trivellazioni
Le istituzioni al fianco del cittadino. Sempre più mera utopia.
Il 17 aprile prossimo si voterà per il referendum sulle trivellazioni ma, volutamente, nessuno ne parla.
Lo scopo? Non far raggiungere il quorun in quanto il governo Renzi non era d’accordo sul voto referendario. Un referendum dovrebbe essere scevro dalle battaglie politiche, dovrebbe essere uno strumento di democrazia nelle mani del cittadino per poter esprimere una propria idea, un proprio convincimento e soprattutto una speranza di poter incidere nel sociale con un voto libero.
Ma, anche in questo caso, non è così. Prima, per la raccolta firme: battaglie e veti. Il voto che diventa una battaglia politica a favore di questo o quell’altro schieramento ed infine far di tutto per far boicottare il voto. Il cittadino, già stressato e vessato è tentato dall’optare per il “non voto”.
Ma se, svegliandosi dal torpore dicesse: “No. Voglio esprimere il mio voto libero, ho deciso, vado”, e, nell’ipotesi, la votazione risultasse valida, nulla sarebbe ancora definito. I cittadini non vincono mai.
Ritorna tutto al vaglio del parlamento che deciderà nuovamente in base alla maggioranza esistente, con legge che potrebbe essere in parte contraria a quanto emerso dalle urne.
Allora: siamo ritornati al punto di partenza.
Ma i cittadini italiani, quelli pensanti, quelli che non intendono farsi condizionare, il loro voto il 17 aprile lo dovranno esprimere solo per la ragione che si sta facendo di tutto per tenerli all’oscuro del referendum e lontano dalle urne. Molto poco democratico.
LA STORIA DEL REFERENDUM SULLE TRIVELLAZIONI
La consultazione popolare è stata promossa da nove (in origine dieci) consigli regionali: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise con l’appoggio di movimenti e associazioni ambientaliste. Lo scopo quello di fermare le trivellazioni nei mari italiani.
Tra gli altri saranno interessati dalla misura: il giacimento Guendalina (Eni) nell’Adriatico, il giacimento Gospo (Edison) nell’Adriatico e il giacimento Vega (Edison) davanti a Ragusa, in Sicilia. Non saranno interessate dal referendum tutte le 106 piattaforme petrolifere presenti nel mare italiano per estrarre petrolio o metano.
E’ rimasto in piedi un solo quesito su sei. Infatti dieci consigli regionali (Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) hanno promosso sei quesiti referendari sulla ricerca e l’estrazione degli idrocarburi in Italia. L’Abruzzo si è poi ritirato dalla lista dei promotori. A dicembre del 2o15 il governo ha proposto delle modifiche alla legge di stabilità sugli stessi temi affrontati dai quesiti referendari, per questo la cassazione ha riesaminato i quesiti e l’8 gennaio ne ha dichiarato ammissibile solo uno, perché gli altri sette sarebbero stati recepiti dalla legge di stabilità.
Alcune regioni hanno proposto ricorso. Se la corte costituzionale accogliesse i ricorsi delle regioni, i due quesiti referendari in precedenza non ammessi tornerebbero a essere validi e dovranno essere sottoposti agli elettori. I due quesiti riguardano il “piano delle aree” (ossia lo strumento di pianificazione delle trivellazioni che prevede il coinvolgimento delle regioni, abolito dal governo con un emendamento alla legge di stabilità) e la durata dei titoli per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi liquidi e gassosi sulla terraferma. La Storia continua.
Con il referendum si chiede di abrogare il comma 17 dell’articolo 6 del Codice dell’ambiente – dlgs n. 152 del 2006 – nella parte in cui prevede che le trivellazioni nelle acque territoriali italiane – cioè quelle che si trovano entro le 12 miglia dalla costa – continuino fino a quando il giacimento lo consente.
In pratica si chiede che vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio quando scadranno le concessioni.
Quindi se vince il fronte del “sì” verranno bloccate le concessioni alla scadenza dei contratti. Però ad essere interessate saranno solo alcune delle 106 piattaforme petrolifere presenti nel mare territoriale italiano. Se, invece avrà la maggioranza il fronte del “no”, la situazione resterà invariata. Alla scadenza delle concessioni le compagnie petrolifere potranno chiedere un prolungamento.
Naturalmente, come spesso avviene in questi casi , si strumentalizza il voto adducendo quale giustificazione che la vincita del “si” potrebbe avere forti ripercussioni sul mercato economico con conseguente fuga di investimenti , chiusura di imprese e conseguenti licenziamenti.
La quantità di petrolio e metano presente nel sottosuolo Italia non è dato sapere.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, con l’approvazione dello sblocca Italia, ha parlato di “investimenti per 15 miliardi di euro, 25 mila nuovi posti di lavoro e un risparmio sulla fattura energetica nazionale di 5 miliardi l’anno”.
Naturalmente dubitiamo che ciò possa accadere e il danno sull’ambiente non è stato considerato né valutato. Non conviene. È ovvio.
Non si comprende perché nel nostro “bel Paese” l’industria turismo non debba essere migliorata. Quello che si perde da una parte, si guadagna dall’altra.
Ma evidentemente, anzi senza ombra di dubbio, il guadagno per “i terzi” e il tornaconto personale non c’è.