Ciao, Paolo.
L’isola una nube di morte, la Sicilia perbene è un boato di rabbia, la giustizia perde un altro po’ di coraggio e la mafia si convince di aver vinto. Ancora. Il 19 Luglio 1992, il procuratore aggiunto, Paolo Borsellino, muore ammazzato da cosa nostra. Era una domenica, una giornata divisa in due fra il dovere e la rarità. Abituato ad una vita inchinata alla lotta contro la mafia, rassegnata a ritmi serrati, quelli che gli costarono, spesso, equilibri familiari sull’ orlo del baratro , il giorno della sua morte, Borsellino si era concesso una tregua dalla vocazione. Nessun bunker, niente maxi processo.
L’eccezione cominciò di mattina presto. Era abituato ad anticipare l’alba per fottere il mondo con due ore d’anticipo. Si recò prima a Villagrazia, per dedicarsi alla moglie, Agnese, e a due dei suoi tre figli, Manfredi e Lucia. La più piccola, Fiammetta, si trovava in Thailandia per una vacanza con amici di famiglia . Rivide qualche amico, ormai gliene erano rimasti pochi, e fece un giro in barca, per poi ritornare, dopo pranzo, a Palermo. Avrebbe dovuto accompagnare sua madre dal medico, non erano in molti a sapere quando, poi, non si è mai verificato, ma chi ha attentato la sua vita ne stava, chiaramente, vigilando le peculiarità già da un po’.
Il giudice Borsellino, ha cominciato a morire almeno due settimane prima della strage che lo ha consacrato eroe italiano senza tempo. L’auto bomba che, insieme alla sua, frantumò la vita di:
Agostino Catalano (caposcorta), Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, fu fatta esplodere dinanzi all’abitazione di Via D’amelio, a pochi passi dalla casa materna e a fianco alle auto della scorta.
Ciò che ci restituiscono le immagini di quel giorno, è un frantumo di carcasse ancora in fiamme e corpi fantasma investiti dalla cenere. Giornalisti che tentano di fare notizia e gli addetti ai lavori che, se danno di matto, forse, non è solo perché intralciati nel tentativo di ricomposizione del luogo, ma anche per la morte di chi , dopo la scomparsa di Rocco Chinnici e Giovanni Falcone, era speranza e fortezza contro il terrorismo mafioso. “Sono autorizzato a filmare”, dirà un cameramen invitato ad allontanarsi dalla scena del crimine, mentre chi lo respinge gli accosta all’orecchio urla di ira: “ ma cosa vuole filmare, corpi mutilati, vuole filmare?”
“È finito tutto.” pronuncerà la voce rotta del dottore Antonio Caponnetto, preso alla sprovvista da un inviato Rai, tre o quattro sospiri, qualche secondo di silenzio, e il cronista rimarca l’interrogativo: “perché è finito tutto, dottor Caponnetto? “ a quel punto l’amico e collega di Falcone, prima, e Borsellino, poi, afferra il microfono con una veemenza commossa, quasi a volersi avvicinare alla rabbia provata in quel momento. Si morde tre o quattro sillabe dalla bocca, e poi aggiunge “Non mi faccia dire altro, per favore, non mi faccia dire altro.”
Paolo Borsellino ha sempre saputo di morire, ucciso dalla mafia. Ha vissuto, assieme ai suoi compagni di coraggio e paura, tra un attentato fallito e l’altro. “ Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”, gli disse il collega Ninni Cassarà , mentre, alla fine del Luglio 1985, si recavano insieme sul luogo in cui era stato ucciso il dottor Montana. In quel momento, e non soltanto, il giudice Borsellino incontrò la consapevolezza della paura, ma l’aveva accettata. Sapeva che il suo lavoro comportava un rischio tanto grosso come la negazione della vita per mano di altri, ma non fu mai un motivo valido per dire basta, neanche quando dovette superare la morte di Falcone, deceduto fra le sue stesse braccia. Dopo il decesso dell’amico di sempre, quello cresciuto con lui nello stesso quartiere, diventato collega di segreti, privazioni personali ed inchieste, aveva temuto una drastica perdita di entusiasmo, per poi ritrovarlo – come da lui stesso dichiarato – in una forte dose di rabbia per quanto accaduto.
“ Credo profondamente nel lavoro che ho scelto. So che è necessario che io lo faccia, come è altrettanto opportuno che altri ci credano insieme a me. So che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare, senza lasciarci condizionare dalla sensazione, o financo, della certezza che tutto questo può costarci caro.” Aveva detto in una delle sue più celebri interviste.
Non ricordiamo solo la strage, perché non ha senso celebrare la morte se vivere non è una priorità. Di Paolo Borsellino abbiamo voluto scovare la normalità delle ore precedenti la sua fine, per sottolineare che non esistono eroi, ma uomini qualunque con un coraggio straordinario.
Ciao, Paolo.
Michela Salzillo