Sergio
Di Christian Coduto
Arriva nei pressi di Piazza Plebiscito in perfetto orario. Sorridente come sempre. Ha un atteggiamento amichevole che suscita immediatamente allegria. Mi saluta in maniera educata e cordiale.
Un caffè nel celebre “Gambrinus” ci sta tutto. Soprattutto oggi pomeriggio: Napoli con il sole è la fine del mondo. Sergio, da persona socievole e abituata ad essere in contatto con tante persone, scherza allegramente con i camerieri. Sembra quasi di casa.
L’intervista sarà veloce, ritmata. Eppure, senza affanni. Tende a coinvolgerti, ad abbracciarti con le parole. “E’ una parte di Napoli che conosco molto bene” mi dice “Ho lavorato anche nel Tunnel Borbonico, tempo fa. Un’esperienza molto bella, quella di Noi vivi, ambientata durante la seconda guerra mondiale”.
Sergio Del Prete ci parla del suo percorso artistico.
Chi è Sergio Del Prete?
Un trentenne, della provincia di Napoli, che ama il mare e il cibo.
Quando hai capito che la recitazione avrebbe avuto un ruolo così importante nella tua vita?
Nel momento in cui ho visto che stava diventando il modo migliore che avessi per comunicare: un adolescente timido e riservato aveva finalmente trovato un modo per farsi “accettare”.
Il connubio attore/timidezza è piuttosto frequente. Molti sono i personaggi del mondo dello spettacolo che hanno delle piccole remore, che tendono alla riservatezza. Per molti di quelli che ho conosciuto ed intervistato era un fatto tangibile, evidente. Ammetto, stavolta, di essermi sbagliato: il modo in cui è seduto, il suo modo di parlare, persino l’abbigliamento riflettono una sicurezza incredibile. Forse, cerca di darsi un tono per non lasciare trasparire quei piccoli limiti che, inevitabilmente, ogni essere umano possiede. Apparire “imperfetto” (virgolette d’obbligo) non lo aiuterebbe a superare di certo il suo essere introverso. Un leone con un cuore tenero? Definiamolo così.
Sei un attore che si è fatto le ossa sul palco, in realtà più piccole e in produzioni importantissime. La gavetta sembra essere un optional, soprattutto per i personaggi (o presunti tali) che provengono dalla televisione. Come affronti questo involgarimento che sta subendo il teatro?
Come per tanti attori napoletani, le mie prime ispirazioni sono nate dalla grandezza di Eduardo, la genialità di Totò e la delicatezza di Massimo Troisi. Personaggi che trasmettono involontariamente, come tutti i grandi, il senso del sacrificio, che non è sempre una parola che deve far paura. La gavetta prevede anche una base di curiosità nell’artista, nel volersi confrontare con diversi metodi. Purtroppo viviamo nell’epoca del “tutto e subito”, dei “fenomeni del momento”. L’involgarimento non lo subisce il teatro, ma il suo mercato e, purtroppo il pubblico. Il teatro è molto più grande di tutti noi. È un involgarimento che deriva dai produttori che sono sempre più interessati, giustamente o ingiustamente, solo ai numeri e non ai numeri uniti alla qualità. Da attore non disprezzerei certo ruoli televisivi, ma cercherei allo stesso momento di avere sempre di più quella curiosità del bambino/attore di teatro.
Hai lavorato, in diverse occasioni, con un artista del calibro di Ernesto Lama. Ultimo in ordine cronologico, il bellissimo progetto “Anonimo napoletano”. Quanto è importante la sintonia con il regista per la resa sul palco?
Ernesto Lama è un po’ un mio “padre artistico”. Artisti geniali come lui ce ne sono davvero pochi in giro. Da diversi anni lui conduce laboratori, trasmettendo il suo sapere teatrale che è infinito. È uno di quegli artisti che il teatro glielo vedi negli occhi, nelle mani, nelle rughe. Impari osservandolo attentamente, osservando le sue infinite sfumature. La sintonia con un regista è decisiva ai fini dello spettacolo. Il regista non deve fare altro che stimolare all’ennesima potenza l’attore e farlo sguazzare nella sua libertà all’interno di un contenitore. L’attore per natura è libero, non lo puoi ingabbiare, ma lo devi accompagnare per mano. Se vuoi davvero il massimo da un attore lo devi stimolare, affiancare, non ingabbiarlo.
