Vatileaks
Sembrava l’inizio di una ennesima “guerra santa”, una crociata contro gli infedeli e tutto ciò che la sacralità cristiana non accetta, ma stavolta la battaglia si combatteva tra le proprie mura. Lo scandalo Vatileaks arriva finalmente ad una svolta, una decisiva virata verso quella “verità” che la chiesa ha da sempre tentato di spiegare ma in cui è sempre prontamente caduta fino a ridicolizzarsi: sul soffitto della corte, il simbolo tanto sacro quanto inverosimile delle chiavi di Pietro che normalmente aprono il regno dei cieli hanno, pochi giorni fa, rinserrato anche la porta del carcere vaticano.
Nel tribunale della Santa Sede, infatti, si sono celebrati gli ultimi atti di uno dei processi più rilevanti della guerra interna che ha vissuto la Chiesa stessa contro i propri “Giuda” e i rispettivi complici: sulla panca degli imputati, infatti, hanno seduto la “papessa” Francesca Immacolata Chaouqui e il funzionario vaticano monsignor Lucio Vallejo Balda con il suo collaboratore Nicola Maio, colpevoli di aver sottratto informazioni riservate riguardo le spese economiche dello Stato della Città del Vaticano. Le medesime informazioni “scappate” dai sacri palazzi sono poi finite, come ogni storia maliziosa ben vuole, nelle mani sbagliate di chi, con queste notizie, vive quotidianamente e crea l’impasto giusto per denunciare una storia che non ha mai imparato a chiudersi con un lieto fine: i giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi hanno, infatti, agito seguendo quello che il loro mestiere ha sempre consigliato di fare e banchettato con quello che gli poteva determinare l’ascesa verso il successo mediatico; tuttavia, come dicesi in gergo, hanno fatto i conti senza l’oste: i loro due libri, Avarizia e Via Crucis, hanno immediatamente preso il loro posto e le conseguenti responsabilità, arrivando di fronte ad una sbarra che si poneva come “Via Crucis” verso un destino incerto.
Sia il libro di Nuzzi che quello di Fittipaldi riguardano la gestione sufficiente e poco trasparente dei fondi del Vaticano e degli istituti collegati alla Santa Sede, dai 70-80 milioni annui dell’obolo di San Pietro che finiscono ovunque ma non ai poveri, alla fondazione Bambin Gesù che spende quasi mezzo milione di euro per la ristrutturazione dell’attico del cardinal Bertone e non per l’ospedale infantile. Uno scandalo? Sicuramente. Una materia che per la Curia doveva rimanere coperta, seguendo quel culto del segreto avviato in Vaticano da Bonifacio VIII? Probabile. Ma Vatileaks rappresenta molto più di queste congetture.
Nato come semplice scandalo finanziario, la telenovela degna dei migliori film hollywoodiani ha visto il ruolo oramai centrale della chiesa allargare la sua visione a quella che può essere considerata come una vera e propria “crociata al contrario”, uno scontro che ha visto due fronti diversi ma uniti da uno stesso destino: da una parte il mondo occidentale strafare con il suo “potere temporale” e mettere in risalto una realtà cattolica che già dai tempi del suo consolidamento nella storia mostrava lacune insormontabili; dall’altra un tradimento bello e fatto da parte di quei protagonisti su cui la chiesa avrebbe puntato e scommesso i “big money”. Appunto, quegli stessi soldi e quelle finanze che hanno per tanto tempo circondato il mondo dell’”Avarizia” e che hanno sempre condannato il buono visto negli occhi dei fedeli, persone diventate oramai estranee ad una realtà fatta di “prosciutti sugli occhi”.
Vatileaks: assolti i due giornalisti
Pertanto, se il processo in Vaticano a due giornalisti e a due libri è stato considerato dagli addetti ai lavori una farsa, la sentenza finale ha dato ragione a quella meritocrazia combattuta per sette mesi, una guerra collettiva per la libertà di stampa, vinta non solo dai due chiamati in causa ma anche da quei principi liberali che hanno assolto la libertà stessa dalla prigionia “spirituale”.
Nella sera del 7 luglio i giudici di Papa Francesco non hanno, infatti, solo scarcerato la libera stampa ma hanno fatto letteralmente a pezzi l’impianto accusatorio del promotore di giustizia che considerava i due giornalisti colpevoli di aver «concorso moralmente» nella divulgazione di notizie riversate, grazie «all’impulso psicologico» che «ha permesso loro di contribuire a rafforzare il proposito della rivelazione delle notizie» dei due funzionari vaticani, monsignor Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, dichiarati, al contrario, entrambi colpevoli. L’assurdità di tale assioma è stato sconfitto da una sentenza coraggiosa e da una corte che, grazie al “diritto divino”, ha saputo tutelare la stampa da ogni tipo di censura, da ogni tipo di condanna perché <<pubblicare notizie vere e di interesse pubblico non può essere considerato reato>>, nemmeno dietro le sacre mura.
I giudici non hanno pertanto solo messo fine ad un’istruttoria che ha causato gravi danni d’immagine alla Chiesa e al pontificato di papa Francesco in tutto il mondo ma hanno anche richiuso le stesse porte del paradiso di Pietro riponendo le chiavi lì dove un forziere “sospetto” può essere aperto: anche in uno stato teocratico, il giornalismo d’inchiesta deve fare il suo lavoro e il giornalista può pubblicare notizie verificate e non diffamanti, senza aver paura di essere rinchiuso in carcere o, per meglio dire, “finire all’inferno”.
Michele Calamaio