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Categoria

Curiosità

Cannabis
CulturaCuriositàIn primo piano

Cannabis come sudario in un’ antica tomba cinese

scritto da L'Interessante

Cannabis

Di Antonio Andolfi

Un bouquet consistente e quasi intatto di piante di cannabis è stato ritrovato in un sito funerario del nord-ovest della Cina, in un vasto cimitero del bacino di Turpan associato alla locale cultura Gushi, e risalente a 2800-2400 anni fa.

Queste tombe – ciò che resta di una civiltà fiorita su uno snodo importante della Via della Seta – sono note per aver restituito, negli ultimi anni, alcune tra le più antiche testimonianze dell’uso di cannabis. Ma il ritrovamento descritto su Economic Botany ha caratteristiche eccezionali. A partire dalle modalità di sepoltura: le piante, 13 in tutto, sono disposte a coprire, come un sudario, il corpo di un uomo sui 35 anni, sdraiato su un supporto di legno e con un cuscino rosso sotto il capo.

Gli steli, lunghi circa 90 cm, rivestono una porzione di corpo compresa tra il bacino e la guancia sinistra. Soprattutto, sono interi: è la prima volta che gli archeologi sono in grado di rinvenire antiche piante di cannabis complete, per di più usate per ricoprire un feretro.

Cannabis. Non è la prima volta

Resti di cannabis erano stati trovati, in passato, anche in altre sepolture di Turpan: una decina di anni fa, in una tomba nel vicino cimitero di Yanghai furono scoperti quasi 900 grammi di semi e foglie di cannabis triturate. A ovest del sito, nella Siberia meridionale, semi di cannabis sono stati rinvenuti nella tomba di una donna vissuta nel primo millennio a.C., e morta probabilmente di cancro al seno. Il sospetto è che la sostanza fosse servita ad alleviare il dolore della malattia.

Come veniva usata la cannabis ?

Ma il fatto di non aver trovato finora piante intere non consentiva di capire se la cannabis fosse importata o coltivata in loco. Il nuovo ritrovamento sembra sciogliere il mistero e dà indizi anche sul suo utilizzo: non sono stati trovati tessuti in canapa, e i semi rinvenuti nelle tombe erano troppo piccoli per ricavarne oli essenziali. Inoltre, le piante presentano ancora le ghiandole della resina o tricomi dai quali si estrae il THC, la sostanza psicoattiva dei cannabinoidi. L’ipotesi è che la resina fosse inalata come un incenso o bevuta per scopi rituali o medicinali.

Gli steli permettono anche di risalire alla stagione di sepoltura. La maggior parte dei fiori delle piante era stata tagliata prima dell’inumazione, e i pochi rimasti sono immaturi: la morte, e il rito funebre, dovettero quindi avvenire in tarda estate.

Cannabis come sudario in un’ antica tomba cinese was last modified: marzo 12th, 2017 by L'Interessante
12 marzo 2017 0 commenti
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Interculturalità
CuriositàParliamone

Intercultura o Globalizzazione? Melting Pot!

scritto da L'Interessante

intercultura

Di Michele Calamaio

Intercultura? Una parola che risulta essere ancora sconosciuta a molti, ascoltata di rado da tanti, ma ben conosciuta dagli addetti ai lavori che, grazie allo sviluppo e alla diffusione dei mezzi di comunicazione, oggi giorno fanno dell’informazione internazionale il loro pane quotidiano e alimentano la fiamma della speranza che spinge verso un futuro nuovo e diverso, dove l’agglomerazione di più culture, più popoli e più mentalità sia possibile e dove la ricerca di in continuo scambio e progresso sociale sappia da subito rappresentare un continuum credibile per un coinvolgimento e un perenne arricchimento del reciproco bagaglio culturale. Come è possibile tutto ciò? Semplicemente perché Intercultura significa conoscenza, contatto, scambio tra lingue ed interazione, a tal punto da eliminare anche il solo puro sentimento di odio che ha trascinato per secoli guerre e martiri inutili, a tal punto da scomodare senza scrupoli l’assimilazione di un concetto tanto rude quanto vergognoso come la discriminazione, a tal punto da mutare totalmente un panorama di concetti che ispeziona ora nuovi modelli di “osmosi culturale”, all’interno dei quali i modelli altrui sono fonte di ispirazione e il sincretismo tra le razze non rappresenta più un’effimera speranza buttata al vento dall’ennesima brutale forma di razzismo ma la mano che sorge dalle ceneri di una vittoria per la pace.

<<Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze>> diceva Paul Valery; <<Felice è chi è capace di amare il diverso>> confermava Hermann Hesse; entrambi avevano in comune un unico desiderio: rigenerare quel posto, già conosciuto come mondo, che permettesse ad un singolo gesto di cambiare la società ed ad un vincitore di continuare a sognare senza mai arrendersi, così come predicava Mandela, esattamente così come profetizzava Gandhi. “Melting Pot” lo chiamano gli inglesi, ovvero quel “crogiolo” di società diverse che imparano a vivere insieme, che formano la generazione del futuro attraverso il rispetto e la commistione di elementi di origini eterogenee diversi, con il risultato finale di costruire una identità condivisa e prospera; ma con il termine “Globalizzazione”, forse, il tutto risuona un po’ più familiare: il processo di transazione da un sistema ad un altro che implica mutamenti socioculturali è purtroppo un intervento di sostegno che ha bisogno di tempo per essere studiato, necessita strategie di adattamento tra il “vecchio” ed il “nuovo” e non certamente vede dinnanzi a sé una immediatezza risolutiva capace di arrestare una società ancora troppo selvaggia per essere civilizzata sotto nuovi parametri culturali, sociali e religiosi. Il primo importante passo da compiere, dunque, è quello fatto in direzione delle popolazioni in via di sviluppo, le stesse che hanno visto per anni usurpati il proprio “oro vitale” dinnanzi ad un mancato riconoscimento di tutti i diritti universali ed il negato riconoscimento dell’identità di popolo.

Intercultura “put into practice”: intervista a due ragazze neo-italiane

Ma cosa più spaventa o attrae di questo viaggio? Quali paure si porta dietro chi riesce a farsi forza ed intraprendere un percorso “fuori dagli schemi”? Cosa si genera nell’animo di chi prova a mettere in pratica tutto ciò senza aver paura di rischiare a rimettersi in gioco? Domande che forse non avranno mai una risposta limpida e chiara, mai forse una del tutto congruente con il resto delle altre esperienze che, come questa, cambiano la vita ma, nel tentativo di arrivare ad una banale seppur determinate conseguenza “fuori programma”, noi proviamo ad entrare nella più profonda logica dei medesimi mutamenti destinati a cambiare il mondo.

Eva e Yara sono dure ragazze all’apparenza diverse tra di loro, la prima di origini greche mentre la seconda siriane, ma intrinsecamente unite da un destino che ha deciso di farle incontrare e appassionare ognuna della vicenda altrui, portandole a costruire un’amicizia più forte delle barriere che da anni impediscono la sola comunicazione o l’approccio culturale tra popoli. Le abbiamo intervistate per capire quali sono state tutte le dinamiche della loro storia e per scavare più a fondo in una vicenda che rappresenta a tutti gli effetti i tratti di una nuova “speranza interculturale” nel mondo

Come siete arrivate in Italia e come è stato il vostro processo di integrazione?

