La banalità del male
Nel 1960 Adolf Eichmann, componente delle SS, considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei, viene arrestato a Buenos Aires e condotto davanti al tribunale di Gerusalemme dove deve rispondere a quindici capi d’accusa tra cui “crimini contro il popolo ebraico e crimini contro l’umanità”.
Hannah Arendt, filosofa tedesca e reporter del New Yorker scriverà, assistendo contemporaneamente al processo, La banalità del male
Col termine “banale” la Arendt intende sottolineare la mancata mostruosità di chi ha commesso questo male.
Eichmann così come altri suoi colleghi, non è altro che un uomo comune, burattino nelle mani del male stesso.
La Arendt lo descriverà come un “grigio burocrate”, uno che non si rende conto delle mostruosità che compie poiché abituato ad obbedire agli ordini dei gradi maggiori senza porsi il dubbio morale di ciò che giusto e ciò che è sbagliato.
Ciò che più turba la filosofa, è la mancanza di radici di questo male: non essendoci un perpetuo ricordo nella memoria degli uomini delle azioni mostruose avvenute, il ciclo continua e continuerà a riproporsi.
Ne siamo testimoni in questi giorni, mesi di pura follia in cui sembra ripetersi ciò che già è accaduto in un capitolo della storia che sembrava ormai chiuso.
Uccidere senza rendersi conto di ciò che si fa è presumibilmente il male maggiore che si possa compiere.
Nessuna fredda lucidità, nessuna spietatezza ma la semplice attitudine all’obbedienza a chi è più forte.
Il clima di tensione che si respira nel mondo nell’ultimo periodo non può non riportare con la mente ai periodi delle Guerre Mondiali: stermini di razza, di religione, per il potere e la ricchezza.
Il ciclo della storia sembra essere destinato a ripetersi se l’essere umano non comincia a conoscere prima sé stesso, in un dialogo che la Arendt definisce “due in uno”, rendendosi cosciente delle azioni che può o che non deve compiere.
“La banalità del male” oltre a essere un reportage giornalistico è un vero e proprio trattato filosofico sulla coscienza dell’uomo che ultimamente sembra aver perso.
In un clima così buio e teso questo testo degli anni ’60 sembra essere più attuale che mai, anche perché, citando le parole del libro, “ I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente
e al mondo c’è troppa gente perché certi fatti non si risappino: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non a lunga scadenza.”
Maria Rosaria Corsino