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Drama Teatro Studio

Vincenzo
CulturaIn primo pianoLibri

Vincenzo Restivo stupisce il Drama Teatro Studio: l’intervista

scritto da L'Interessante

Vincenzo Restivo.

 

Di Michela Salzillo

 Era circa una settimana fa quando, sull’ onda degli ultimi preparativi, vi avevamo promesso che saremmo stati presenti al battesimo dell’ultima creatura di Vincenzo Restivo. L’ inaugurazione di Storia di Lou, come preannunciato pochi giorni fa, si è tenuta presso il Drama Teatro Studio di Curti. Il nuovo romanzo del talentuoso autore marcianisano è stato accolto da una platea attenta e partecipativa. L’incontro, moderato da Christian Coduto, si è rivelato infatti l’ ottimo pretesto per alimentare un diretto e  proficuo confronto su temi  concernenti il vasto pianeta della diversità, con ampio e doveroso riferimento alle verità, forse ancora troppo taciute, legate al transessualismo.  Entusiasti anche i padroni di casa, gli attori Rosario Copioso e Dario Pietrangioli, che in merito alla serata si sono così espressi:

“Storia di Lou” ha incontrato per la prima volta il pubblico, un pubblico fitto, partecipativo, interessato alla delicata e brutale storia di questo personaggio che Vincenzo Restivo ha prima immaginato per poi offrirlo al mondo raccontandone la pelle, il sangue, il buio e forse il riscatto.

Grazie a questa storia probabilmente non riusciremo a comprendere a pieno, a immedesimarci nelle tante persone che provano disagio a vivere in un corpo in cui non vorrebbero, in un corpo estraneo alla loro mente e ai loro desideri, tuttavia, lo sforzo anche soltanto a sfiorare queste storie, è già una grande vittoria per tutti, perché queste storie, sono anche le nostre, non dimentichiamocelo.”

Ma come e perché nasce Storia di Lou ?

Vincenzo Restivo racconta Storia Di Lou e i suoi progetti futuri: l ‘intervista

 

Storia di Lou, si chiama così la tua ultima fatica letteraria edita dalla Watson edizioni. Si tratta di  un romanzo che tu stesso hai definito essere un tripudio alla diversità. Ci spieghi in che senso?

Storia di Lou è un romanzo scomodo  e nello stesso tempo, una storia aperta. Scomodo perché mette in risalto una tavolozza di problematiche che spesso vorremmo accantonare in un angolo e dimenticare: dalla depressione all’autismo, dal suicidio all’inadeguatezza di trovarsi in un corpo che non riconosciamo. Ma è anche una storia aperta, libera, perché permette a tutti  di entrarvi per comprenderla. Il mio scopo era proprio quello di indottrinare alla diversità, rompere quel velo di perbenismo che rende difficile la comprensione stessa, che dà un limite all’empatia.

Il tema dominante di questo romanzo, tra gli altri, è senz’altro quello del transessualismo. Secondo te, oggi, qual è il livello d’informazione legato a una simile realtà?

C’è ancora tanto da sapere a riguardo e si dà molto per scontato. C’è di base un’ informazione sbagliata, e spesso,  una conoscenza superficiale di certe realtà che invece  richiederebbero un’attenzione maggiore. In certe circostanze, come quella della distrofia di genere, anche il linguaggio fa la sua differenza. Usare pro-forme al  maschile, per  rivolgersi a una ragazza MtF, ad esempio, è un errore in cui cadono molte testate giornalistiche. E questo deve far riflettere.

In storia di Lou, così come nei tuoi precedenti romanzi, sei molto crudo nelle descrizioni. In questo caso, ad esempio, tocchi addirittura la delicata questione dell’evirazione. Si tratta di una provocazione o, più banalmente, di una scelta stilistica a cui sei affezionato?

È provocazione, senza dubbio. Una scelta indispensabile per affrontare quelle argomentazioni un po’ scomode. Bisogna incazzarsi , rompere degli equilibri finanche nella letteratura. La lingua serve anche  a questo, a comunicare il dolore, l’instabilità. La linearità stanca e certe insofferenze puoi comunicarle solo attraverso il disequilibrio linguistico, mettendo da parte inutili armonizzazioni. 