E: Beh la mia è una storia particolare. Nasco da un padre greco e una madre italiana, di Viterbo, e passo la mia infanzia in Grecia, stando totalmente a contatto con la vita quotidiana di tutti i giorni tra scuola, amici e famiglia e parlando il greco “per la maggior parte del tempo”: perché si, seppur vivendo nel paese ellenico, in famiglia parlavamo anche l’italiano rispettando le origini materne. Il tanto atteso “ritorno” nel bel paese, invece, non mi risulta per nulla complicato: vivo con i nonni materni in provincia di Viterbo e frequento la facoltà di Chimica e Tecnologie Farmaceutiche all’Università di Urbino. Mi trovo bene, non trovo eccessive differenze tra i due paesi e la lingua, per evidenti ragioni, la conosco abbastanza bene, con tanto di accento romano. La mia è, sin dall’inizio, una storia a lieto fine, determinata dalla mia capacità di accettazione della situazione che ho vissuto, senza pormi problemi sul “perché”: per me l’interculturalità che ha caratterizzato la mia vita è pura normalità, la accetto e la considero fonte di profonda conoscenza interiore, che ti permette di maturare sotto tutti gli aspetti sociali e culturali.

Y: Se la storia di Eva è particolare, la mia lo è di più. Provengo da una famiglia siriana emigrata dal proprio paese per evidenti ragioni e ho passato la maggior parte della mia vita in Grecia: lì la situazione è stata abbastanza complicata per me all’inizio, perché tra la lingua e l’accento che avevo acquisito, il “marchio” che mi portavo addosso e di cui mai mi sono vergognata e una realtà sociale e culturale completamente diverse dal mio paese d’origine, ho vissuto momenti altalenanti e difficili. Tuttavia, mi sono sempre considerata abbastanza forte da superare tutto ed andare avanti: ed ecco come mi trovo ora in Italia, a frequentare la facoltà di Farmacia all’Università di Urbino, cominciando una ennesima nuova esperienza che continua a rivoluzionare la mia vita. Ora mi sento bene, mi sento sollevata sotto vari aspetti e mi riconosco in questa nuova immagine che ho creato di me stessa: una ragazza che ha vissuto tanti periodi difficili ma che non ha mai permesso alle circostanze di prendersi un futuro tutto dalla mia parte

Cosa si prova a sentirsi “estranei” all’interno di una realtà non propria? Quanto tempo ci è voluto prima di una completa e totale osmosi con il nuovo mondo?

E: Come anticipato prima, il mio processo di integrazione non è stato difficoltoso: mi consideravo a tutti gli effetti una cittadina italiana e cittadina del mondo. Per carità, all’inizio anche io ho vissuto momenti in cui mi percepivo “particolare”, ma è stata sempre una particolarità che ho vissuto con piacevolezza, tranquillità ed entusiasmo, perché non c’è niente di più bello che assuefarsi ad un mondo che ti accoglie a braccia aperte e ti aiuta a capire che essere figlia dell’incontro di due mondi paralleli è un emozione tanto indescrivibile quanto straordinaria da provare.

Y: Bella domanda. Come già risposto a priori, non ho mai permesso alle situazioni né alle persone che mi circondavano di programmare la mia felicità, ma anzi ho sempre affrontato di petto una realtà che all’inizio rischiava di risucchiarmi, e che alla fine è riuscita ad apprezzarmi per quella che veramente sono. Quindi si, mi sono sentita “estranea”, ma anche nel mio caso è stata una estraneità che mi è servita tanto a maturare idee diverse da quelle che mi ponevano problemi all’incipit, a crescere e a ribellarmi di fronte ad una verità che in realtà era menzogna: ho capito finalmente che solo con l’integrazione tra conoscenze, pensieri, modi di fare e pensare e culture si arriva ad un arricchimento totale della persona stessa, a tal punto da considerarsi parte di una società che non ti giudica più, ma ti rende partecipe e ti ingloba in tutto e per tutto, in una <<totale e completa osmosi>> appunto

Similitudini con persone della stessa situazione aumentano o riducono il senso di appartenenza al nuovo paese ospitante? e per la mancanza del proprio?

E: Questa domanda è stata, in parte, risposta già precedentemente, ma ci tengo a precisare una cosa: tutto ciò che mi viene in soccorso nel mio percorso di formazione personale non solo è ben accetto, ma rappresenterà anche la motivazione principale a farmi capire che non esistono fattori che aumentano o riducono il senso di appartenenza ad un nuovo paese o il senso di mancanza del proprio, perché siamo nati per essere cittadini del mondo dove l’unica appartenenza è quella realtà umana che ci accomuna, e come tali dobbiamo lavorarci su e cercare di essere in grado di rapportarci con tutti, senza mezzi termini, senza creare problemi di razzismo, discriminazione o xenofobia. Proprio questo ha portato a creare le condizioni tali affinché incontrassi, per caso o per destino, una persona come Yara: la mia consapevolezza mi ha spinto a fare sempre di più verso una persona che “chiedeva aiuto” a modo suo, unite dallo stesso bisogno di essere apprezzate per quello che davvero eravamo. Incontri così, casuali o voluti da qualcuno di superiore, sono eventi che ti cambiano la vita e ti fanno capire l’importanza di essere aperti a qualsiasi tipo di stravolgimento, che sia esso culturale o sociale, e che qualsiasi cosa che abbia a che vedere con il fenomeno della globalizzazione, dell’interculturalità e del Melting Pot non rappresenti neanche minimamente un fattore di crescita negativa.

Y: Confermo rispondendo allo stesso modo: l’incontro con Eva è stata, da una parte, la mia ancora di salvezza quando sono arrivata in Italia, perché era come se avessi totalmente bisogno di affiancarmi a qualcuno che si “prendesse cura” di me dopo i tanti momenti difficili passati nella mia vita; ma, dall’altra, ha creato in me la consapevolezza che i fattori che aumentano o riducono il senso di appartenenza ad un paese o la nostalgia per il proprio hanno un origine diversa e più profonda degli schemi della società attuale. Spesso sono solo sentimenti o mancanze che vengono colmate dagli imprevisti della vita, come il banale incontro con persone in grado di farti osservare e vivere quella stessa nostalgia con serenità o che addirittura, grazie alla semplice compagnia che ti tengono, riescono a farti sentire così tanto a casa da apprezzare qualsiasi luogo, qualsiasi momento, qualsiasi attimo insieme a loro. La conclusione è che, semplicemente, non possono e non devono esistere barriere, muri o imposizioni all’educazione, ma permettere la creazione di un mondo dove la una stessa abbia la “necessità culturale” di ampliarsi vivendo situazioni come la nostra, dove l’”estraneo” è colui che preferisce non rischiare, morire nell’ignoranza e rimanere inerme di fronte al cambiamento positivo della legge universale che solo le società hanno imposto, e non colui che, invece, ha messo in gioco la propria vita per trasformarla nella più bella scoperta del mondo

Aspettative per il futuro? Come sarà?

E & Y: Semplicemente sarà “internazionale”, sarà uno di quelli da raccontare ai nipoti o da scrivere nei libri sulla scia di “I have a dream”, affinché la paura di un cambiamento nel mondo non sia più un dictat di dubbio perenne ma l’inizio di una nuova parola d’ordine che regali nuovi emozioni: Interculturalità.

