Porfito
Di Christian Coduto
Il primo incontro con Mario Porfito fu un incrocio improvviso nei pressi del Vomero, diversi anni fa: mi avvicinai a lui, gli strinsi la mano e gli feci i complimenti. Lui sorrise, mi guardò con attenzione e curiosità e, con la stessa eleganza, proseguì per il suo cammino. Ora, a distanza di molto tempo, mi ritrovo ad intervistarlo. Trovo la cosa molto buffa, insolita. Mentre ci sediamo al tavolino del bar per la nostra chiacchierata, noto che mi sta osservando con la stessa attenzione e uguale curiosità di quel giorno.
Sono in compagnia di Johnny, il mio fidato cagnolino, e della mia amica Francesca, che me lo terrà buono per tutto il tempo dell’intervista. Mario Porfito li osserva girovacchiare sotto il sole, a debita distanza da noi e sorride mentre vede Johnny tirare nella mia direzione. “Falli sedere accanto a noi” esordisce “Non ci daranno certo fastidio!”.
Informale, socievole, distinto. Sono le prime parole che mi saltano alla mente.
Mario Porfito parla di sé …
La prima domanda è obbligatoria: chi è Mario Porfito?
Beh, partiamo decisamente bene! Allora … chi sono lo rivela il fatto che non abbia voluto fare l’intervista attraverso i social: sono uno che cerca e apprezza il rapporto umano. Solo parlando, solo dialogando puoi condividere dei momenti di verità. Rispondere in maniera impersonale non fa per me. Nella vita bisognerebbe imparare ad ascoltare gli altri e mettersi nei panni degli altri. Forse è questo il motivo per il quale faccio questo lavoro … l’attore cerca di comprendere le condizioni nelle quali gli altri vivono.
Mario Porfito è un attore, svolge questo mestiere da sempre. E’ un uomo fortunato perché ha avuto l’opportunità di prendere parte al gioco più bello del mondo. Mi sento realizzato.
Tantissimo teatro, diretto da registi del calibro di Luca De Filippo, Giuseppe Patroni Griffi e Giorgio Strehler. Spettacoli molto diversi tra di loro … cosa hanno lasciato a Mario Porfito da un punto di vista artistico e da un punto di vista umano?
Da un punto di vista umano si tocca la sfera personale e sono inevitabilmente un po’ geloso, riservato.
Nel mio curriculum, questi sono i tre più grandi registi con i quali ho lavorato. Ti dirò: con una punta di orgoglio, posso anche aggiungere di aver collaborato con loro in più di uno spettacolo, non è stato un momento fugace della mia carriera.
L’avventura con Strehler è durata ben 6 anni al Piccolo Teatro di Milano. Quando ti trovi di fronte ad una persona che si impegna al massimo, tutto ciò che puoi fare è dare il massimo con uguale intensità. Giorgio ti spiegava come voleva che venisse rappresentato il personaggio e ci metteva un’energia infinita. Se tu la facevi come faceva lui, si arrabbiava tantissimo, perché non voleva una imitazione pura e semplice, il suo scopo era quello di comunicarti l’intensità, ma voleva che la rendessi tua.
Spesso è stato criticato perché lui era a favore della grandezza della messa in scena, le scenografie erano costosissime, però poi, quando assistevi ad un suo spettacolo, non potevi non emozionarti.
Giuseppe Patroni Griffi lavorava in modo completamente diverso. Ti racconto un aneddoto: mi chiamò per fare “Napoli milionaria”. Studiai a fondo il testo, perché odio non essere preparato a dovere. Io ero convintissimo di sapere tutto di quel testo di Eduardo. Eppure, appena iniziammo le prove, mi resi conto che Giuseppe stava aprendo delle porte dove io avevo visto solo delle pareti. Il suo approccio nei confronti dello spettacolo era basato sulla consapevolezza che non avrebbe mai potuto migliorare Eduardo da un punto di vista delle battute, però era interessato alla vita che c’era tra le battute. Per esempio: il momento in cui ci si riunisce nel basso per prendere il caffè al mattino. Donna Amalia prepara quello che in realtà è un surrogato e arrivano vari personaggi per berlo, pagando pochi centesimi. Giuseppe si inventò, per ognuno dei personaggi, un modo diverso di godersi la bevanda: ognuno di loro girava il caffè nella tazzina in maniera personale. Quel modo di usare il cucchiaino rappresentava lo stato d’animo di ciascuno di loro: il ragioniere faceva un rumore più ritmato, l’operaio girava più lentamente per ritardare il suo arrivo sul posto di lavoro e via dicendo. Era un vero e proprio concertato di cucchiaini … te lo garantisco, un momento molto emozionante. Abbiamo fatto un tournée lunghissima, dalla Sicilia al Nord Italia … dopo questo momento, puntualmente partiva un applauso molto sentito da parte del pubblico.
