Giovanni Falcone
Era un sabato di ventiquattro anni fa. Il sabato della giustizia in lutto, il giorno di una Capaci sconvolta, di una Sicilia spaccata in due.
Quel 23 maggio a perdere la vita, in un agguato commissionato da Cosa Nostra, furono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. L’anno era il 1992.
Come in un unico ingoio strozzato dalla cenere, le Fiat croma blindate furono sminuzzate per sempre dall’atrocità senza ritegno della Sicilia impronunciabile: la faccia oscura che primeggia sul resto, quella che alimenta verità, contraddizioni e pregiudizi.
Il coraggio di Falcone, la sua legittima paura sempre ammessa, morì e sopravvisse in un solo istante, quello in cui l’edizione straordinaria del TG1 annunciò l’accaduto quasi in diretta.
Ciò che i giornali ritrassero il giorno dopo, fu un paese letteralmente sconvolto dai duecento chili di tritolo che annientarono centinaia di metri di asfalto, assieme ai sogni di libertà e reazione seminati dal pioniere più incorruttibile dei tempi.
Orrore, ucciso Falcone, titolava il Corriere della Sera, mentre La Stampa parlava di “Patria in pericolo”
Sono questi stessi annunci che oggi si agirono come fotocopie digitalizzate dal tempo e la modernità, per commentare memoria e risentimento. C’è la voce che si schiera dalla parte di chi rimpiange simili paragoni di audacia e chi invece lo ritiene un atteggiamento populistico inutile.
Il ricordo non è un click e la memoria è certamente qualcosa di più complesso di un link. È Una questione di coscienza, come è chiaro che se non ci si sente parte di quella strage, è impossibile sentire sull’addome il peso dello scoppio, ma come Falcone stesso diceva:” chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Dunque, se esiste una minima possibilità di non annegare in ciò che è stato taciuto, noi de l’interessante la cogliamo volentieri.
Ciao Giovanni.
Michela Salzillo