedi, altri a bordo di slitte di fortuna, ci si organizza alla meglio. La colonna umana di straccioni malnutriti e semicongelati è lunga più di 40 kilometri e si avanza con estrema lentezza e fatica perché bisogna camminare nella neve fresca che a tratti arriva fino alle spalle. Una pista che nei pressi di Nikolaevka, oggi Livenka, inforca uno stretto tunnel sotto la ferrovia. Qui, il 26 gennaio, al buio, un’imboscata sovietica li sorprende, mortai e mitragliatrici formano un solido sbarramento. La scelta è semplice: o si sfonda o si muore. Così i 40-50 mila uomini stremati da una camminata di oltre 150 kilometri e in minoranza numerica rispetto al nemico, improvvisano un tentativo di avanzata, combattendo quasi all’arma bianca. Miracolosamente, i battaglioni anche se decimati riescono a passare e ripiegare dietro le linee di difesa, «E’ stata la vittoria della disperazione, della rabbia, della voglia di tornare a casa. O si passava o si moriva», ha raccontato in un’intervista Guido Vettorazzo, uno dei pochi sopravvissuti. L’inverno coprì col suo manto di ghiaccio chi non riuscì a salvarsi, soffocando nel silenzio della neve quella tragedia umana e rimandando al disgelo i conti con la morte. Fu la primavera, infatti, a restituire i corpi delle vittime, disseminati sui luoghi delle battaglie e sulle vie del ritorno, che vennero seppelliti frettolosamente in fosse comuni.
Resti della campagna di Russia: il museo e la scuola italiana
A raccogliere i resti di esistenze falciate dalla guerra si occupò Alim Morozov, storico e scrittore, che durante gli anni della Seconda guerra mondiale, quando aveva appena dieci anni, divise la propria casa con alcuni militari italiani. Si appassiona a queste vicende storiche così tanto che alla fine degli anni ‘80 , con il crollo dell’Unione Sovietica, diventa un vero e proprio punto di riferimento per gli italiani in cerca di notizie su parenti, commilitoni e amici caduti o dispersi durante la Campagna italiana di Russia. Per la sua attività nel 1991 è stato insignito del premio Agordino d’Oro e dal ‘92 collabora stabilmente con i rappresentanti di Onorcaduti, l’organizzazione che tenta di identificare i cimiteri militari italiani e rimpatria le salme dei caduti. Alim più che alla storia militare in sé, della quale si conosce praticamente tutto, è interessato al risvolto umano della vicenda, perché sebbene le reciproche atrocità siano innegabili, russi e italiani hanno saputo scrivere pagine di rara umanità durante la seconda guerra mondiale, righe che raccontano di aiuti con cibo e acqua ai nostri miliari durante la ritirata e di russi nascosti negli stabili dell’Armir durante i rastrellamenti nazisti. La sua passione si è concretizzata nella costruzione tra il ’92 e il ’93 di un museo, il Museo del Medio Don a Rossoš’, le cui sale, allestiste all’interno dei locali ristrutturati dell’allora sede del Comando degli Alpini, raccolgono una mostra di cimeli italiani rinvenuti durante l’attività di studio e ricerca sul campo. La terra del Don per molti anni ha continuato a rigurgitare piastrine di rame ossidate, che nella migliore delle ipotesi rappresentano un brutto incubo di guerra, nella peggiore tutto ciò rimane di un essere umano. La guerra ha ridotto la vita di molti dispersi a una piastrina arrugginita, sulla quale i dati personali dei soldati stampigliati sulla superficie sono quasi o del tutto illeggibili, spazzati via dal tempo. Fin dal momento della sua fondazione, il museo, diretto da Morozov stesso, diventa un faro per le indagini storiche e la ricerca dei dispersi e caduti, si organizzano visite guidate per gli italiani, ma anche conferenze ed incontri per mantenere viva la memoria nella popolazione locale. Le sorprese che parlano italiano sul Don non sono finite. Perché nel 1993, per celebrare e ricordare il cinquantesimo anniversario della battaglia di Nikolaevka, all’interno della stesso edificio dove si trova anche il Museo viene inaugurato l’“Asilo del sorriso”, costruito dai volontari italiani dell’Associazione nazionale alpina (A.N.A.) su iniziativa dell’allora presidente e reduce Ferruccio Panazza. A scuola i bambini studiano italiano. Una targa all’ingresso ricorda ciò che è stato: “Ai bambini di Rossoš’ che non hanno conosciuto le sofferenze e la crudeltà della guerra, gli alpini d’Italia donano questo asilo a ricordo di quanti, sull’uno e sull’altro fronte, si sono immolati nella stagione del dovere e perché sorrida a tutti i popoli la stagione della libertà, dell’amicizia, della pace”. Così, dove finisce la morte, comincia la vita.