Intercultura o Globalizzazione? Melting Pot! was last modified: marzo 9th, 2017 by L'Interessante
9 marzo 2017 0 commenti
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pompei
CulturaCuriositàIn primo piano

Pompei. Il vino al tempo degli antichi Romani

scritto da L'Interessante

pompei

Di Antonio Andolfi

 

Pompei è un gioiello del nostro patrimonio archeologico, uno scrigno del passato, i cui resti ci dicono tanto sulla vita degli antichi Romani.

L’attività principale di Pompei era la produzione del vino, come testimoniato da numerosi affreschi. Le viti coltivate nell’area vesuviana erano quelle ricordate da Plinio e da Columella: l’Amine gemina minor, caratterizzata da grappoli doppi; la Murgentina, uva di origine siciliana, molto diffusa a Pompei, ecc..

I vigneti sono stati piantati seguendo le tracce delle antiche viti, di cui si notano ancora i calchi in gesso ricavati riempiendo il vuoto lasciato nel terreno dalle radici che si decomposero dopo l’eruzione. I calchi delle radici sono spesso affiancati da quelli dei pali di sostegno del filare.

Ma come si produceva il vino allora?

Il vino nell’antica Pompei

L’uva raccolta era trasportata con i carri nelle fattorie (villae rusticae) dove veniva premuta e dove era conservato il vino, fino alla vendita o al consumo.

Allora immaginate, in autunno, lunghe file di schiavi rovesciavano tanta uva da delle ceste in una grande vasca. Qui altri schiavi, chiamati calcatores, pestavano quest’uva a lungo, per ore, e il succo che si formava veniva poi veicolato con dei tubi, delle condotte. Ma non è tutto.

Da un chicco pestato, infatti, si può ancora ottenere del succo, e questo i Romani lo sapevano bene, ma come? Con un torcular, cioè un torchio.  Allora raccoglievano le vinacce, cioè la polpa, le bucce, e lasciavano macerare per qualche giorno, e questo rendeva il tutto molto più liquido, quindi più facile da spremere, poi lo accumulavano all’interno di contenitori, e già il peso della trave cominciava a schiacciare le vinacce, poi grazie ad un sistema a verricello, bastava tirare delle leve e si aumentava la pressione all’inverosimile, fino ad ottenere l’ultimo succo possibile dalle vinacce. E questo liquido correva in una grondaia, in una canaletta laterale fino ai dolia delle celle vinarie, cioè esattamente lo stesso percorso fatto dal liquido ottenuto pestando con i piedi l’uva.

Ma cosa accadeva a questo punto?

Bisognava lasciare i dolia aperti, assistere alla fermentazione , una fermentazione che per 10 giorni doveva essere molto violenta, quasi un ribollire, poi la si controllava per un’altra ventina di giorni, e poi si richiudevano i dolia con dei grandi coperchi in terracotta, e sopra si mettevano delle altre coperture, simili a degli scudi protettivi. E a questo punto cominciava la maturazione, era un processo che poteva durare mesi o addirittura anni.

Com’era il vino a Pompei

Allora non esisteva il novello, il vino solitamente dopo una vendemmia autunnale, veniva consumato non prima della primavera seguente, ed era molto apprezzato quello invecchiato qualche anno, 2, 3, solitamente, 5, 10 già era un’ eccezione, e di solito invecchiavano dentro le anfore, nei depositi, in soffitta o nei lunghi trasporti nell’Impero. Solo eccezionalmente si potevano trovare dei vini invecchiati qualche decennio.

In generale i vini dei Romani erano assai diversi rispetto ai nostri, quasi sempre avevano un’altissima gradazione, e alcuni avevano addirittura la consistenza del miele e quindi bisognava allungarli con dell’acqua gelida d’inverno e acqua bollente d’estate. Inoltre, dal momento che si spremevano assieme i chicchi e i rametti, cioè i raspi, il vino che ne usciva, era un vino amaro, bisognava correggere, lo si correggeva in generale con molti sistemi, a volte si mettevano anche delle spezie o addirittura del piombo. Il piombo, infatti, produce, se rimane all’aria una patina biancastra che è dolce, e così si faceva permanere il vino in contenitori di piombo, e questo aiutava il gusto, ma certo non la salute.

Insomma grazie ai resti archeologici è possibile scoprire uno spaccato della vita quotidiana a Pompei, pensate, tutto questo è avvenuto poco prima che il Vesuvio con la sua eruzione cancellasse tutto. Ma ora grazie agli archeologi, possiamo rivivere quelle storie che rimarranno per sempre scolpite nel tempo e nella memoria.

 

 

Pompei. Il vino al tempo degli antichi Romani was last modified: febbraio 27th, 2017 by L'Interessante
27 febbraio 2017 0 commenti
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Cani
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

I cani al cinema

scritto da L'Interessante

Cani.

Il regista Thor Freudenthal  afferma che i cani piacciono molto al cinema  per via della loro personalità: pare siano in grado di “bucare lo schermo”

Oggi i cani sono ampiamente diffusi nei film e nei media digitali, ma erano molto presenti anche nel cinema delle origini.

Un illustre esempio è “Vita da cani” del 1918, con la locandina recante Charlot depresso  con  accanto un meticcio che gli rassomiglia.

Correvano gli anni 30 e  40 quando  “Pete the Pup”, bellissimo esemplare di american pit bull terrier  diveniva la mascotte dei bambini della serie di film Simpatiche canaglie, andata in onda per tantissimi anni.

Contemporaneo di Pete  è  “Rin Tin Tin”, il pastore tedesco preferito d’America  presente al cinema dal 1923 al 1931. Il primo cane attore ad interpretare Rinty  fu trovato cucciolo da un soldato americano in un canile bombardato dai tedeschi,  alla fine della prima guerra mondiale.

Invece dal famoso racconto di Eric Knight  “Torna a casa Lassie” nel  1938 , prende origine sul grande e  piccolo schermo la storia del nobile collie più longevo del mondo.Sul set si sono alternati otto collie maschi nel ruolo di protagonista che però originariamente  era femminile.

Nel 1992 sotto la direzione di Brian Levant prende vita “Beethoven”,  il San Bernardo le cui avventure maldestre  hanno portato il sorriso sul volto di tantissimi bambini .

Il 2008 è l’anno di “Io&Marley”  film  diretto da David Frankel,  basato sull’omonimo romanzo di John Grogan, interpretato da Owen Wilson e Jennifer Aniston. “Un cane non se ne fa niente di macchine costose, case grandi o vestiti firmati. Un bastone marcio per lui è sufficiente, a un cane non importa se sei ricco o povero, brillante o imbranato, intelligente o stupido, se gli dai il tuo cuore ti darà il suo”, dirà il protagonista nell’epilogo del film.

Nell’anno successivo esce nelle sale il film Hachiko, diretto da Lasse Hallstrom con Richard Gere, ispirato alla storia vera del cane giapponese Hachiko . La trama racconta del rapporto indissolubile tra l’akita e il professore di musica Parker Wilson. Ogni giorno il cane accompagna il proprietario alla stazione e questa abitudine non cambierà anche dopo la morte improvvisa del professore: il cane continuerà ad aspettarlo in stazione per circa nove anni.

Spesso purtroppo le sorti di una razza sono legate al cinema; dalle intense campagne di marketing che accompagnano l’uscita di questi film scaturiscono sia successi commerciali sia tragedie domestiche. Ne scatta  spesso la moda inconsapevole com’è avvenuto nel caso dei dalmata ne “La carica dei 101”.

