Aurelio.
Di Christian Coduto
Avevo già incontrato Aurelio De Matteis alcuni anni prima, in occasione di uno spettacolo teatrale: preciso, attento, rigoroso, era riuscito a dare forma ad un personaggio difficile, con una naturalezza e una spontaneità che mi avevano lasciato basito. Ho modo di rivederlo, oggi pomeriggio, per parlare del suo ultimo progetto, lo spettacolo “Acqua Santa” (da lui diretto insieme a Costantino Punzo) e delle sue tante esperienze artistiche. Al telefono mi ha chiesto di incontrarci a Piedigrotta, nel Parco Vergiliano. In attesa del suo arrivo, lancio più di un’occhiata alla tomba di Giacomo Leopardi. Ogni volta che metto piede, qui, l’effetto è sempre lo stesso: il tempo e lo spazio diventano un tutt’uno, è facile perdersi in questo vortice informe. La mente vaga liberamente. Ogni elemento stuzzica il ricordo, ogni immagine crea un’epifania. Sono talmente impegnato ad osservare i particolari dell’entrata del Colombario di Virgilio che non mi accorgo di averlo alle spalle. Mi giro e rimango sorpreso: mi ricordavo di un viso e di un corpo più tondeggianti, ma questi hanno lasciato spazio ad una silhouette longilinea. Gli dico che lo trovo in splendida forma. Mi ringrazia timidamente. Ha un abbigliamento vagamente retrò, decisamente dandy. Ha un portamento nobile, che fa pendant con il suo cognome. E’ come se mi trovassi di fronte ad un’altra persona; eppure, c’è un qualcosa che non è cambiato: quello sguardo così attento e profondo. Quegli occhi che rivelano uno stato di malinconia perenne. O, alternativamente, di ricerca continua. Nelle parole, nei gesti, nei respiri. Propri e delle persone che lo circondano.
Ci accomodiamo su una panchina del Parco. E’ una giornata caldissima. Gli odori e i colori della Natura sembrano entrare a far parte della nostra chiacchierata.
Nel corso dell’intervista mi osserva con attenzione. Mantiene sempre lo sguardo. È misurato, contenuto, pacato nei toni. Parla tantissimo. “Sono logorroico, me ne rendo conto!” si scusa, con un’ingenuità quasi adolescenziale. Eppure affronta temi importanti, assaporando le parole, dando loro la corretta intonazione e l’adeguato significato.
Aurelio De Matteis si racconta
Chi è Aurelio De Matteis?
Allora, questa domanda già mi mette seriamente in crisi, lo sai? In realtà, io ancora non lo so! Forse, non lo saprò mai! (Ride) La propria esistenza è un costante mistero, un enigma. Devi sapere che io non amo molto le definizioni. Le lascio agli altri e mi diverte ascoltare ciò che gli altri pensano di me. Ecco perché, forse, preferisco la domanda “Chi potrebbe essere Aurelio De Matteis?”. Una cosa che cerco di scoprire giorno per giorno. La mia idea è che non siamo esseri definibili. Se proprio vogliamo sforzarci a fare un ”calcolo” , io non andrei per somme o aggiunte, bensì per sottrazione: credo che la vita ci tolga qualcosa. La convinzione che i genitori ci proteggeranno in eterno, per esempio. Ci toglie la lucidità mentale. Ciò che ci caratterizza, in effetti, è che noi rimaniamo un’energia in cerca di uno scopo. E questo scopo per me rimane l’amore. Senza amore non resta nulla. Forse, ripeto, forse solo alla fine del nostro percorso riusciamo a capire ciò che siamo stati. È un discorso anomalo, piuttosto filosofico, me ne rendo conto, ma sono fatto così.
Aurelio e la recitazione. Una lunga storia d’amore. Quando è nata?