L’autismo e la paraplegia sono le altre due facce di questo romanzo. Come sei arrivato a strutturare un’ampia relazione fra tre realtà così complesse?

Tre realtà complesse, diverse ma anche simili. Simili nel loro bisogno di inclusione in un universo di norme imposte da altri e dalle quali non ci si sente rappresentati. La relazione nasce proprio da questo bisogno.

Secondo te diversità e integrazione potranno mai dire vinta la stessa battaglia?

Non amo la parola integrazione. Integrare sta per “immettere qualcosa o qualcuno in un contesto già socialmente formato, con le proprie leggi, le proprie rigide imposizioni”. Il soggetto integrato rimarrà, così, sempre tale, immolando la sua cultura per accoglierne un’altra. In questo caso è quindi più giusto parlare in termini di “inclusione” o “inclusività”, perché includendomi in una realtà estranea, vi faccio parte mantenendo comunque le mie radici culturali. Le parole hanno un loro valore intrinseco e bisogna rispettare quel valore. Ecco, credo che inclusione e diversità potranno dire vinta la loro battaglia  quando la società imparerà a  usare le giuste parole per esprimere i giusti concetti.

Chi vorresti leggesse Storia di Lou, e che tipo di riscontro sociale ti auguri abbia?

Dovrebbe leggero chiunque si senta incuriosito dall’argomento e voglia delle risposte. Non mi aspetto nulla, vorrei solo lasciare una briciola di consapevolezza in tutta questa confusione.

Quali saranno i tuoi prossimi progetti editoriali? C’è qualche novità che ci puoi anticipare?

C’è un romanzo in uscita a Marzo con Milena Edizioni. Tratterà di prostituzione minorile, superstizione e malavita a Napoli. È una nuova avventura che sta già dando i suoi frutti a un mese prima dell’uscita ufficiale. Pochi giorni fa, infatti, è stata pubblicata una  prima recensione sulla rivista PRIDE , curata da Mauro Muscio.  Belle cose, insomma, se penso che comparire su PRIDE era un sogno che avevo da un bel po’ di tempo. I sogni però, ogni tanto si avverano. Basta crederci. E io ci credo.

Grazie per essere stato con noi, Vincenzo. Alla prossima!

Vincenzo Restivo stupisce il Drama Teatro Studio: l’intervista was last modified: febbraio 7th, 2017 by L'Interessante
7 febbraio 2017 0 commenti
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Storia di Lou
CulturaIn primo pianoLibri

Storia di Lou: il nuovo romanzo di Vincenzo Restivo presentato al Drama Teatro

scritto da L'Interessante

Storia di Lou.

Di Michela Salzillo

È fissata per Martedì 31 Gennaio la prima presentazione al pubblico della nuova fatica letteraria di Vincenzo Restivo. Dopo i tre recenti romanzi, pubblicati dalla Watson edizioni come degli avvincenti e distinti capitoli di una ben apprezzata trilogia degli insetti, continua l’ elaborazione creativa dello scrittore marcianisano in direzione di un confermato rapporto con la casa editrice di esordio. Autore de “ L’abitudine del coleottero”(2014); “Quando le cavallette vennero in città”(2015) e “Il tempo caldo delle mosche”(2016), Vincenzo Restivo si appresta a sorprendere mature e acerbe platee di lettori con una nuova storia; un racconto intenso e rabbioso che, come affermato dallo stesso autore, si traduce in un vero e proprio tripudio della diversità, quella che si ribella ai sotterfugi e grida al mondo la sua identità per rivelarsi e farsi ascoltare da tutti. L’appuntamento col pubblico è dunque confermato per la prossima settimana al Drama Teatro Studio di Curti, ore 18.30. Vincenzo Restivo interverrà nell’ambito della rassegna letteraria Parole D’autore, il ciclo di incontri ad ingresso gratuito  organizzato dal Drama Teatro Studio in collaborazione col prof. Gennaro Celato. A moderare la serata sarà Laura Maria Santonicola, vice presidente di Rain Arcigay Caserta Onlus, una presenza importante che sottolinea il simbiotico rapporto di Restivo con la realtà suddetta, essendone lui stesso membro effettivo. Del resto, pare che sia stata proprio questa esperienza a rappresentare una delle principali fonti di ispirazione su cui si è basata l’ idea embrionale successivamente partorita in Storia di Lou. “ Rain mi ha introdotto  in quello che potrei definire l’ universo della sessualità – ha dichiarato lo scrittore in una recente intervista- facendomene conoscere la moltitudine di sfumature-.