Tutto ciò si verifica perché chi acquista quella determinata razza è convinto che il cane abbia tutte le doti e i comportamenti promossi dal film; da qui nasce la frustrazione per l’aspettativa delusa o l’amarezza di relazionarsi con un soggetto diverso dall’attore. Ma l’errore è tipicamente umano; è nostra la proiezione. E’ nostra l’aspettativa. E’ nostra la romanzata.

È giusto scegliere un cane con delle predisposizioni di razza che pensiamo ci siano congeniali; ciò però non significa aspettarsi di trovare un soggetto addestrato per competenze specifiche di un film.

È consapevole della scelta chi chiede, s’informa, visiona nella realtà cosa quel cane rappresenti. Sarebbe utile raccogliere informazioni sui blog degli allevatori o ancor di più parlare direttamente con proprietari di quella razza che possano dirci il loro amico a quattro zampe che tipetto è.

Una scelta errata può ricadere su un sistema famiglia intero, e soprattutto sul cane che rischia di finire nella gabbia di un canile.

I cani al cinema was last modified: febbraio 16th, 2017 by L'Interessante
16 febbraio 2017 0 commenti
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Relitto
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Relitto di Antikythera: trovato uno scheletro umano

scritto da L'Interessante

Relitto.

di Antonio Andolfi

Una squadra internazionale di ricercatori ha scoperto uno scheletro umano durante gli scavi del famoso relitto di Anticitera. La buona condizione dei resti scheletrici dell’uomo potrebbe fornire la prima traccia di DNA recuperata da una nave affondata nell’antichità.

I subacquei hanno scoperto i resti scheletrici dell’uomo, forse un membro dell’equipaggio. È qui, nel Mar Egeo, vicino all’isola greca di Anticitera, che è stato trovato il misterioso meccanismo, un avanzatissimo calcolatore astronomico. Il naufragio della nave, forse una nave greca mercantile, sarebbe avvenuto nel I secolo a.C.

Da quando venne scoperto il relitto, nel 1900, erano già stati trovati dei resti umani. La spedizione del 1976 di Jacques-Yves Cousteau e del suo equipaggio, a bordo della Calypso, ne avevano portato alla luce almeno quattro, oltre a quasi 300 preziosi manufatti. Ma questo è il primo scheletro che si trova da quando gli scienziati sono capaci di condurre un’analisi genetica.

Le ossa trovate finora, che erano sepolte sotto mezzo metro di sabbia e frammenti di ceramica, includono parti di costole, due femori, due ossa del braccio e parti di un cranio con mascella e tre denti ancora attaccati. Sono state descritte sulla rivista scientifica Nature.

Il recupero del DNA dal relitto

L’esperto in DNA antico presso il Museo di storia naturale di Danimarca a Copenhagen, Hannes Schroeder, ha potuto visionare le ossa di persona, determinando che probabilmente appartenevano alla stessa persona – un giovane uomo. Contro tutte le previsioni, le ossa sono sopravvissute a oltre 2.000 anni sul fondo del mare, e sembrano in condizione abbastanza buone, il che è incredibile.

Le parti del cranio sembrano particolarmente promettenti per quanto riguarda l’estrazione del DNA, poiché contenevano la parte petrosa, una parte di osso temporale a forma di piramide quadrangolare. Situata alla base del cranio, quest’area contiene parte del più denso materiale osseo nel corpo, ed è considerato uno dei migliori posti per trovare del DNA. Se ce ne fosse abbastanza, potremmo conoscere l’aspetto fisico del giovane, o da quale parte del mondo venisse.

Il meccanismo del relitto di Anticitera

Dato che il relitto era stato individuato la prima volta da un gruppo di pescatori di spugne nel 1900, numerosi oggetti sono stati portati in superficie. Le prime spedizioni, nel 1901, trovarono tesori a volontà: dozzine di statue di marmo, scheletri dei membri dell’equipaggio e lo spettacolare “computer” di bronzo soprannominato il meccanismo di Anticitera.

Questo curioso congegno, descritto dal Ministero ellenico della Cultura e dello Sport come il più complesso oggetto antico mai scoperto, è stato trovato in 82 frammenti. Conteneva ruote, quadranti e oltre 30 ingranaggi. La complessità e l’intricata progettazione ha incuriosito gli esperti per decenni; alla fine si è scoperto che era capace di mostrare le fasi lunari e le posizioni di Sole, Luna e pianeti in date particolari.

Tra i vari oggetti emersi dal relitto ci sono anche dei beni di lusso: pezzi di giochi da tavolo, strumenti musicali e persino il braccio di quello che sembra essere stato un trono di bronzo.

Ma mentre gli oggetti trovati nel sito forniscono informazioni importanti sulla vita di migliaia di anni fa, questo scheletro rappresenta un collegamento vitale con gli antichi – in particolare con l’equipaggio di questa nave. Gli archeologi studiano il passato umano attraverso gli oggetti che i nostri antenati hanno creato. Ora abbiamo un collegamento diretto con questa persona, che navigò e morì a bordo della nave di Anticitera.

Relitto di Antikythera: trovato uno scheletro umano was last modified: febbraio 14th, 2017 by L'Interessante
14 febbraio 2017 0 commenti
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Lupo
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Lupo: cantare ed ululare per manifestare le emozioni. Il Dog Friendly Sanremese

scritto da L'Interessante

Lupo.

Di Luigi Sacchettino

Cari lettori interessati c’è chi li canta a Sanremo- come gli  Ermal Meta in “Ricordo la notte con poche luci ma almeno là fuori non c’erano i lupi”- e chi li ascolta ululare, ritornando selvaggi e passionali.

Il lupo è un tema che ci sta a cuore e  gridare «al lupo, al lupo!», come è noto da tempo, non serve

Eppure nelle ultime settimane sembra essere un nuovo mantra. Nei giorni passati ha tenuto banco la questione della Conferenza Stato Regioni in merito alla gestione del lupo sul nostro territorio. Le parti dovevano approvare il 2 febbraio il “Piano di conservazione e gestione del lupo in Italia”, redatto da un pool di esperti in materia. In realtà il 2 c’è stato un semplice rinvio al 23 febbraio prossimo. Eppure in  Appennino l’animale che sembra uccidere più esseri umani del lupo è la vespa. Non un branco di lupi ibridati e fuori controllo, come si può dedurre dall’agitazione creatasi intorno all’argomento. Ma la vespa. Nessuno si è sognato di raccogliere firme contro le vespe. Contro i lupi, invece sotto l’effetto emotivo, si riparla di una deroga che consentirebbe l’abbattimento del 5% della popolazione. Per capirne di più abbiamo intervistato il  dott. Marco Galaverni, Consigliere Nazionale WWF Italia e studioso del lupo.

  • Grazie Dottore per averci dedicato il suo tempo in questi giorni molto convulsi; ultimamente si parla molto del pericolo lupo, che non è più protetto: il Piano di Conservazione prevedrà l’uccisione, al massimo, del 5% degli esemplari presenti sul nostro territorio. Ma qual era la situazione prima di questo Piano in materia di lupi?

