Di Christian Coduto
Un po’ di tempo fa, quando i social erano solo un miraggio, l’unico modo per contattare il tuo cantante preferito era navigare sul suo sito ufficiale. Un click ti indirizzava su una casella di posta elettronica e lasciavi lì la (remota) speranza di ricevere una risposta.
Con Leandro feci la stessa identica cosa, un po’ demoralizzato e disincantato. A sorpresa, invece, ricevetti una e-mail di risposta quasi immediata, con tanto di saluti a mia madre, sua grandissima fan.
Pochi giorni dopo mio padre morì, lasciandoci spiazzati. Leandro mi inviò un messaggio molto tenero, che conservo ancora gelosamente.
Intervistarlo, oggi, mi dà l’idea di chiudere un cerchio, di dare un ulteriore senso a quel momento.
Leandro Barsotti si racconta …
Immagina di essere seduto sul lettino di uno psicologo: chi è Leandro Barsotti?
Oh Signore (ride) … Leandro Barsotti è un uomo che è riuscito a vivere delle esperienze artistiche bellissime. Ho sempre avuto la passione per la scrittura, sin da quando ero ragazzino: racconti, poesie, canzoni … ho sempre cercato di ricercare me stesso attraverso la scrittura. Ho suonato con varie band fino a quando non c’è stato l’incontro con Mara Maionchi alla quale, semplicemente, avevo spedito in precedenza la classica cassetta con alcune canzoni che avevo composto. Ho avuto l’opportunità di lavorare per dieci anni con Michele Canova che, ora, è il produttore italiano numero uno. Una collaborazione divertente, che mi ha permesso di imparare tantissimo.
Leandro Barsotti è un cantante, ma anche un giornalista. Come riesce a far coesistere queste due anime?
In realtà è stato più difficile quando ero sotto contratto con la RCA. Quando uscì l’album “Vitamina” mi ritrovai con un numero di impegni lavorativi incredibile, tanto che fui costretto a mettermi in aspettativa dal giornalismo. Ora è tutto più gestibile: canto di meno e mi dedico maggiormente alla scrittura. Lavorare per un giornale mi piace moltissimo: negli ultimi anni mi sto dedicando alla parte web, faccio diversi video … la cosa mi gratifica tanto.
Un successo radiofonico forte, di grande impatto, con una canzone deliziosa: “Mi piace” …
“Mi piace” l’ho scritta in un momento della mia vita in cui ero molto, ma molto innamorato. Sai come funziona no? In quei momenti vedi tutto bello … i sorrisi … quando il cuore è assaltato da questa rivoluzione che chiamiamo sentimento, le cose le vediamo in un’ottica completamente diversa. Con quel mood scrissi quindi un brano di estrema positività che ebbe grande successo. Evidentemente, in quel momento (e non solo), le persone avevano bisogno di cose positive, felici. È necessario ricordarci sempre che ognuno di noi ha bisogno di essere caricato di frasi, suggestioni e sensazioni appaganti. Viviamo in un mondo che ci invia troppo frequentemente cose negative.
“Voglio che mi ami”, invece, è una ballata struggente, dolorosissima. Una scelta folle, proprio perché destabilizzante. Ti piace rischiare, stravolgere le carte in tavola? Solitamente, in Italia, se fai musica dance, sei obbligato a farla in eterno …
“Voglio che mi ami” fa parte di “Vitamina” proprio come “Mi piace”, però la scrissi prima, proprio in un momento di grande sofferenza amorosa. Il disco venne inciso durante l’estate e venne distribuito durante l’inverno. Il fatto è che l’acquirente ascoltò le canzoni in una successione radiofonica, ma quella di scrittura fu completamente differente. “Mi piace” è stata una delle ultime, insieme a “Quando sei vicino a me”.
Per ritornare a ciò che dicevi: sì è vero … non mi sono mai adattato alle regole del mercato. Non ho più scritto, giusto per dire, una nuova “Mi piace”. E’ bello fare, artisticamente, sempre cose diverse, cose nuove.
Ed arriva Sanremo 1996: “Lasciarsi amare”. Che ricordi hai di quella esperienza?
Un ricordo un po’ di sofferenza (lo guardo stupito). Mi spiego meglio: non era questa la canzone che avrei voluto portare al Festival. Poi, con Pippo Baudo, la mia casa discografica, i miei produttori si decise per “Lasciarsi amare” … questa cosa mi preoccupò molto, perché è un brano di difficile interpretazione, avevo paura di sbagliare.