Storia di Lou: la sinossi

Lou è un personaggio molto complesso, che porta dentro di sé l’insopportabile peso di un senso di inadeguatezza nei confronti del mondo e soprattutto del suo corpo, nel quale si trova profondamente a disagio. Lou, infatti, sta per Louis, perché all’anagrafe è un ragazzo. Ma dentro quel corpo maschile si nasconde Louise, la principessa della favola che le raccontava sempre sua madre Carla. Già alcuni anni prima aveva deciso di tagliare via con le cesoie del padre quell’appendice innaturale che le pendeva tra le gambe, ma adesso il suo è solo un corpo mutilato. Sua sorella Eli è invece una ragazzina autistica,

che trova sollievo nello scavare con le dita il terreno del giardino per mangiarne gli insetti. Le uniche persone a comprendere l’importanza che questo rituale rappresenta per il suo equilibrio emotivo sono Lou e la madre, che le lasciano fare liberamente ciò che per tutti gli altri sarebbe una pratica aberrante, innaturale. Ma improvvisamente Carla muore e, essendo anche il padre morto anni prima, a Lou non rimane che una persona a

cui rivolgersi: la zia Flo, sorella della madre, una donna estremamente conformista e perbenista. Lo scontro tra le due si manifesta quasi subito, tuttavia Lou trova un complice nel cugino Even, un giovane paraplegico dalla nascita. Sebbene il primo

approccio tra i due sembri ruvido e sgarbato, forse un’iniziale reazione difensiva alla paura di non essere accettati dall’altro, presto la loro apparente rivalità si evolve in una profonda sintonia, una complicità figlia dell’esigenza di protezione tra esseri

similmente diversi.

Parola D’autore: i prossimi appuntamenti

– 21 Febbraio 2017, Mariano Menna con la raccolta di poesie “Temporali d’Estate” (ed. Limina Mentis)

– 21 Marzo 2017, Domenico Carrara con il romanzo “C’è chi si lamenta della pioggia” (ed. Homo Scrivens).

Storia di Lou: il nuovo romanzo di Vincenzo Restivo presentato al Drama Teatro was last modified: gennaio 23rd, 2017 by L'Interessante
23 gennaio 2017 0 commenti
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ventre
CulturaIn primo pianoLibri

Il ventre di Scampia riempie il Drama Teatro: l’intervista a Emanuele Cerullo

scritto da L'Interessante

Ventre.

Di Michela Salzillo

 

Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.

Così diceva Daniel Pennac, ed è forse da verità come questa che nascono le migliori opportunità, quelle che solo la letteratura e il sentimento sono in grado di restituire. Per ogni statistica pronta a demolire la passione per i libri, che stando a certi dati dovrebbe essere già materia estinta, ci sono tantissime iniziative, coraggiose e ostinate, pronte a far evincere l’esatto contrario. Una di queste è partita proprio qualche giorno fa e non bisogna neppure allontanarsi molto per applaudirla. Era il 13 Dicembre quando al Drama Teatro Studio di Curti si dava inizio a Parole D’autore; una rassegna, nata dal sodalizio fra gli attori Dario  Pietrangioli, Rosario Copioso e il professor Gennaro Celato, che mira a promuovere incontri con giovani scrittori o poeti del territorio campano. Ad inaugurare la tranche di eventi letterari previsti per la stagione odierna è stato Emanuele Cerullo, autore della raccolta di liriche dal titolo il ventre di Scampia. Avendo avuto la fortuna di essere lì, al fianco di questo giovane poeta, che di strada ne ha fatta già tanta, ho potuto trasformare in certezza quello che nelle settimane precedenti era stato solo un presentimento: gli organizzatori della rassegna non avrebbero potuto scegliere forbici migliori per tagliare il nastro dei quattro appuntamenti.