“La Conferenza Stato-Regione ha deciso di rinviare l’approvazione del Piano lupo; il Piano ritorna adesso in sede tecnica per una nuova discussione. In realtà il riferimento al 5%, che richiamava molto i piani venatori, sembra sia stato eliminato dalle ultime versioni del Piano. In ogni caso, la possibilità di ‘prelievo’ (ovvero, uccisione) in deroga alla protezione totale era già previsto dalla direttiva Habitat, ma non era mai stata adottata in precedenza in Italia. Ora ad essere cambiata sembra che sia la volontà politica di ricorrere agli abbattimenti”.

 

  • Qual è la situazione attuale dei lupi in Italia? Fanno davvero così paura?

“La situazione è senz’altro migliore rispetto a 40 anni fa, ma ancora non assestata. Grazie ad abbondanti popolazioni di prede (quasi due milioni tra cinghiali, caprioli, cervi ed altri ungulati) il lupo ha ricolonizzato, in maniera del tutto spontanea e senza alcun intervento di reintroduzione, gran parte del suo areale Appenninico originario, mentre la situazione sulle Alpi è ancora instabile, con la presenza costante di lupi nelle sole Alpi occidentali ed un unico branco stabile tra Veneto e Trentino.

I timori per il ritorno del lupo sono del tutto ingiustificati, dato che non si sono registrati attacchi mortali all’uomo in tutta Europa negli ultimi 100 anni. E’ quindi molto più probabile essere investiti sulle strisce pedonali o per la puntura di una vespa che essere attaccati da un  lupo”.

  • Perché si sceglie per l’abbattimento? Non si possono attuare strategie green come nel caso del progetto life “Praterie”, alzando la protezione degli allevamenti grazie a cani pastori guardiani?

“Il problema principale è che l’abbattimento di qualche esemplare non contribuisce affatto né alla riduzione dei danni al bestiame domestico (anzi, i rimanenti individui del branco, rimasti soli o in numero minore, avranno più difficoltà nella caccia  alle grandi prede selvatiche e potrebbero quindi aumentare le predazioni su pecore e altri animali di allevamento, se non ben difese), né alla riduzione del conflitto sociale, come già dimostrato in altri Paesi (Francia, Spagna, Stati Uniti).

Al contrario, l’uso di cani da pastore insieme a recinzioni elettrificate, da studiare caso per caso in base alle caratteristiche dell’allevamento, riduce in larghissima parte i possibili danni causati dal lupo, come dimostrato da molti progetti pilota”.

  • Il rovescio della medaglia  può diventare quindi il lupo in pericolo: bracconaggio, estinzione, modifiche ai gruppi sociali. Quale potrebbe essere a suo avviso una scelta che tuteli sia l’uomo che la natura?

“Esatto. Purtroppo, ancora oggi il lupo è vittima di numerosi atti di bracconaggio diretto (armi da fuoco) o indiretto (bocconi avvelenati, che spesso sono all’origine dei numerosi incidenti stradali che coinvolgono il lupo).

Per tutti i motivi che abbiamo visto, riteniamo quindi fondamentale puntare con decisione sullo studio e sulla prevenzione, sfruttando i fondi europei per lo sviluppo rurale e mettendo così gli allevatori nelle condizioni di minimizzare i danni. E di conseguenza, se cala il conflitto sociale, calerà anche il bracconaggio. Quindi, aiutando gli allevatori, avremo al contempo aiutato il lupo. La coesistenza, anche se faticosa, è sempre possibile”.

Per l’uomo è proprio difficile non sentirsi cappuccetto rosso o  cacciatore.

Lupo: cantare ed ululare per manifestare le emozioni. Il Dog Friendly Sanremese was last modified: febbraio 9th, 2017 by L'Interessante
9 febbraio 2017 0 commenti
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cane
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“Ti scelgo perché mi stai bene”. Imparare a scegliere il cane consapevolmente

scritto da L'Interessante

Cane.

Di Luigi Sacchettino

Cari lettori interessati dopo il racconto-riflessione della consulenza con il piccolo di spitz ho deciso di intervistare un medico veterinario esperto in comportamento che potesse raccontarci bene cosa significhi e rappresenti scegliere consapevolmente un cane. Di quelle non condotte solo con amore.

Per farlo ho raggiunto telefonicamente il Dr. Antonio Sessa, Medico Veterinario L.P., Esperto in Comportamento degli animali d’affezione.

Si prende un momento di pausa dal lavoro per risponderci cordialmente.

  • Grazie mille Dottore per aver accettato la nostra intervista. Vorrei che ci chiarisse il concetto di adozione consapevole: cosa s’intende ?

“Per adozione consapevole s’intende il concetto secondo il quale l’adozione di un animale (cane, gatto o altra specie domestica che sia) dovrebbe essere conseguente a un’attenta e meditata riflessione che parte da basi razionali. In altre parole dovrebbe far seguito a un processo di acquisizione di conoscenze relative all’animale che si è deciso di accogliere nel proprio ambiente domestico, cercando di sapere in anticipo se le caratteristiche di quella specie si sposano bene con il nostro stile di vita, sia in termini economici che in termini di tempo da potergli dedicare, dal momento che, una volta che ci facciamo carico di un’altra vita- responsabilità enorme-, dovremmo aver ben chiaro in mente che ciò sarà per tutta la durata dell’esistenza di quella creatura di cui abbiamo deciso di occuparci, che dipenderà in tutto e per tutto da noi, nella cattiva e nella buona sorte- come recita la fatidica formula. Il principio che ci dovrebbe guidare dunque non può essere solo l’idea romantica e spesso illusoria che ci creiamo di quell’animale, perché magari sponsorizzato dall’ultimo film di moda. Oppure perché si vuole uno status-symbol (come l’auto, il cellulare et similia). Né tanto meno-parlo ai genitori- perché si cede alle richieste pressanti di un figlio o addirittura portandolo in regalo a qualcuno, sperando di fargli una sorpresa gradita. Poiché salvifico.  Perché altrimenti una scelta del genere esiterebbe, presto o tardi, in un completo insuccesso: l’abbandono di quell’animale o il suo maltrattamento. Un animale non è, non può e non deve essere considerato un oggetto, un giocattolo o un passatempo. Un animale è un altro essere vivente, differente da noi, letteralmente un altro mondo. Con le sue caratteristiche di specie. Con la sua personalità, il suo modo di vedere la realtà che lo circonda, di comunicare e di esprimere le sue emozioni. Con delle esigenze e dei bisogni concreti che spesso cozzano con i nostri, soprattutto in questo periodo storico, in cui si va tutti di corsa, si annaspa e sembra quasi si faccia fatica a sopravvivere, senza trovare neppure il tempo per fermarci a riflettere su chi siamo e cosa vogliamo realmente. Insomma, proprio per non rischiare di vivere con superficialità, e dunque non a pieno, come invece si meriterebbe, quella che potrebbe essere una splendida avventura, una scoperta dell’alterità e una riscoperta di una parte di noi, (troppo spesso dimenticata e messa da parte) che solo il confronto attivo, nella quotidianità con un animale, potrebbe farci recuperare, è necessaria un’adozione consapevole!”.

  • Abbiamo già parlato in un articolo precedente dell’importanza dei 60 giorni di condivisione madre cuccioli. Ma spesso non è possibile, si pensi ai cani trovati lungo la strada: come si può recuperare questa mancanza?