Ora come ora, però, sono contento di averla interpretata: è cresciuta molto, nel tempo. Sicuramente ha un senso più profondo, rispetto a venti anni fa. Non a caso, è ancora molto trasmessa dalle radio.
L’anno successivo ritorni a Sanremo con la vivace “Fragolina”. Come in ”Vengo a dirti che ti a” o “Fammi un sorriso” offri al pubblico un tuo lato fumettoso, adolescenziale.
Hai detto una cosa bellissima! Purtroppo pochi, all’epoca, capirono: quella canzone era proprio un fumetto. Ascoltandola bene, ti accorgi che è un gioco, è sognante. Era quella l’idea: costruire un brano giocoso. Michele Canova, ancora oggi, quando ci sentiamo mi dice “Per me, quella è una delle canzoni più belle che abbiamo fatto insieme!”. “Fragolina” era una canzone strana … in quel momento fu davvero rivoluzionaria. Purtroppo, come spesso accade, le cose particolari non vengono capite e venni eliminato la prima sera. Più che per l’eliminazione, mi è dispiaciuto il fatto che le radio non abbiano capito lo scopo del brano.
Le sue risposte profumano di consapevolezza. Piccoli rimpianti, piccole incompletezze, ma nulla gli ha impedito di essere l’uomo che è ora. E’ molto padrone di ciò che vive.
Nell’album “Bellavita” c’è spazio anche per “Luca e Marco” …
“Luca e Marco” credo sia una delle prime canzoni italiane a narrare di una relazione tra uomini. Io l’ho scritta dopo essere stato ispirato dai racconti di un mio amico che, appunto, si chiama Marco. Volevo parlare di una storia d’amore nel modo giusto; erano gli anni ’90 … tante cose, per fortuna, sono cambiate. Volevo evitare gli stereotipi legati all’amore omosessuale. I film di quel periodo, i programmi televisivi, i libri erano pieni di luoghi comuni e la cosa non mi piaceva.
Purtroppo non c’è stata la possibilità di promuoverla radiofonicamente, però l’ho proposta regolarmente durante i concerti.
Mi parli un po’ di “Il silenzio dell’anima”, un brano al quale tu sei molto legato?
E’ una canzone che ha avuto un percorso un po’ travagliato: l’abbiamo scritta e riscritta almeno due, tre volte. E’ una brano che dà un senso all’album “Il segno di Elia”, che è molto spirituale … quando riesci ad entrare nel tuo silenzio personale, la tua parte interiore, scopri anche un mondo nuovo, totalmente differente dal mondo reale. E’ alla base della ricerca dell’inconscio. Ho composto l’album in un periodo della mia vita in cui avevo incominciato a lavorare sulla meditazione. E’ una ricerca che dovrebbero fare tutti, leggersi dentro. A te capita?
Sì, durante la notte.
(Sorride) La scoperta della propria interiorità ti aiuta a crescere e ti permette di avere una visione più lucida della vita. E’ uno studio molto affascinante.
Appunto. Un atteggiamento Zen nei confronti della vita. Meditativo. La voce trasmette quiete. Di sicuro gli eventi possono renderlo (talvolta) meno pacato, ma sa come gestire i momenti no. E’ un lavoro impegnativo, che richiede del tempo.
Nel 2007 esce “Il jazz nel burrone”, un strepitoso omaggio a Serge Gainsbourg. Un personaggio scomodo, spesso eccessivo. Alcuni rimasero sorpresi da questa scelta anche se, a ben pensarci, nel 1995 avevi parlato di sesso in maniera piuttosto diretta nel brano “Lo specchio”. Cosa ti affascina maggiormente di questo artista?
E’ giusto quello che dici: “Lo specchio” fu proprio un esercizio linguistico e musicale ispirato a Gainsbourg. Ma se pensi anche a “Vecchio bastardo” dell’album del 1992 “Ho la vita che mi brucia gli occhi”, il discorso è analogo.
Lui era una grande provocatore. Mi piace molto perché era un grande poeta, un innovatore. La provocazione è un bel modo per introdurre elementi nuovi.
L’ho omaggiato, utilizzando le canzoni del periodo jazz degli anni ’60. Le ho tradotte in italiane e ho scritto un libretto allegato al cd, in cui ho raccontato la sua vita. E’ stata la mia prima di esperienza di romanzo.