Il ventre di Scampia è un libro pregno di storie, di vissuti, di sguardi e di sfumature

E questo perché Emanuele in quel ventre, nel 1993, è nato. È cresciuto nella vela celeste della periferia suddetta, ed è proprio tra le pieghe del degrado che ha imparato a fare le sue scelte.

Quella che è stata presentata al Drama Teatro Studio non è la sua unica produzione autorale, risale infatti al 2007 la nascita della sua prima silloge, il coraggio di essere libero, che all’epoca fu stampata grazie alla collaborazione con la Virgilio 4 di Scampia, la scuola media da Emanuele stesso frequentata. Da quell’anno in poi, il suo percorso ha ottenuto continue vittorie. È apparso più volte sulle reti Rai ed è stato intervistato da personaggi di rilievo come Pippo Baudo . Alcune delle sue poesie sono state pubblicate da testate giornalistiche importanti, quali: Il Corriere della Sera; La Repubblica; Il Mattino. Con il Ventre di Scampia ha scalato le classifiche, restando per ben cinque settimane nella top 5 stilata dall’ inserto napoletano di Repubblica. Ha ricevuto medaglie importanti, come il premio minturnae 2016; alle sue opere viene attribuita continuamente una riconoscenza, oltre che letteraria, anche civile e sociale, proprio per la realtà che vanno a testimoniare. Emanuele sta girando tantissimo, sta facendo presentazioni nelle scuole, nelle banche, nelle università e, proprio come è accaduto l’altra sera a Curti, ogni volta, ascoltarlo diventa una poesia bellissima.

 Il ventre di Scampia ed Emanuele Cerullo: l’intervista che li ha raccontati al Drama Teatro Studio

 

Benvenuto Emanuele! Partiamo con una domanda che si inserisce fra le primissime pagine del tuo libro. Tu anteponi a questa carrellata di liriche parecchio intense, una citazione tratta da le città invisibili di Italo Calvino, prendendo in prestito l’intuizione che l’inferno non sia altrove, ma appartenga invece alla nostra quotidianità. Viene fuori ogni volta che non siamo capaci di ottenere un punto di vista diverso, quello che di solito permette di andare oltre la prima visione delle cose. Credo di non sbagliarmi se dico che, secondo me, tu quell’ottica non solo l’abbia trovata, ma abbia anche imparato ad utilizzarla. Ciò premesso, mettendo per un attimo da parte la poesia, chi è stato in questi anni il tuo “occhio profondo”? 

In realtà è molto difficile mettere da parte la poesia, perché pare che tutto sia poesia. È bello scrivere poesie, ma è altrettanto bello sapere che c’è chi la vede, chi la sente. E chi sente la poesia può vederla ovunque, anche in un piccolo dettaglio, che poi tanto piccolo non è, perché ogni minuzia comunica qualcosa. Quindi, per rispondere alla tua domanda, ti direi che gli occhi profondi sono quelli delle persone che ho incontrato, quelli dei bambini di Scampia, quelli delle vele, dove sono nato e cresciuto. Se ci sono stati dei riferimenti, io ne citerei due: Eminem e San Francesco D’ Assisi. È anche grazie a loro se ho scoperto la poesia! Quando vidi Eminem a Sanremo nel 2001, cominciai a voler scrivere canzoni rap come lui, mi vestivo anche come lui. Un giorno, però, quando ancora frequentavo le elementari, la maestra di italiano mi disse: “guarda che queste non sono canzoni, sono poesie”, fu così che me ne accorsi, e ancora oggi il binomio musica e poesia cammina di pari passo con la mia formazione. San Francesco, invece, lo cito come un altro degli occhi profondi per me importanti, perché ha dimostrato che non conta la ricchezza economica ma quella interiore.  Sottolineo una cosa, io non sono cattolico! Eppure, San Francesco mi è sempre parso un emblema di questa verità. Il suo insegnamento, poi, diventa ancora più determinante in un contesto particolare qual è quello di Scampia.

Come si fa ad insegnare a un ragazzo che nasce a Scampia, o anche in una periferia altra, che un punto di vista differente è possibile?