“Dobbiamo considerare che ogni individuo ha una sua propria capacità di resilienza, ovvero la possibilità intrinseca di far fronte a determinati imprevisti ed eventi più o meno traumatici per l’organismo (sia fisicamente che psichicamente) con cui spesso e volentieri la vita ci obbliga a fare i conti, così come possiede dei meccanismi di coping (strategie di adattamento), differenti per ognuno, che fanno sì che anche dei fratelli, pur appartenenti ad una stessa cucciolata, reagiscano in maniera differente allo stesso evento stressante.  Ogni cucciolo dunque ha una propria capacità di adattamento a situazioni non ottimali con cui si troverà obbligatoriamente a confrontarsi durante la sua esistenza. Per fortuna la plasticità della mente tipica di quest’età e l’organizzazione sociale di questa specie, molto simile alla nostra, che rende il cane un animale sociale (la cui organizzazione del gruppo di appartenenza ricorda molto da vicino quella della famiglia nella società umana), in qualche modo aiutano a far si che il soggetto, possa, entro certi limiti ovviamente, adattarsi anche a una tale possibilità (la separazione precoce dalla madre e/o dal branco), spostando l’attaccamento dalla figura materna ad un’altra sostitutiva che, ad esempio, potrebbe essere quella di un altro cane, o più spesso  la nostra. Sebbene appartenenti a specie differenti biologicamente e geneticamente parlando, infatti, condividiamo una vera e propria co-evoluzione, durata millenni, che porta questo meraviglioso animale a considerarci alla pari dei propri simili, nel momento in cui si vengono a determinare solidi legami di affetto e di fiducia reciproci. Certo questo ci carica di una notevole responsabilità nei riguardi di un cucciolo, a ben vedere, anche tenendo conto del fatto che non tutti gli esseri umani hanno un’ adeguata preparazione culturale per comprendere una specie diversa, sebbene a volte l’istinto e il buon senso sembrano poterci guidare nella giusta direzione. Ecco perché sarebbe essenziale ricorrere a un esperto in comportamento che fornisca le giuste informazioni prima di decidere di adottare un cucciolo, soprattutto poi se si è alla prima esperienza e  ci si è imbattuti in una adozione precoce senza gli giusti insegnamenti che solo mamma cagna sa fornire. Potrebbe essere necessario un intervento sul cucciolo tramite dei cani tutor, in una classe di socializzazione, o attraverso attività che noi umani possiamo fare per ridurre le lacune”.

  • Sovente la scelta del cucciolo viene condotta rispetto alla morfologia: quanto è importante una correlazione tra le predisposizioni razza di un cane e lo stile di vita della famiglia adottante?

“Questo purtroppo è un altro grande problema che si fonda su misunderstanding, cui spesso e volentieri hanno contribuito film o cartoni animati che ci hanno trasmesso un’immagine irreale e fantasmagorica di determinate razze. Quanti di noi non hanno inconsciamente incamerato e fatte proprie figure romanzate e quasi mitologiche, entrate ormai nell’immaginario collettivo, quali quelle impersonate da cani/attori in classici della filmografia? Basti pensare a film come Lassie o Rin tin tin, oppure, più recentemente, Io e Marley, Beethoven, Hachiko (tra l’altro realmente esistito), o Belle e Sebastien, o ancora, a sceneggiati come il commissario Rex, o ai personaggi di alcuni classici della Walt Disney, come 4 Bassotti per un Danese o Lilli e il Vagabondo o ancora la Carica dei 101, tanto per citarne  solo alcuni, tra i più noti e conosciuti al grande pubblico. Ecco purtroppo, col senno di poi, possiamo tranquillamente affermare che simili favole (perché altro non sono) hanno contribuito a diffondere delle illusioni deleterie, perché non corrispondenti al vero, circa determinate razze, alla base di tanti, troppi episodi di abbandono, conseguenti alla delusione e successiva disillusione, nel momento in cui ci si rende conto che quel cucciolo non è esattamente corrispondente, in realtà, al personaggio pubblicizzato da quel determinato film, sceneggiato o cartone. Sarebbe certamente opportuno, dunque, che non si scegliesse un cane solo perché in quel momento va di moda quella determinata razza, sulla scia della pubblicità fattagli dal film di turno. Non dimentichiamoci mai che stiamo parlando di esseri viventi con delle esigenze, caratteristiche, bisogni e prerogative comportamentali tipiche di quella determinata razza. Perché siamo stati noi, con processi di selezione artificiale, a volerla originariamente proprio così. C’è poi da dire che purtroppo, troppo spesso, nella selezione di determinate razze di cani, si è tenuto conto più dell’aspetto fisico che altro, magari per il piacere di ammirarne la pura e semplice bellezza estetica (e si sa quanto noi esseri umani siamo volubili in quanto a modelli di bellezza) o solo perché si voleva sfruttarne determinate caratteristiche fisiche, tipiche di quella razza, per un particolare lavoro (basti pensare al Bassotto, cane da tana per eccellenza, che col suo corpo lungo e le zampe corte, poteva infilarsi agevolmente nei cunicoli di prede che poi riusciva ad afferrare col suo morso potente, trascinandole a ritroso verso l’uscita; o a cani da muta, come i Beagle, che devono segnalare col loro tipico abbaio, la loro presenza ai cacciatori a cavallo che li usano per stanare e inseguire le volpi).  Difficilmente si pensa a tutto ciò, quando si sceglie un cane appartenente a una determinata razza. Invece sarebbe importantissimo conoscere prima certi aspetti, così da evitare brutte sorprese quando è poi troppo tardi per porvi rimedio, dovendo venire a patti con situazioni non proprio comode, se non addirittura pericolose, che invece si sarebbero potute evitare, grazie ad un’adozione cosciente e responsabile.

Anche là dove la mescolanza genetica, come nei meticci, non ci permette di sapere con certezza quali razze hanno contribuito realmente, in misura minore o maggiore, alla creazione di quel determinato soggetto, così come lo vediamo (di solito, infatti, è fuorviante ipotizzare le razze d’origine dal solo aspetto fisico di un cane meticcio), sarebbe comunque utile conoscere preventivamente uno dei due genitori (in genere la madre, per ovvi motivi) o almeno l’ambiente in cui è cresciuto e le esperienze che hanno caratterizzato i suoi primi mesi di vita. Perché, ad esempio, in genere, un cane nato e cresciuto in un ambiente di campagna, avrà più difficoltà ad adattarsi poi a una vita in città, giacché troppo iper-stimolante per il suo sistema sensoriale, abituato a ben altri suoni e rumori…Ma, come al solito, niente è assoluto e generalizzabile al 100% e tutto andrebbe contestualizzato, grazie alla supervisione di un addetto ai lavori”.

  • Quali le accortezze da prendere laddove si voglia adottare un cane in canile?