Un’altra esperienza importante: “Signori in carrozza”, con Giovanni Esposito, ancora Ernesto Lama e Paolo Sassanelli, che ne cura la regia …
La mia prima tournèe. Un’esperienza fondamentale per la mia carriera. Sono arrivato a questo spettacolo grazie ad Ernesto Lama che mi ha proposto al regista Paolo Sassanelli, che mi ha scelto dopo aver sostenuto un provino. La fortuna di aver lavorato in questo spettacolo sta nel fatto di aver avuto la possibilità della ripetitività. Si ha l’opportunità di “provarti” come attore ogni sera, di calibrare con il pubblico i tuoi tempi, i tuoi sguardi, i tuoi movimenti. Poi, avere l’opportunità di stare in scena con Ernesto, Giovanni e Paolo, non capita tutti i giorni. Questa opportunità l’ho sfruttata come una grande scuola, osservando la grandezza, i dettagli, i particolari, le piccole abitudini e manie di questi tre grandi artisti. Giovanni Esposito è tra gli attuali attori più bravi d’Italia a mio parere, un attore intelligente, dal quale devi rubare la sua grande professionalità e precisione. Con Ernesto impari tanto mestiere, è uno di quegli attori che sa perfettamente cosa accade alle sue spalle, uno che conosce i centimetri del palco in cui si trova, a memoria. Paolo Sassanelli invece è un poeta, il suo metodo inizialmente sembra essere scoordinato, ma alla fine ti accorgi che la sua regia è un orologio di poesia, un grande uomo. Una sua frase che non dimenticherò mai è: “Uno spettacolo bello lo fanno in tanti. Noi dobbiamo cercare di fare uno spettacolo straordinario”.
Per il Napoli Teatro Festival Italia 2016 reciti ne “La tempesta”, accanto a Michele Placido
Un’esperienza emozionante per diversi motivi. Prima di tutto incontrare Placido: ero un po’ intimorito da lui a dire il vero. Quando incontro grandi uomini di teatro e dello spettacolo cerco di relazionarmi a loro sempre con grande rispetto e riserbo, ma lui è una persona semplicissima, che ha il sud negli occhi.
Ma un’emozione ancora più forte l’ho provata perché ho recitato uno dei testi più belli, secondo me, della storia del teatro: la traduzione della “tempesta” di Eduardo De Filippo. Un testo che leggi e mentre lo fai ti batte il cuore forte. Ho recitato la parte di Calibano, lo schiavo orco dell’isola. In quella occasione, ho scoperto che Placido aveva interpretato lo stesso ruolo ben 30 anni prima.
Quest’ultima frase me la dice con una punta di orgoglio e di immensa soddisfazione. Sempre, però, nell’ottica del bambino che si avvicina al mondo del teatro: con stupore, curiosità, tenerezza.
Sei apparso in tv in un piccolo ruolo in “Un posto al sole”, ma soprattutto in “Sotto copertura 2”. Quali differenze hai trovato, in termini di approccio al personaggio, dinamiche, tempistiche, rispetto alla realtà teatrale?
Sono due mondi differenti. L’attore è un atleta e il cinema, la televisione e il teatro sono semplicemente sport differenti. L’approccio al personaggio cambia non solo in base al contesto/sport, ma anche in base al ruolo. Ci sono ruoli per i quali lo studio inizia tempo prima perché devi entrare in dinamiche di vita che non ti appartengono e da attore devi avere la lucidità di entrare e uscire da questa ad ogni ciak battuto. Li è tutto molto più veloce, soprattutto in televisione. La mia vita è in teatro, dove c’è il tempo di capire cosa stai facendo, dove sei e in che modo puoi esprimerlo. Il pubblico è lì, non si scappa, se sbagli sei fregato, ma sei fregato soprattutto con te stesso. Se svolgi il tuo lavoro come Dio comanda il pubblico lo riconosce sempre.
Al cinema sei stato diretto da registi del calibro di Guido Lombardi, Mario Martone, Sidney Sibilia. Cosa provi quando (e se) ti rivedi sul grande schermo?
Rivedo subito i miei limiti e i miei errori, sono molto critico con me stesso. Sono uno stakanovista, mi stanco raramente e cerco sempre di fare meglio, e credo si possa riuscire solo riconoscendo i proprio limiti e i propri errori.
Ecco, appunto: l’autocritica. Nel corso dell’intervista, ciò che avevo intuito all’inizio appare molto più chiaro, evidente.