Guarda, l’educazione è quello che conta! Io dico sempre che nell’ inclusione sociale agiscono la famiglia e la scuola. Sicuramente l’aspetto legato all’arte è un fatto soggettivo, o ce l’hai o non ce l’hai, però la guida, quello che nell’ induismo è il guru,  è fondamentale in famiglia. Io ho avuto la fortuna di avere dei genitori che non mi hanno mai abbandonato, anzi, mi hanno sempre seguito e sostenuto. Nella poesia Con la camorra io c’ ho parlato, scrivo: “quando c’hai un padrone infedele tu trovi la fede nel contagio”. Ti lasci condizionare dalla voglia del denaro facile, soprattutto a Scampia, succede ad esempio quando hai un padre in carcere. È proprio l’educazione, quindi, che ti permette di avere un occhio diverso, non migliore o peggiore, semplicemente un altro.

Perché questo titolo, il Ventre di Scampia?

L’ho intitolato così, e non più semplicemente Scampia, per una ragione di cui nessuno racconta. Esiste anche una Scampia bene! Nel ventre di Scampia c’è quello che Pasolini chiamava sottoproletariato: c’è il popolo, il riscatto vero. Altrove, sempre a Scampia però, ci sono palazzi residenziali dove entrano in ogni appartamento almeno due stipendi. È una realtà di ottantamila abitanti, molto variegata, e questo va detto. Il futuro del quartiere è nelle vele. Ora vogliono abbatterle, che va benissimo, sono d’accordo, anche perché sono stanco di vedere i turisti che vengono a Scampia e si scattano selfie con la vela sullo sfondo. Abbattiamole tutte, quindi, però se spostiamo il degrado di 200mt, lo allontaniamo soltanto, ma tale resta. Offriamo anche opportunità di lavoro, perché altrimenti la riqualificazione sarà solo urbana,  la verità è che nella riqualificazione c’è tutto, anche l’aspetto umano e sociale.

Quando si parla di determinati luoghi, quando si raccontano certe storie, è vizio comune farlo sempre attraverso le stesse modalità. Non mi riferisco al contenuto, non in questo caso, parlo invece del tipo di scrittura utilizzato per la narrazione. Si parla di Scampia in inchieste giornalistiche, la si racconta nei romanzi d’autore, ma è difficile che la si osservi utilizzando la poesia. Perché hai fatto questa scelta, e qual è stato il tuo primo approccio con la poesia stessa?

Ho scelto la poesia perché l’ho trovata più sintetica rispetto a un romanzo. Questa decisione l’ho presa dopo aver letto Ungaretti, ti dico la verità.  Mi colpirono la sua purezza e la sua musicalità. Tutta la sintesi semantica e fonetica della parola, insieme al verso isolato, mi hanno fatto credere che la poesia potesse dire tutto attraverso la sintesi. Ognuno, ovviamente, si sceglie i propri maestri… Per quanto riguarda invece il primo approccio con la poesia, lo definisco senz’altro di tipo ludico. Ascoltai la fontana malata di Palazzeschi, letta dalla mia maestra, e me ne innamorai, era lo stesso periodo in cui ascoltavo rap americano, mi colpì molto quella che io definisco droga fonica.

Le mie prime poesie sono state delle filastrocche, mi divertivo a fare le rime baciate e a prendere in giro le mie maestre… erano esercizi! Ricordo che in quinta elementare, alla fine dell’anno scolastico, mi fecero rapare una mia poesia, e lì, in quella occasione, si unirono per la prima volta le mie due passioni.  Quando vado nelle scuole, dico sempre che Dante è stato uno dei primi rapper, all’inizio mi chiamavano pazzo, ma se ci pensi è così. Il fatto che oggi i rapper si insultino a colpi di rime sembra una novità, ma tanti anni fa lo faceva già Dante con la tenzone.

Nella poesia Confessione del figlio di Scampia, secondo me, declini un senso di inquietudine profonda che però fai terminare nell’ utilizzo di due parole: sete ed essenza, hai mai avuto paura di perderla?