Giuseppe amava gli attori con i quali lavorava e li osservava sempre con attenzione. Non era solo una guida creativa, in lui trovavi anche una amico che apprezzava le cose belle che avevi da proporre sul palco.
Per ciò che concerne Luca De Filippo, abbiamo lavorato insieme per diversi anni. C’era una vera e propria simbiosi. Con lui ho affrontato i testi più divertenti di Eduardo. Durante le prove, non ci ha mai chiesto di essere divertenti … poi, in scena, le cose cambiavano all’improvviso. Le prove gli erano servite per capire quanto feeling ci fosse tra lui e i vari attori. Sul palco era lui a proporre il gioco e l’improvvisazione. Riuscendo sempre a controllare il tutto, rimanendo nella giusta misura. Era la perfezione.
Questi tre registi mi hanno insegnato l’amore per questo lavoro, la passione. E’ stata una scuola di vita. Ho avuto la possibilità di riuscire a comprendere il significato delle parole cura, attenzione, particolari, concentrazione.
C’è emozione pura nelle parole di Mario Porfito. La sua eleganza affonda le proprie radici nella gavetta che ha affrontato e negli incontri importanti della sua vita. Non riscontro tracce di autocelebrazione, tutt’altro: è molto misurato. Parla molto, coinvolgendoti nei suoi racconti, condividendo le sue idee.
A giudizio di Mario Porfito, credi sia necessaria l’esperienza teatrale per chi vuole intraprendere il percorso di attore? E’ una domanda che faccio spesso, legata al fatto che, al giorno d’oggi, la gavetta sembra essere un optional. Trascorri un paio di mesi in una casa circondata da telecamere e, all’uscita, giri 10 film …
E adesso vuoi farmi arrabbiare, vero? (Risata fragorosa). Che bella provocazione, la tua! Allora (ritornando immediatamente serio) … io provengo da una generazione di attori che hanno avuto la fortuna di poter iniziare questo mestiere partecipando a spettacoli con 20, 30 attori in scena di cui almeno 5, 6 di grande caratura. Per imparare, l’unico modo era metterci dietro le quinte e spiare, rubacchiare. Quello è stato un grandissimo privilegio. Io non ho mai fatto una scuola di teatro, io il teatro l’ho rubato. Poi, ovviamente, questi insegnamenti li ho fatti miei, ho proposto il mio modo di essere, la mia verità. Ci ho messo me stesso. E’ stato un immenso apprendistato, una forma di artigianato attoriale.
Detto questo, non posso credere che si possa arrivare alla recitazione senza aver percorso una strada analoga a quella della mia generazione, senza aver coltivato questo tipo di sensibilità.
Se fai “Grande fratello” non trovi nulla di nulla. Forse, un po’ di popolarità e un po’ di soldi che si potrebbero investire aprendo un bar, per esempio (ridiamo). Ma tutto ciò non è essere attori.
La nostra professione, oggigiorno, viene confusa con l’improvvisazione. Ci sono volti che si prestano di più, televisivamente parlando. A loro non è richiesto essere anche bravi. Devono solo riempire giornali di gossip e quant’altro.
Quando ho iniziato volevo essere Marlon Brando. Un ragazzino, oggi, magari spera di diventare come qualcuna di queste meteore … ebbene: sta sognando decisamente male. Se sogni, sogna in grande … altrimenti che si sogna a fare?
Quest’ultima frase la dice lunga. Perché avere, come punti di riferimento, un gruppetto di coinquilini semi isterici anziché guardare in direzione di chi l’arte la vive e la crea? Bisogna dare un giusto peso alle cose. La nostra vita è ciò che ci viene offerto. Il nostro compito è quello di separare ciò che vale la pena conoscere da ciò che non ci lascerebbe nulla.