Partecipi a “Caserta dream palace”, un maestoso cortometraggio diretto da James McTeigue. Credi che, da un punto di vista registico, gli artisti stranieri seguano dei percorsi differenti rispetto ai nostri cineasti? Intendo: emozioni da trasmettere, uso della tecnica e dei mezzi tecnici a disposizione, montaggio, direzione degli attori …
L’impressione che ho avuto è che in questi grandi progetti, nulla è lasciato al caso e tutti sanno perfettamente cosa fare. Tecnicamente sono straordinari, in Italia c’è ancora un metodo artigianale, che a mio parere non è sempre sbagliato. C’è una grande differenza artistica, credo che l’Italia da un punto di vista “industriale” debba ancora lavorare tanto, ma ci sono dei grandi artisti che spesso vengono schiacciati da dinamiche che di artistico hanno ben poco.
Un’altra collaborazione importante è quella con il regista Roberto Solofria: insieme a lui interpreti e dirigi “Chiromantica Ode Telefonica Agli Abbandonati Amori”, che state portando in tournèe da molto tempo. Ti va di parlarcene?
“Chiromantica ode telefonica agli abbandonati amori” è uno spettacolo che nasce perché io e Roberto Solofria, direttore del Teatro Civico14 di Caserta, che conosco da più di 10 anni, abbiamo sempre provato un amore forte per quegli autori coraggiosi che, negli anni ’80 a Napoli e in Italia, hanno dato una sterzata alla drammaturgia contemporanea e hanno dato vita ad un nuovo modo di fare teatro. Parlo di Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Giuseppe Patroni Griffi e Francesco Silvestri. Leggendo i testi di questi meravigliosi autori, non ci interessava però fare un semplice collage, ma unire i loro testi, come si unirono loro, collaborando, per le scene dell’epoca, inserendoli in un unico contesto che li rappresentasse. Leggendo i loro testi vennero fuori parole come: passione, amore, abbandono, telefono, gelosia, Napoli. Ci interessava unire questi testi a persone con una vita devastata, non considerata, ai margini della società, rinchiusi in quella gabbia che è metafora dell’impossibilità di andare verso quella libertà di amare, quella voglia di urlare il proprio abbandono. Ma a chi? Chi ascolta i due protagonisti? Chi ha il coraggio di liberarsi dai propri limiti? “Chiromantica ode telefonica agli abbandonati amori” é tra gli spettacoli più emozionanti e formativi che fino ad ora io abbia incontrato sul mio sentiero teatrale, perché racconta qualcosa che purtroppo, troppo spesso, si perde di vista: L’essenza. La sostanza. Raccontiamo quindi, la storia di due persone che denunciano il loro abbandono, la loro voglia di amare ed essere amati, con un velo di chiromanzia che magicamente contorna la dura verità del teatro. Cerco di non affezionarmi troppo ai miei lavori, personaggi, ma con “Chiromantica” è nata una storia d’amore, lo ammetto. È uno spettacolo che ho nell’anima, perché rispecchia esattamente la mia idea di teatro, la mia idea di vita, dice tutto di me, mi mette a nudo.
Teatro, cinema, tv, radio. Attore e regista. Quale pensi sia la collocazione più adatta a Sergio Del Prete?
La risposta può sembrare banale, ma sicuramente il teatro. È il mio modo di comunicare, è dove si ha la libertà. Viviamo in una società che ci costringe ad essere attori, a rispettare dei ruoli che non vogliamo, ma che siamo costretti a rispettare, in teatro invece c’è la libertà di esserlo. Nel privato infatti sono molto riservato, ho pochi amici fidatissimi, a teatro invece mi esprimo apertamente, riesco a fare quello che voglio, rispettando sempre le regole del gioco. Come dicevo prima, mi metto a nudo. Ah mi colloco anche benissimo in cucina, adoro cucinare quanto amo fare l’attore (scoppia a ridere).
Domanda multipla: ultimo film visto al cinema, ultimo cd acquistato, ultimo spettacolo teatrale al quale hai assistito.
Ultimo film, “la vendetta di un uomo tranquillo” di Raúl Arévalo e mi è piaciuto così così
Ultimo cd, l’ennesimo di Pino Daniele. Ho una passione maniacale per Pino Daniele e per la sua musica. Mi manca tanto.
Ultimo spettacolo, Play duet, con Tonino Taiuti e Lino Musella, meraviglioso spettacolo.
Cosa dobbiamo attenderci da Sergio Del Prete per questo 2017?
Spero spettacoli belli da far vedere, però appena lo so pure io te lo dico.
Termino con una domanda Marzulliana : fatti una domanda e datti una risposta
Cosa avresti fatto, se non avessi iniziato a fare l’attore? Non ho la più pallida idea, è l’unica cosa che riesco a fare. Forse il cuoco.
Un incontro interessante, il nostro. Un’anima da studiare, da conoscere meglio. Di sicuro, un uomo dalle grandi doti attoriali.