“Questa è una bella domanda; ma forse richiederebbe un corso apposito per poter riuscire a rispondere davvero esaurientemente! Certamente i consigli da dare sarebbero parecchi e tutto sarebbe più semplice se ci si rivolgesse ad un canile in grado di curare realmente le adozioni, attraverso un pre-affido responsabile e seguito in modo competente. Spesso, infatti, il personale di un canile (anche se non tutti i volontari, a onor del vero, hanno le competenze adeguate per fornire consigli validi), è quello in possesso del maggior numero di informazioni circa quel determinato cane. Soprattutto poi, se il soggetto in questione non è appena arrivato, per cui si è avuto modo di osservarlo nelle diverse situazioni, con cui si è confrontato e per mezzo delle quali ha dato prova del suo “carattere”:  del suo arousal e della sua reattività/emotività, del suo grado di socializzazione intra e etero-specifica, così da poter capire se quel dato cane è più facilmente integrabile in un dato contesto famigliare piuttosto che in un altro.  Sicuramente c’è da dire che il canile non è mai un luogo ottimale per un cane, e spesso anzi quell’ambiente riesce a tirare fuori il peggio da certi elementi (così come ogni ambiente in cui si è costretti a una convivenza forzata, in poco spazio, con delle risorse scarse e obbligatoriamente condivise). Pertanto sarebbe utile riuscire ad approcciare il cane che si vorrebbe adottare, a più riprese e per un periodo adeguato a conoscerlo quel minimo indispensabile, per mettere alla prova determinati comportamenti che poi nella futura convivenza saranno quelli con cui dovremo fare in conti, come compagni di vita. Certamente non tutto è immediatamente evidente, e per questo suggerisco sempre di frequentare il canile in questione per un po’, così da conoscere meglio sia i cani, ma anche il personale da cui dobbiamo, necessariamente, ricevere tutte quelle informazioni indispensabili per una scelta razionale e consapevole e non di pancia, come purtroppo spesso avviene, proprio per evitare spiacevoli soprese che in genere si traducono per il cane in un ritorno alla sua prigione di partenza (il canile appunto): esperienza ancora più nociva e traumatica per lui!”.

  • Trova valido il detto che un cane adulto non possa affezionarsi alla famiglia adottante alla stregua di un cucciolo?

“Assolutamente no! Se conveniamo, infatti, con quanto detto in precedenza, ossia che il cane, come specie, è un animale sociale e pertanto il suo etogramma prevede un rapporto speciale e intimo con altri esseri viventi, rappresentati non solo dai suoi consimili, ma anche da appartenenti ad altre specie, e precisamente la nostra, ecco che appare chiaro che esso è un animale che per ragioni genetiche, biologiche, culturali e storiche è predisposto ad interagire e a creare vincoli stretti e rapporti sociali a qualsiasi età, proprio perché è una sua precipua caratteristica e non potrebbe farne a meno, se non per delle gravi patologie comportamentali. Anzi da alcuni studi recenti è emerso persino che la maggior parte delle volte il cane, quando deve scegliere tra un suo conspecifico e un essere umano, come figura di riferimento, normalmente sceglie quest’ultimo! Credo che il cane sia davvero l’unica specie al mondo che ne privilegi un’altra come riferimento, il che ci fa capire quanto sia assetato di attenzioni e di considerazione da parte nostra. Per un cane, infatti, la realizzazione massima consiste nel riuscire a condividere delle esperienze assieme, in collaborazione, col suo partner di vita. Sta a noi riuscire a capire questo concetto, così da non pretendere più assurdi atti di deferenza (o come si ostinano a chiamarli alcuni, di sottomissione), ma provando per una volta, mettendo da parte il nostro immenso ego, a metterci in ascolto di ciò che cerca di comunicarci continuamente e a qualsiasi età questo insostituibile e unico animale: <Cosa posso fare per te? Cosa possiamo fare assieme, per stare bene? Insegnami> ”.

Grazie mille al Dottore per le esaurienti risposte.

L’amore è fondamentale per una adozione. È l’elemento necessario ma non sufficiente per una buona riuscita nei rapporti. Ci vuole impegno, oculatezza, condivisione, conoscenza. Disponibilità al cambiamento e alla messa in discussione. Se si pensa di adottare un cane per farlo adattare completamente alla nostra vita è più funzionale ed etico prendere un peluche. Ci scegliamo perché ci stiamo bene.

L’amore non è tutto. Ma può tutto.

“Ti scelgo perché mi stai bene”. Imparare a scegliere il cane consapevolmente was last modified: febbraio 2nd, 2017 by L'Interessante
2 febbraio 2017 0 commenti
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faglia
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Nuova faglia in California

scritto da L'Interessante

Faglia

di Antonio Andolfi

Pochi giorni dopo lo sciame di oltre 200 piccoli terremoti che hanno scosso l’area di Salton Sea, nel sud della California, gli scienziati hanno scoperto una seconda faglia che corre parallela alla nota faglia di Sant’Andrea (San Andreas Fault), a ovest rispetto a questa, lunga oltre 50 chilometri. La scoperta obbliga i sismologi a rivedere i modelli di rischio sismico per la maggior parte dell’area che comprende Los Angeles.

Secondo i ricercatori la faglia, che prende il nome di Salton Trough, non era mai stata rilevata prima perché si trova sotto il Salton Sea, un vasto lago salato che si è formato in seguito all’attività tettonica dell’area. La frattura è stata identificata casualmente, grazie ad un gruppo di ricercatori impegnati ad approfondire la geologia della regione incrociando dati ottenuti attraverso numerosi strumenti, tra cui rilevatori sismici, sismometri per ricerche oceaniche e il LiDAR (Light Detection and Ranging), ossia una tecnica di telerilevamento che utilizza impulsi laser.

La faglia si trova nella parte orientale di Salton Sea e poiché negli ultimi anni non ci sono stati terremoti associati con essa, non è mai stata evidenziata. Nonostante la scoperta, non c’è tuttavia motivo di pensare che la zona sia più soggetta a terremoti rispetto a quanto già ipotizzato.

La faglia di San Andreas, perché non è arrivato il Big One

Questa nuova frattura potrebbe in realtà spiegare perché ci sono stati meno terremoti rispetto a quanto previsto lungo quella di San Andreas. Una ricerca da poco pubblicata evidenzia che nell’arco degli ultimi 1.000 anni, lungo l’area meridionale della più famosa faglia, si è verificato un terremoto di magnitudo 7 ogni 185 anni: una periodicità che, in tempi più recenti, sembra essere saltata.

Questo spiega perché da tempo se ne attende uno di elevata intensità, il famigerato Big One.

Quale ruolo può avere questa seconda scoperta di Salton Sea in questo lungo periodo di quiete relativa? Una ipotesi è che potrebbe aver assorbito parte dell’energia che, altrimenti, si sarebbe scaricata lungo la faglia di San Andreas provocando l’atteso evento catastrofico.

 

Nuova faglia in California was last modified: febbraio 2nd, 2017 by L'Interessante
2 febbraio 2017 0 commenti
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adozione
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Ha senso risparmiare sul benessere? Il perché di una adozione consapevole

scritto da L'Interessante

Adozione consapevole.

Di Luigi Sacchettino

Cari lettori interessati in settimana sono stato chiamato per fare una consulenza ad un cucciolo di spitz di 4 mesi: motivo della chiamata distruzioni in casa e smodato uso della bocca.

Una chiamata come tante altre, mi dico.

Dopo pochi minuti dall’inizio della consulenza si scopre un’amara verità: il cucciolo è stato acquistato in un negozio di Napoli saltato alla cronaca nei servizi di Striscia la Notizia per vendita scellerata di cuccioli.

Probabilmente alimentando lo scandaloso ed illegale mercato dell’est.

Si tratta di un cucciolo acquistato orientativamente ad un mese di vita, stipato in una vetrina insieme alla potenziale sorella. Nessun’ altra informazione.

Arrivato a casa il suo stato cagionevole si è subito evidenziato: iniziano così le corse al pronto soccorso veterinario, nei tentativi di salvarlo da vomito e diarrea disidratanti, causati da massicce infestazioni parassitarie. Spesso funeste nei cuccioli così piccoli.