Lina Wertmuller ti dirige in “Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti”. Quali differenze hai riscontrato (in termini di empatia, direzione degli attori) quando, alla regia, c’è una donna?
No, non ho mai avvertito differenze di questo tipo, sono sincero. In termini di sensibilità ci sono sicuramente degli elementi interessanti, ma una grande regista quale Lina Wertmuller non ha mai subito la sua condizione di donna.
Considera che “Un complicato intrigo …” è uno dei primi film in cui si parla di droga: il vedere uno spacciatore che buca un ragazzino è un vero e proprio cazzotto nello stomaco.
Lei è molto autoritaria; abbiamo lavorato in diversi film insieme e ci siamo frequentati anche al di fuori dei set cinematografici, avendo diversi amici in comune. A casa sua ha organizzato delle bellissime serate che erano delle straordinarie lezioni di cinema e teatro, il tutto di fronte ad un piatto di spaghetti. Lina, mentre dirige un film, pretende quello che vorrebbe vedere come spettatrice al cinema. E uno spettatore il sesso non ce l’ha, non ha genere. I suoi film devono avere quell’ironia velata, che la contraddistingue anche nella vita di tutti i giorni.
E’ stato (e, forse, lo è ancora, da qualche punto di vista) un ottimo alunno. Si è affidato agli insegnamenti di persone che gli hanno regalato il modo più giusto di affrontare una professione che è, soprattutto, un duro momento di autoconsapevolezza interiore.
Mi racconta mille aneddoti e lo fa con un tono pacato. In questo momento, sono io ad essere l’alunno. È una sensazione gradevole, che richiede però molta concentrazione e attenzione.
Mario Martone e l’esperienza di “Morte di un matematico napoletano” …
Stai facendo riferimento ad un film che, personalmente, ho amato moltissimo. Mario, che stimo molto anche a teatro, è un regista che potrebbe mettere in scena qualunque cosa, persino l’elenco telefonico (ridiamo). E’ capace di trasformare ogni situazione in teatro o film; credo che questo sia il suo punto di forza maggiore. Purtroppo, dopo questa pellicola, non ho avuto più la fortuna di collaborare con lui e me ne dispiaccio. C’è molta stima reciproca: ogni volta che ci vediamo, trascorriamo sempre del tempo a parlare dei nostri progetti.
Ed arriva la televisione: “La squadra” e il personaggio di Antonio Ramaglia ti donano un’immensa popolarità. Come vivi l’esperienza televisiva? Ci sono molti attori che si possono definire “puristi”: tendono a storcere un po’ il naso nei confronti del tubo catodico …
Io, in realtà, non è che ne abbia fatta molta di televisione. Non a caso, ho sempre pensato di essere un attore teatrale prestato per un periodo alla tv. Detto questo, “La squadra” è una cosa a parte: questa serie è stata realizzata in un periodo in cui Raitre era diretta dal giornalista Ruffini, un uomo di grandissima cultura. La sua idea, in relazione al progetto, era quella di una sorta di telegiornale amplificato. Non doveva essere solo puro entertainment, ma voleva che le storie raccontate venissero contestualizzate.
Gli attori scelti erano tutti provenienti da teatro: oltre a me, Massimo Wertmuller, Renato Carpentieri, Massimo Bonetti …
Se dovessi definirla, per me sarebbe una fiction di impegno civile.
Se vogliamo cambiare un quartiere come Scampia, non serve una macchina della polizia in più, che gira più frequentemente per quelle strade, quanto piuttosto innestare dei meccanismi di emulazione positivi.
Lo stesso Centro Polifunzionale in cui giravamo gli episodi, situato nei pressi della 167, divenne un posto in cui si poteva scoprire, entrandoci, l’esistenza di tantissime professionalità, dagli scenografi ai costumisti, passando per gli attrezzisti e i macchinisti. Spesso abbiamo utilizzato molti dei ragazzi del quartiere come figuranti. E’ questa la scuola che si può offrire ad un quartiere per cambiarlo.