Tra le altre cose, anche Vasco Rossi, Elio e le storie Tese, gli Skiantos, Gino Paoli, Piero Ciampi, Luigi Tenco sono stati dei grandi provocatori. Il nostro cantautorato ne è ricco.
Leandro Barsotti esordisce nell’ambito letterario con “L’amore resta”, ti va di parlarcene?
La mia idea era quella di condividere l’evoluzione del sentimento.
In una canzone tu racconti un momento.
L’amore è fatto di momenti gioiosi, attimi dolorosi, momenti in cui hai bisogno di chiuderti in te stesso, tempi di riflessione e così via. Ognuno di questi momenti produce in te un cambiamento o, comunque, una conoscenza di te e dell’altra persona. Tutti questi momenti, però, sono delle finestre. Io volevo scrivere una storia in cui provare a raccogliere l’evoluzione delle emozioni: dall’amore passare al disamore fino all’incontro con un nuovo amore. Il protagonista esce da una storia d’amore ed entra in un’altra, dopo un periodo di grande riflessione. Quello che impara è che tutte le esperienze che ha avuto in amore, per quanto possano essere felici o dolorose, rimarranno sempre dentro di sé. Nulla sarà mai perduto: tutto contribuisce a renderlo la persona che è oggi.
Una sensibilità profonda, matura. Legata sicuramente alle mille esperienze che ha vissuto. Parlare con lui è stimolante, ti spinge a riflettere, porti delle domande e cercare avidamente delle risposte …
La tua vena compositrice segue strade sempre differenti: non ti sei fatto mancare nemmeno una piccola svolta dance, scrivendo “I love you” per Sabrina Salerno …
Per un lungo periodo io e Sabrina ci siamo visti spesso. Lei vive a Mogliano Veneto, io a Mestre, in più sono amico del suo compagno. Michele Canova lavorava sia con me sia con lei. Un giorno, mentre lei era in studio per preparare il suo nuovo album, la raggiunsi e lei mi chiese di darle una mano. “I love you” ebbe grande successo in Spagna. In realtà, per l’album composi anche un altro brano, ma non venne pubblicato, peccato: era molto forte.
In quel periodo scrissi anche per I ragazzi italiani, per esempio, ma anche per Marco Morandi, Riccardo Fogli e Il Migno…
Ultimo film visto al cinema, ultimo cd acquistato, ultimo libro letto, ultimo spettacolo teatrale al quale hai assistito.
“La battaglia di Hacksaw Ridge” di Mel Gibson, che mi ha colpito molto.
Sto ascoltando a ripetizione Gazzelle e i singoli di Frah Quintale, mi piace tanto la realtà indie, offre delle belle novità nella musica italiana.
“Sono stato più cattivo”, l’autobiografia di Enrico Ruggeri. Enrico è un mio amico, trascorreremo in questi giorni una serata insieme.
A teatro manco da tempo. Però recentemente ho visto uno spettacolo di cabaret di Marco e Pippo.
Cinema e musica vanno di pari passo. Qual è il film della vita di Leandro Barsotti e perché?
Il film della mia vita è “Betty Blue”. Lo vidi in Francia anni fa, avevo venti anni. Da allora l’ho rivisto più volte. Ogni tanto, rivedo delle sequenze da youtube. Conservo ancora il poster. Non saprei dirti il perché di questo amore … mi colpì Beatrice Dalle. Per non parlare della colonna sonora, fantastica!
Poi, giusto per dire, amo tantissimo anche il cinema di Woody Allen.
Cosa dobbiamo attenderci da Leandro Barsotti nell’immediato futuro?
Sto scrivendo il mio secondo romanzo; è una storia in cui credo molto. Non vedo l’ora di terminarlo e pubblicarlo.
Ed ora tira fuori il Marzullo che c’è in te: fatti una domanda e datti una risposta
“Leandro, in questo momento della tua vita, ti puoi definire felice?”
“Sì, sono felice, perché ho raggiunto molti obbiettivi che stavo cercando nella vita e ne ho altri da raggiungere … la vita è soprattutto lavorare per raggiungere degli obbiettivi. Quando ottieni un risultato sei felice, ma la gioia è temporanea, dura pochi giorni. La storia di evoluzione per arrivare al traguardo è sicuramente più affascinante”.
E che questo viaggio sia sempre ricco di emozioni, Leandro. Da raccontare e condividere, volendo, con chi ti segue da tanti anni.