Credo che la paura sia l’unica assassina della passione. È il contrario della passione, la soffoca! Me ne sono accorto quando ho provato paura, però non mi sono mai abbattuto, ho sempre cercato di mettermi in gioco. Anzi, quanto più quella realtà che vivevo, che vivo, mi si presentava davanti agli occhi, tanto più sentivo l’esigenza di esternare la ricchezza interiore. Non ho paura di perdere la mia sete d’essenza, e non voglio neanche interrogarmi sull’argomento. Preferisco dire: ho sete ancora, ho ancora sete di conoscenza.

Il coraggio di essere libero, la voglia di partire per poi tornare, sono di certo ottimi presupposti per ottenere riscatto e rinascita. Ma forse, a volte, tutto questo non basta. In molti casi è necessaria la fortuna, quella degli incontri.

 In questi anni tu ne hai fatti parecchi. Ne Il ventre di Scampia, ci sono alcune liriche dedicate proprio a questa bellezza. La poesia Il pittore, ad esempio, racchiude la storia di un incontro importante. Ti va di parlarne?

 

Questa poesia l’ho dedicata a due persone: a Felice Pignataro, un grande moralista di Scampia che purtroppo non ho conosciuto, e a Sergio che come me viveva nella vela celeste. Lui era il prototipo dell’artista maledetto, di colui che è contro cultura, contro la cultura dominante, contro il consumismo, contro la moda. Incontrarlo lì, dove vedevo gente che spacciava, mentre respiravo il grigiore più assoluto, è stato veramente un raggio di sole. I miei genitori lo conoscevano e mi è capitato di andare a casa sua. Definisco la sua dimora galleggiante in un fumo galattico perché fumava tantissimo e sembrava quasi che casa sua fosse sospesa nel fumo. Era una cosa fantastica! C’erano tantissimi quadri, tra cui ne ricordo uno che mi colpì molto: ritraeva una donna in primo piano e alle sue spalle si intravedevano i cancelli delle vele, che avevano la forma delle siringhe. Dietro si scorgeva la torre verde, perché di fronte alla vela celeste c’è la torre verde, le cui finestre erano raffigurate come delle tane. Sergio ha letto le mie poesie, quando lo fece gli piacquero tantissimo, tanto che promise di ritrarmi. Mi disse: io ti farò un ritratto, ma al posto dei capelli metterò i tuoi versi. Fu una promessa che la morte ha soffocato. Lui se n’è andato così, da un giorno all’altro. Ero al bar quando mi dissero che era morto.

Vele: un’immagine, più che un nome comune di cosa al plurale, così appaiono nel tuo libro. Se io adesso ti chiedessi di associare a questa figura ricorrente un ricordo, una rima improvvisata, un silenzio, cosa sceglieresti di regalarci?

 

Sceglierei una poesia di Giovanni Pascoli. Una di quelle che non si studia nelle scuole, si chiama La piccozza. Quando penso alle vele, mi viene in mente questa perché è una poesia in cui Pascoli parla di sé stesso, parla della scalata verso il successo. Un successo che non ha nulla a che vedere con la fama o la visibilità, si tratta, invece, di soddisfazione personale. Il riscatto, ecco! Le vele, per forma, si prestano all’ idea di qualcosa da scalare, proprio come fanno gli alpinisti con la piccozza, quando passo dopo passo cercano di raggiungere la vetta.

Tu hai dichiarato: “ è l’ indifferenza che genera il male. E ciò che conduce all’ indifferenza è l’idea di dover perdere tempo.” Cosa intendi?

Parto dicendo questo: io ho respirato la precarietà, la marginalità, la povertà. Il regalo più bello che mi hanno fatto i miei genitori è stato appunto la povertà, perché è grazie a lei che sono stato costretto a rimboccarmi le maniche e a fare qualcosa. Dopo aver perso mia nonna e molti amici, ho imparato il senso della morte, quello del limite. Ho imparato cosa vuol dire sentire la fine dietro l’angolo. Tutto questo mi ha ossessionato durante l’adolescenza, così ho cominciato a scrivere, lo so, è poco… Seneca dice: Non è vero che non abbiamo tempo, ne perdiamo troppo. Ecco perché io sono molto legato al concetto del tempo inventato, e ci tengo a sottolinearlo spesso, soprattutto con la mia generazione, quella dei nativi digitali. Oggi siamo continuamente distratti dalle chat, le notifiche, facciamo pensieri a metà, non siamo più capaci di pensare completamente. Per questo è importante inventarlo il tempo. Quando siamo indifferenti nei confronti del prossimo tutto questo non è fattibile, perché non ci confrontiamo e, anzi, vediamo il confronto non come sinonimo di crescita interiore e reciproca, ma come se fosse una continua competizione. Perciò tengo molto all’idea di un mondo che alla perdita di tempo preferisca inventarlo.