A distanza di anni, io e gli altri colleghi siamo stati avvicinati da alcuni ragazzi che ci hanno rivelato che, dopo aver preso parte ad alcuni episodi della serie, si sono innamorati di questo mestiere e sono diventati macchinisti e così via.
Poi, ad un certo punto, la serie è terminata, purtroppo. Credo che avessimo ancora molto da poter raccontare.
Sono stati 8 anni meravigliosi.
Sai qual è stata la più grande soddisfazione? Spesso abbiamo ricevuto dei complimenti da parte di tanti papà, di vari genitori: “Avevamo paura, timore, di raccontare alcune cose ai nostri figli, volevamo trovare il modo più giusto. Ci avete aiutato”. Non a caso, negli episodi abbiamo parlato di temi importanti quali droga, aids e così via.
L’animo buono di Mario Porfito si rivela in toto. Ha un atteggiamento protettivo, quasi paterno. Autoritario? Chissà … di certo, molto attento all’evolversi delle situazioni.
Interpreti due film con Salvatore Piscicelli, “Blues metropolitano” e “Baby gang”. Quanto è importante, ai fini della riuscita del progetto, l’empatia tra un regista e gli attori coinvolti?
Certo, sicuramente!
Salvatore, tra le altre cose, è stato il primo a raccontare un Napoli diversa, così come è stata descritta poi da tante fiction e tanti film, almeno venti anni dopo. Ha anticipato i tempi, anche a costo di scontentare i gusti di un pubblico medio. La gente, all’epoca, inorridiva di fronte alle storie che mostrava. Pensavano che quei microcosmi non gli appartenessero … solo più tardi, si è resa invece conto che quei personaggi vivevano sul loro stesso pianerottolo. Forse, c’era solo il rifiuto di accettare tali situazioni. Questa, credo, sia stata la sfortuna di Salvatore, al quale poco è stato riconosciuto. Avrebbe meritato indiscutibilmente di più. Restano alcune pellicole bellissime, come “Le occasioni di Rosa”, cinematograficamente straordinario.
Mario Porfito porta la sua immensa professionalità sia nel mainstream sia in progetti indipendenti. Quali sono i punti di forza e i punti deboli del lavoro indie?
I punti di forza sono la creatività e la capacità di raccontare senza costrizioni, in maniera libera. Un regista che affronta un progetto indie per la prima volta, ha un coraggio ammirevole.
“Romeo e Giulietta” è la storia d’amore più famosa … quanti hanno parlato d’amore al cinema? Eppure c’è sempre una nuova chiave da rappresentare. Ogni volta ne rimango sorpreso. Queste novità danno sempre nuova linfa al mondo del cinema.
I registi indie sono sicuramente più aperti nei confronti delle nuove grammatiche di racconto.
Persino gli americani affidano progetti multimilionari a ragazzi giovanissimi, di 27/28 anni, perché sanno che questi cineasti daranno uno sguardo diverso, più fresco.
Poi, sia chiaro: l’indipendente deve andare di pari passo con le qualità artistiche. Se l’indie viene accompagnato dalla cialtronaggine, non è più cinema.
“Il sogno nel casello” di Bruno De Paola, nonostante il budget limitato e i mille intoppi distributivi, è diventato un vero e proprio cult. Secondo te, il pubblico è davvero così impreparato alla novità?
Bruno De Paola è stato uno dei registi de “La squadra”. E’ un ottimo regista. Il suo sogno era quello di esordire con un lungometraggio. Quando mi ha contattato, ho accettato con entusiasmo perché mi è piaciuto il progetto all’istante. E’ chiaro, i mezzi sono ridotti e talvolta i limiti si riconoscono, però mi è sembrato giusto partecipare. Mi fa piacere che tu l’abbia ricordato in questa intervista.
Ritornando alla tua domanda … no, il pubblico non esiste in quanto entità omogenea. Esiste la proposta. Alle persone devono essere offerte le cose, le alternative. Starà poi a loro la decisione di sceglierle o meno.
Purtroppo, molti produttori sono convinti di conoscere i gusti del pubblico. Questo determina un appiattimento generale dell’offerta. Non si possono intercettare le preferenze degli spettatori.
Di sicuro, quando ci sono qualità, professionalità e impegno le persone gradiscono ciò che gli proponi.