Prelievi, indagini collaterali, somministrazione di farmaci, ricoveri in clinica.

Tutto questo nei soli primi sessanta giorni di vita di un cucciolo. Sessanta.

Il quadro si complica: il protocollo vaccinale viene procrastinato e a  4 mesi il cucciolo non è ancora completamente immunizzato per cui- in virtù anche della sua debolezza- non può essere condotto in passeggiata.

Ciò si traduce in un deficit di socializzazione verso i cani e le persone, in un deficit di autocontrollo, in una irritazione al contatto, in una assenza di inibizione al morso- per cui anche nel giocare ti lascia certi solchi sulle mani.

Insomma, il disagio del cucciolo è tangibile, e con esso quello della neo famiglia. Partiti per il loro primo viaggio con un cucciolo di una specie diversa, e catapultati rapidamente in una spirale di sofferenza. Si aspettavano coccole ed ossitocina e invece stanno facendo i conti con le spese mediche e la paura della perdita. L’inadeguatezza. La rabbia. Lo sconforto.

Erano preparati per pipì e popò disseminate per la casa, per ciabatte distrutte e qualche notte insonne. Non  potevano immaginare a cosa sarebbero andati incontro acquistando un cucciolo in quel negozio.

Pagato anche profumatamente. Fidandosi.

Cari lettori interessati non possiamo pensare che a noi andrà diversamente, che faremo l’affare, che quello che si sente in giro non ci accadrà poiché distante da noi: la scelta di un cucciolo va condotta responsabilmente. Prendendo informazioni accurate e dettagliate sull’allevamento o sul canile, sul modo in cui gli altri cani vengono tenuti in struttura, sulla presenza di eventuali anziani. Non solo vedere i genitori, ma interagire con loro per valutarne le risposte. Osservare l’intera cucciolata. E prendere tempo. Per decidere, ponderare, senza lasciarsi travolgere dalle emozioni del momento.

Chiedere garanzie, parlare con un medico veterinario ed un educatore per farsi accompagnare nella fase preadottiva. Perché quei soldi investiti rappresenterebbero una polizza sulla scelta. Un casco. E se si cade, si fa meno male.

Infine denunciare.

Tutta la famiglia si è stretta intorno al cucciolo, a cui è stata negata la possibilità di viversi una infanzia serena.  Ha già una grossa ipoteca sulla testa: molti deficit da riabilitare, molte lacune da colmare.

Costruiremo una solida impalcatura intorno alle fondamenta- già debolissime- di questa vita, affinché possa ergersi più compatta e stabile.

Ha senso risparmiare sul benessere? Adozione consapevole. Responsabile.

Ha senso risparmiare sul benessere? Il perché di una adozione consapevole was last modified: gennaio 26th, 2017 by L'Interessante
26 gennaio 2017 0 commenti
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Violenza
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

La violenza umana (e non solo) ha radici antiche

scritto da L'Interessante

Violenza.

di Antonio Andolfi

Uno dei dibattiti più accesi degli ultimi secoli riguarda l’origine della violenza e delle uccisioni all’interno di una specie. L’uomo è naturalmente cattivo o sono le condizioni che scatenano la violenza? La nostra natura o la nostra cultura sono alla base delle guerre, delle lotte e degli omicidi?

L’analisi della nostra storia ha portato a posizioni le più varie, da quella di homo homini lupus (l’aggressione è connaturata all’uomo) a quella del “buon selvaggio” (la cultura occidentale rende tutti più violenti), non riuscendo a chiarire la questione. Un gruppo di studiosi spagnoli di varie università ha preso il toro per le corna e ha esaminato non solo la storia della violenza umana, ma quella di tutto il gruppo animale di cui facciamo parte, i Mammiferi.

L’albero della violenza

In un articolo pubblicato sulla rivista Nature , gli scienziati hanno usato i metodi della biologia evolutiva per ricostruire uno schema filogenetico della violenza letale nei mammiferi. Hanno così elaborato la causa di 4 milioni di uccisioni avvenute nella storia dei mammiferi, basandosi su comportamenti e analisi storiche che riguardano 1.024 specie, la nostra compresa, appartenenti a 137 famiglie. Secondo gli autori, nei primissimi mammiferi solo una morte su circa 300 (0,30%) era causata da membri della stessa specie. Con l’andare del tempo, la differenziazione e la vera esplosione evolutiva tra vari ordini ha portato a stili di vita del tutto differenti, e quindi anche diversi comportamenti per quanto riguarda il rapporto con gli altri.

 Primati di uccisioni

Man mano che passava il tempo e ci si avvicinava ai nostri antenati, seppure lontani, la violenza letale aumentava. E raggiungeva il 2,3% circa negli antenati di primati e tupaie (insettivori del sud-est asiatico, simili a grossi toporagni ma lontani parenti dei primati) e all’1,8% nei veri primati. All’origine della nostra specie questa percentuale era di circa il 2%. Altri animali, come pipistrelli e balene, sembrano molto più pacifici, e hanno una percentuale di uccisioni molto più bassa.

Scritto nei geni? Non solo.

Gli autori concludono quindi che la violenza non è caratteristica di una specie o di un’altra, ma ha basi genetiche (anzi, filogenetiche) che devono essere prese in considerazione, anche quando ci sono stati profondi cambiamenti nello “stile di vita” delle specie. In generale, per esempio, i carnivori sono più violenti degli erbivori. Ma soprattutto contano gli stili di vita. Le cause di questo aumento di percentuale di morti per violenze interne alla specie sono state, infatti, la nascita in mammiferi più vicini a noi di comportamenti complessi, come la territorialità e la vita di gruppo. Vivere assieme e dover difendere le risorse, alimentari o meno, oppure cercare di invadere territori altrui, come fanno oggi gli scimpanzé, ha portato a un aumento del numero di scontri tra animali simili, e quindi a morti causate da questi scontri. Le cose si sono complicate quando nella nostra specie è subentrata la cultura, che ha fatto diventare più complessi ed estremamente diversificati i rapporti tra gli uomini. Per chiarire il quadro, il gruppo di ricerca ha cercato di capire come fossero andate le cose anche nel Paleolitico (da 2,5 milioni a 10.000 anni fa), nel Mesolitico (dal 10000 all’8000 a.C.) e in altri periodi anche recenti. Il risultato è che la percentuale di violenza varia moltissimo nel tempo, e può arrivare al 15-30% tra i 3.000 e i 500 anni fa. Per diminuire poi quando il compito di usare la violenza, se necessaria, è stato assunto dagli Stati e dalla polizia. Anche se l’idea è interessante, ci sono molte obiezioni a questo studio. Una prima è del tutto intuitiva: non è facile stabilire quale fosse la percentuale di morti ammazzati qualche migliaio di anni fa, e in specie lontane da noi nel tempo e nello spazio. Una seconda obiezione riguarda la pesante influenza nella specie umana della cultura, che può variare di molto la percentuale di omicidi da una società a un’altra, anche se vicine, e da un’epoca alla successiva. Nonostante i dubbi, però, uno studio che faccia notare come la violenza all’interno della linea filetica cui appartiene una specie sia un fattore da tenere in considerazione quando si studiano le società animali, e umane, è estremamente interessante e innovativo.

 

La violenza umana (e non solo) ha radici antiche was last modified: gennaio 23rd, 2017 by L'Interessante
23 gennaio 2017 0 commenti
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