Stai facendo moltissime presentazioni all’ interno delle scuole, incontrando studenti giovanissimi. Secondo te, anche facendo riferimento a quando tu stesso eri uno studente, la scuola è in grado di educare alla libertà?

Sfondi una porta aperta! Se è vero che alle medie sono stato molto sostenuto dai miei insegnanti, non posso dire lo stesso per quanto riguarda le scuole superiori, dove sono stato continuamente ostacolato dai miei docenti. Perché scrivevo poesie, perché andavo in televisione. Spesso si usava nei miei confronti un sarcasmo che, essendo parecchio frequente, diventava umiliante. Sono stato addirittura costretto a cambiare scuola perché si era venuto a creare un clima assurdo. Una volta, la professoressa di filosofia mi disse: “Cerullo, io conto di bocciarti quest’anno perché tu sei un arrampicatore sociale, hai degli interessi e svolgi delle attività che non puoi e non devi intraprendere adesso”. In pratica, mi stava dicendo: non devi fare quello che ti piace! Se questa è la buona scuola, ha di certo fallito. La scuola, quella vera, se vuole educare alla libertà,deve sostenere la creatività degli studenti e non il nozionismo, altrimenti, domani, gli studenti saranno macchine e non artisti.

Se non sbaglio, sei tornato anche alla Virgilio 4, la tua scuola media. Qual è, di solito, l’approccio che ti riservano i ragazzi?

L’accoglienza è stata molto buona, nelle scuole di Scampia e non solo. Una volta, in una scuola elementare, la Montale, mi hanno accolto con degli striscioni e disegni ispirati proprio alle mie poesie. Io ho ricevuto diversi premi, ma li ho sempre tenuti ben chiusi negli scatoloni. Nel mio studio ho invece quei disegni, perché sono cose come  queste a rappresentare il vero premio. Ci tengo molto ad incontrare i giovani e mi fa molto piacere quando i professori mi contattano e mi dicendo che i loro ragazzi stanno leggendo e studiando le mie poesie in classe. A proposito di questo, ti voglio raccontare un aneddoto fantastico. Non molto tempo fa, ho ricevuto un messaggio da parte di una madre, suo figlio frequenta il Diaz di Caserta. Mi ha scritto che dopo aver sentito dire che in classe stavano studiando le mie poesie, incuriosita, ha fatto qualche ricerca. Pensava fossi morto, e il fatto di aver scoperto che oltre ad essere ancora in vita, sono pure coetaneo di suo figlio, l’ha resa felice, e lo sono pure io, di essere ancora vivo, soprattutto!

Nella poesia Fisarmonica, tu scrivi:” il mio verso è poetare”, come se tutto partisse dalla poesia e tutto quanto andasse in essa a ritornare. In questo componimento, più che altrove, si percepisce la componente salvifica che le attribuisci riconoscendole il merito di averti permesso di conoscere l’ umanità, quella che manca a chi semina morte e sofferenza attraverso le armi. Se non avessi avuto la poesia, oggi, Emanuele chi sarebbe stato?

Sì, è vero che in un certo senso la poesia mi ha salvato, ma non so se non ci fosse stata lei, cosa avrebbe preso il suo posto, francamente. Certamente non mi sarei fatto condizionare dalla criminalità organizzata, proprio perché mi hanno insegnato determinati valori che hanno rappresentato una corazza importante, tenendomi lontano da certi ambienti . Magari avrei fatto il salumiere, il macellaio, ma sarei comunque restato onesto.