Non cambia quasi mai il tono della voce nel corso dell’intervista. Tende però a difendere le sue idee in maniera schietta, con una punta di orgoglio. Ha stima per il suo lavoro e quello dei suoi colleghi. Il rispetto prima di tutto.
Le mille anime di Mario Porfito: dal drammatico alla commedia. C’è un ruolo che vorresti interpretare e che non ti hanno ancora offerto?
Non saprei dirti sai? Sicuramente c’è qualcosa che vorrei esprimere, ma che non ho ancora espresso. Questa sensazione io l’avverto, ma non saprei spiegartela né tantomeno quale ruolo la potrebbe contenere, nel caso. C’è la voglia di raccontare altri miei stati d’animo, che forse non ho ancora trovato nei personaggi che mi hanno offerto. Ma un ruolo preciso non te lo so dire così, su due piedi.
Giusto per dire: se interpretassi un serial killer troverei delle sfumature stimolanti, ma le stesse potrei ritrovarle recitando il ruolo di un impiegato di banca.
Domanda multipla: ultimo film visto al cinema, ultimo libro letto, ultimo cd acquistato, ultimo spettacolo teatrale al quale hai assistito.
“La tenerezza” di Gianni Amelio. Mi è piaciuto davvero tanto. Nel cast, un Renato Carpentieri strepitoso. Sai cosa mi fa arrabbiare? Solo ora il cinema italiano si sta accorgendo di lui. Questo dimostra come il pubblico e la critica siano ancora distratti. Con Renato ho lavorato spesso, anche a teatro, lo conosco bene. Credo sia, in assoluto, uno dei migliori attori italiani.
Al momento sto leggendo “La strada degli americani” un libro di Giuseppe Miale di Mauro. Molto interessante, ne consiglio la lettura. Tra le altre cose, tra un libro e l’altro, ritorno sempre a Simenon, uno dei miei autori di riferimento.
Cd non ne compro da tempo. Ho sempre amato i cantautori italiani come Ivano Fossati. Quel tipo di musica non lo trovo più in giro. Qualche volta mi lascio un po’ trasportare dalle canzoni che mi postano sui social.
A teatro ho visto “Spoglia-Toy” di Luciano Melchionna, all’Accademia delle Belle Arti. Uno spettacolo molto riuscito. Luciano è stato in grado di dare un’immagine del mondo del calcio cinica, vera e con il giusto distacco. Tra i calciatori, a me è capitato il bravo Lorenzo Balducci.
Al termine di questa domanda Mario Porfito mi chiede di riportare tutto quello che, di buono, ha detto dei suoi colleghi. Non è in competizione con nessuno, riconoscere i pregi degli altri, non lo renderà di certo inferiore o meno bravo. Questo equilibrio caratteriale è estremamente invidiabile.
Cosa dobbiamo attenderci da Mario Porfito per questo 2017?
Allora … da me dovete solo aspettarvi il mio impegno a coltivare questo lavoro nel migliore dei modi possibili. In aggiunta a ciò, durante l’inverno interpreterò “Dì che ti manda Picone”, scritto da Elvio Porta. E’ il seguito della storia del film ”Mi manda Picone”. E’ la storia del figlio di quel Picone, che viene avvicinato da un gruppo di politici (essendo lui il figlio di un eroe del lavoro) che gli propongono di candidarsi alle elezioni per poi poterlo utilizzare a loro piacimento per intrallazzi vari. Il protagonista è Biagio Izzo, in un ruolo assolutamente nuovo.
Terminiamo con una marzullata : fatti una domanda e datti una risposta
E’ finita l’intervista? Mi auguro di sì! (Scoppia a ridere).
Mario Porfito termina così, in leggerezza. Nel momento in cui ci saluta, mi dona una pacca sulla spalla, quasi per dire “Chissà, magari un giorno troverai una chiave per interpretare quello che ci siamo raccontati oggi pomeriggio”.
L’osservo allontanarsi, con quel passo elegante e delicato. “Se sogni, sogna in grande” ha detto prima … mi piacerebbe, nel tempo, conquistare parte di quell’equilibrio che lo contraddistingue. Credo che questo sogno, in quanto tale, sia grande abbastanza …