La caduta degli Dèi Olimpici Italiani
Di Michele Calamaio
Chi credeva nell’eternità si sarà fatto due conti con la realtà della “vecchiaia sportiva”. Chi credeva nella gloria assoluta si è reso conto dell’impossibilità tangibile di gridare al mondo la propria sete di grandezza nel corso del tempo.
Chi credeva davvero nella fama “ricaricabile” ad ogni salita si è arreso inevitabilmente ad ogni caduta, si è aggrappato ad una popolarità effimera che ha chiuso gli occhi gloriosi un’ultima volta, ha scaraventato a terra i sogni di celebrità con tanta indifferenza, la stessa che ora punisce chi ha peccato di ingenuità mista ad arroganza
E’ stato questo il dramma sportivo che ha colpito nel giro di pochi giorni i quattro “divi olimpici” italiani per eccellenza, quegli stessi che per anni hanno raccontato una storia interminabile di successi e che, nel giro di poche ore, hanno chiuso allo stesso modo un libro nella maniera peggiore possibile: <<la sconfitta più bruciante è non riuscire a rialzarsi>> afferma la Pellegrini, consapevole di essersi giocata, forse, davvero l’ultimo gettone a disposizione che l’avrebbe portata a “toccare il cielo con un dito”, a sostenere sulle proprie spalle la grandezza dell’”universo Italia”, un mondo con cui giocare e divertirsi ma anche da ammirare in lontananza per la sua pericolosità mediale; <<è una vittoria della politica e non dello sport>> incalza Clemente Russo, altrettanto amareggiato per aver assistito alla sua inevitabile inversione di marcia vertiginosa che gli è costato una ripida caduta agonistica senza aver potuto “colpire” il bersaglio con la forza che l’ha contraddistinto per tutto il tempo in cui ha seduto sul “trono del pugilato”; <<non ho gestito la tensione>> suggerisce la Errigo, arrivata al punto limite del decadimento atletico dopo essere riuscita nell’incredibile “impresa” di passare dal sogno di una vita all’incubo più brutale nel giro di poche scoccate, pochi ma decisi colpi alla tuta che la difendeva dalla spada, ma anche a quel cuore troppo fragile da riuscire a reggere un peso così abnorme; <<è stata tutta una beffa>> conclude Schwazer, rassegnato al punto tale da non riuscire più a pronunciare parola, quella che in tante occasioni ha caratterizzato i suoi occhi pieni di lacrime di gioia, il suo fisico ricoperto di un sudore meritevole, la sua mente distrutta ora da un doping ancora tutto da verificare che lo condanna inesorabilmente alla poltrona di una casa vuota piuttosto che all’asfalto di una città, Rio, piena di tifosi pronti a incitarlo fino all’ultimo passo per la vittoria.
In un trambusto di emozioni miste a sentimenti, ci si ritrova pertanto in una stanza chiusa dove rimbombano pesantemente le grida di rabbia di chi insulta i tifosi, di chi scarica il proprio nervosismo contro i giudici di gara, di chi ancora litiga con il proprio allenatore e chi, propenso a fuor suonare la campana del prossimo gong ancora un’ultima volta, non si rassegna a chiudere malamente la propria carriera e grida al complotto. Dietro la gioia e le lacrime di chi vince una medaglia si nasconde, così, un malessere mostrato ai pochi ma celato dentro fino allo scoppio di una guerra interiore, capace di distruggere un piedistallo fino ad ora usato con eccessivo lusso e sfarzo ma in procinto di cadere rovinosamente per far posto alla “nuova gioventù”, un fiore all’occhiello che cerca di arrivare ad eguagliare la carriera tanto sognata dei propri idoli e che tenta, con immenso sacrificio e forza di volontà, di far superare all’allievo inesperto quel maestro così tanto in difficoltà: c’è tanta rabbia, si racconta, ma è una rabbia ancora più distruttiva che corrode l’immagine pura delle olimpiadi e sancisce la fine di un “impero” che per troppo tempo ha vinto battaglie senza guardarsi mai alle spalle.
La figura più imponente, nonché portabandiera della nazionalità italiana, che ne esce totalmente sfigurata da questa competizione internazionale è quella di Federica Pellegrini: i Giochi Olimpici, infatti, erano cominciati in maniera trionfale per lei e le buone sensazioni registrate durante la vigilia erano diventate ottime in vista di una gara, la sua gara, che le avrebbe regalato la soddisfazione più grande dopo una vita intera passata tra allenamenti, piscine e tanto sacrificio, che le avrebbe permesso finalmente di diventare donna, quell’eroina speciale capace di superare la stessa Anita Garibaldi, emulando un impresa degna di essere trascritta sui manuali di storia contemporanea. Ma a 28 anni, dopo una carriera lunga e logorante, Federica va più lenta delle nuove leve e finisce fuori da quel podio che aveva così tanto sognato: <<Ho 28 anni e se ancora si dice che subisco la gara di testa, tiro cazzotti a tutti>> è stato il commento a caldo abbastanza scomposto della campionessa azzurra, la quale, dopo aver riequilibrato testa e cuore, ammette la delusione enorme, colpevole di essersi fatta prendere da una <<determinazione eccessiva>> senza tener conto dell’imprevedibilità delle avversarie. Tempo di riprendersi? Chi lo sa, ma nel frattempo il dolore è forte, va acutizzato con il tempo, lo stesso che le permetterà di dare una risposta a tante domande, in primis a quella di <<cambiare vita o meno>>: da una parte <<la sconfitta nei 200 mi ha fatto vedere nero, nerissimo>> diventa lo striscione perentorio che a primo impatto consolida l’idea di rinunciare alla sua immensa miniera di successo, portando a casa una medaglia di legno che sa di sconfitta eterna; dall’altra, il suo coraggio viene premiato dal suo <<non voglio smettere piangendo, non voglio finirla così>>, grido di speranza verso un futuro ancora tutto da scoprire ma in cerca di un riscatto immediato e certo, a prescindere dal finale.