Forse non tutti sanno che il progetto di F. Di Salvo, l’architetto che si è occupato della progettazione delle Vele, prevedeva un’ ambizione diversa per Scampia. L’idea, infatti, era quella di riprodurre nel quartiere i vicoli di Napoli. Se tutto questo fosse stato realizzato, compresi i centri sociali per i ragazzi, credi che il destino di Scampia sarebbe cambiato?

 Ti ringrazio per aver sottolineato questa cosa, perché appunto le vele non dovevano essere così come le abbiamo viste noi. La cassa del Mezzogiorno finanziò due insediamenti popolari, da fare a Scampia e a Ponticelli. Pensa che Scampia deriva dal termine scampagnata perché prima non esisteva nulla, soltanto terra, infatti gli anziani del luogo la chiamavano ‘ a scampia, ‘a scampagnata, il luogo piano. Il boom edilizio è arrivano solo fra gli anni ‘ 60 e ’70 con la costruzione di diversi edifici. Come giustamente ricordi, nel progetto erano previsti diversi centri di aggregazione che se fossero stati costruiti, probabilmente, sottolineo il condizionale, non ci sarebbe stato tutto il degrado che invece c’è oggi, però il discorso è molto complesso… Scampia è un quartiere vastissimo, gli spazi sono larghissimi e quindi è la struttura stessa a non favorire il dialogo, l’ incontro.

Fra le tante cose, curi anche una collana editoriale che si occupa di poeti emergenti under 30, secondo te, è vero che la poesia è di difficile collocazione nel mercato editoriale?

Sì, credo proprio di sì.  È  anche vero che le case editrici tendono a non pubblicare poesia, ma questo perché è un investimento importante. Un editore è un imprenditore e , in quanto tale, investe sul talento di un autore. Il che vuol dire che, secondo me, un autore non deve pagare per pubblicare perché questo non è editoria, vuol dire essere squali, mercenari. Ci tengo a sottolineare che la collana di cui stiamo parlando, la curo per le edizioni neomediaitalia ,che è la mia casa editrice, e non chiede un euro  ! Detto questo, il fatto che sia di difficile collocazione ha radici antichissime. Anche nel ‘900 era così. Intendo dire che era molto più elitaria di quanto non lo sia oggi. Montale, negli anni, ’60 parlava di pubblico della poesia. È sempre stata concepita come una specie di setta, almeno dall’ illuminismo in poi, prima di allora era diverso: la poesia era attualità, descriveva attualità. Basti pensare che i canti di Dante andavano a finire nei memoriali bolognesi, erano registri curati dai notai… A volte, però, è la poesia stessa che si va a cercare quest’ isolamento. Se si estranea dal mondo, se non si confronta col vero, e per vero intendo quello che ci circonda, quello che spesso la critica definisce poesia civile, che va da Dante a Pasolini, è difficile considerarla. Se invece prova a non farlo, tutto diventa più semplice. In fondo al lettore non gliene frega niente se tu quella cosa l’abbia detta in prosa o in poesia, chi legge si sofferma sul contenuto. Io credevo che questo libro passasse inosservato, invece ho fatto quasi sessanta presentazioni, cosa che non sarebbe accaduta se avessi scritto poesie troppo lontane dalla realtà.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Innanzi tutto voglio laurearmi. Sto andando in giro a presentare il libro ma, al tempo stesso, sto rallentando molto gli esami. Continuare a scrivere, sicuramente, lo farò finché vivrò, non ho intenzione di parlare di Scampia per sempre, bisogna sperimentare, l’arte è sperimentazione continua. Il prossimo progetto vorrei incentrarlo a Napoli, prendendo spunto da una parola che mi ha colpito molto, che  non esiste in altre realtà geografiche: napolitudine, termine che indica una grande mancanza di Napoli, quel sentimento che prova il napoletano che vive altrove, ma anche il turista che viene a Napoli e poi se ne va. Vorrei parlare della Napoli giovane, senza abbandonare però il concetto di periferia, perché ce ne sono tante, e tutte sono sinonimo di una marginalità di cui è sempre bene raccontare.

Grazie di cuore per essere stato qui con noi. A presto!

Il ventre di Scampia riempie il Drama Teatro: l’intervista a Emanuele Cerullo was last modified: dicembre 16th, 2016 by L'Interessante
16 dicembre 2016 0 commenti
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