Chi esce sconfitto tra le polemiche è, invece, lo stallone di Marcianise Clemente Russo: più dei pugni del russo campione del mondo Eugeny Tishenko, a fargli male sono le valutazioni dei giudici, colpevoli di aver messo in scena un vero e proprio “furto” agli occhi del mondo della giustizia sportiva. <<Oggi anche chi non capisce un cavolo di pugilato ha visto che avevo vinto>> afferma il pugile campano, che in tutta la sua interminabile furia riesce a farsi scappare uno spiraglio di umanità ancora non toccata dalla rabbia animalesca scatenata dall’accaduto, annunciando una potenziale partecipazione ai prossimi giochi nonostante le ben 32 primavere: <<mi sento ancora giovane sia fisicamente che mentalmente>>, conferma l’oramai ex Balboa italiano, provando a scherzare su un futuro che attende, pertanto, solo il suo immediato ritorno alla vetta.
Chi invece non si conferma campione è Arianna Errigo, numero uno in carica nel fioretto femminile ma fuori soltanto agli ottavi in una tabella di marcia che la lascia di stucco, immobile in tutta la sua delusione e amarezza, e le consente di ricevere il “dono” neanche tanto ricercato della pausa di riflessione, necessaria al riequilibrio fisico e mentale: <<sono caduta nel baratro dell’autosicurezza>> ha affermato l’ex primatista subito dopo essere stata sconfitta dalla canadese Harvey, scagliando la propria delusione in parte contro se stessa e in parte contro il suo maestro Giulio Tommasini, tecnico fidato che però l’ha tradita nel momento clou della sua carriera e le ha bloccato la strada verso quell’oro tanto desiderato ma svanito nel nulla come neve al sole. <<Credo stia cercando solo una scusa per giustificare la sconfitta>> la risposta veemente dell’insegnante stesso, pronto a difendersi nonostante le accuse dell’allieva, la quale, stavolta, non è stata capace di superarlo, di vincere quella barriera di “rispetto reciproco” tra le figure professionali ed è caduta sotto l’effetto sonnambulo di una spada che l’ha cancellata inesorabilmente dalla Hall of Fame dei giochi di Rio.
Chi, infine, non è neanche riuscito a scendere in campo e a provare anche minimamente a gareggiare in una marcia che l’avrebbe trasformato con buona speranza da “diavolo” ad “angelo” è stato Alex Schwazer, il corridore altotesino sconfitto da se stesso, da un controllo doping ancora tutto da chiarire e da un Tas che gli ha inflitto la pena più cruda che un atleta avrebbe mai potuto immaginare nel corso della sua carriera: otto anni, otto anni di squalifica, otto anni di inferno terrestre, otto anni di “morte spirituale”, otto anni da reinventare, per non cadere inesorabilmente nella fossa dei leoni e diventare cibo per dei mass media che prima osannano e poi uccidono spietatamente. Fatale per il gareggiatore azzurro la positività al testosterone nel controllo dello scorso primo gennaio, determinando una recidiva decisiva alla decisione finale, un verdetto inappellabile che segna senza scampo la fine della carriera di Schwazer. <<Dovete avere rispetto>> si limita a dire ai giornalisti che lo attendono al suo ritorno in Italia, ancora più sconvolto da una giustizia che per una volta sta agendo come tale e non si piega di fronte all’umiliazione sportiva di chi ha sbagliato: <<lo hanno voluto eliminare e ci sono riusciti>> ha, invece, affermato il suo allenatore Sandro Donati, pallido in viso, rosso dalla rabbia e decisamente nero per lo schiaffo in faccia ricevuto da quelle stesse autorità che avrebbero dovuto consentire di mostrare ancora una volta al mondo dello sport tutto il valore di un uomo innanzitutto, e di un professionista poi.
Quattro destini, quattro figure, quattro campioni. Tutti diversi, tutti incredibilmente distinti ma così tanto uniti da un filo impercettibile che li ha resi unici in tutti questi anni, super eroi che sono stati in grado di regalare emozioni, di infliggere sconfitte cocenti ad avversari temibili ed esultare con la stessa intensità con la quale purtroppo, adesso, ripongono le proprie armi e cadono a terra in segno di resa: se Pierre de Coubertin aveva ragione affermando che “l’importante non è vincere ma partecipare”, allora questo motto internazionalmente accettabile non rappresenta una vera sconfitta per il mondo azzurro, non si può neanche minimamente considerare una catastrofe sportiva in tutta la sua soggettività, ma va soltanto a riempire un altro passo fondamentale della storia umana, uno di quelli che difficilmente saranno dimenticati, ma pur sempre un passo avanti verso la scoperta di nuovi talenti, nuovi destini, nuove figure, nuovi campioni pronti a sostituire quelli vecchi. Perché si, oramai gli attuali sono soltanto categorizzabili all’interno della scatola chiusa degli “Dei decaduti”, e purtroppo nient’altro più.