Il teatro è stato sempre presente nella mia vita. Io provengo da una famiglia di artisti. Sono imparentato con la famiglia Maggio e Luisa Conte; è la prima volta che lo dico. Ho iniziato tanti anni fa, credo fosse il 1994, con Pino De Maio. Sai come succede, si inizia a “giocare”. Poi, anno dopo anno, quello che era un innamoramento, un’infatuazione, si è trasformato in una vera e propria scelta. La decisione di convivere. Una scelta definitiva (e di cui non potrei mai pentirmi) che ho preso nel 2009, quando ho abbandonato il mio vecchio lavoro; guadagnavo bene, ma non ero felice, non era quella la mia strada. Quella scelta mi ha tolto tutto da un punto di vista economico, ma i sacrifici mi hanno permesso di eliminare il superfluo, tutto quello di cui non avevo effettivamente bisogno. Ho fatto entrare nella mia vita i colori delle emozioni e il favoloso inganno delle parole. Sì perché la parola è un’arma, da usare con cautela. Basta sbagliare un’intonazione e quella parola viene fraintesa. Però, allo stesso tempo, rappresenta un mondo estremamente affascinante di cui non possiamo fare a meno. Io amo parlare, si era capito, vero? (Scoppiamo a ridere) Ho avuto la fortuna di incontrare, lungo il mio cammino, dei maestri incredibili che mi hanno formato, tra le pieghe delle quinte e i drappeggi del sipario. Ho osservato tanto, ho fatto esperienza e tanta gavetta. Agostino Chiummariello, Fortunato Calvino, Vincenzo Borrelli, Tonino Taiuti, Paolo Spezzaferri, Costantino Punzo mi hanno insegnato tanto, con i loro diversi modi di vivere l’arte. Ma ho avuto la fortuna di lavorare anche con giovani talenti, come Maurizio Capuano, Vittorio Passaro, Giuseppe Fiscariello e Franco Nappi. Con quest’ultimo abbiamo realizzato recentemente “Il ritratto di Dorian Gray”, con Roberta Astuti. Volevo aggiungere questo: per me essere attore è un modo di essere e non di apparire. Io non amo molto apparire. Non vado alla ricerca smodata dell’ovazione, dell’applauso. Io trovo l’espressione di me stesso nel momento in cui vivo quella cosa. Ciò mi permette di scoprire tante cose di me. Adesso, forse, deluderò o sorprenderò qualcuno, ma io non ho la passione per il teatro, bensì per la vita. Se non avessi la passione per la vita, non potrei esprimermi attraverso il teatro, perché nella recitazione io vivo fino a consumare ogni singolo istante della mia esistenza, che poi svanisce in quel momento. L’attore è consapevole di questa sua dolce condanna: quello che vive, nasce e muore in quell’istante. In effetti mi ritengo un eroe tragico (ride di gusto).
Le tue esperienze artistiche spaziano da Pirandello fino ad arrivare a Plauto, passando per Scarpetta. Tanti mondi diversi, che richiedono una differente immedesimazione. Ti piace recitare nel tuo dialetto? Ci sono artisti che sembrano rinnegare le proprie origini, incomprensibilmente.
Allora, quelli che rinnegano le proprie origini mi fanno piuttosto sorridere, sono sincero. Disconoscere il proprio tessuto culturale, a mio parere, ti impedisce di trasmettere qualcosa di te. Non si può non tenerne conto, ti pare? Forse sarebbe opportuno cercare di capire cosa spinga una persona a rinnegare le proprie origini, le proprie tradizioni. Forse per fare la figaiola nei salotti culturali. Io amo il mio dialetto: il napoletano ha una musicalità meravigliosa. E’ una lingua vera e propria, il cui fascino risiede nel fatto che si è arricchita nel corso del tempo, si è evoluta. La tradizione deve essere presente, senza però esserne schiavi. Bisogna rivalutarla, viverla, reinterpretarla.
Le mie esperienze variano tanto, è vero, però l’approccio è sempre lo stesso, nonostante gli obbiettivi siano differenti. Alla base, c’è sempre tanta formazione e tanto studio.
Nel 2013 sei il protagonista assoluto di uno spettacolo molto intenso e delicato “Silvia ed i suoi colori”, ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto. Ti va di parlarcene?
Ti dico una cosa che non ho mai detto: io vengo da Scampia. Ho vissuto lì per venti anni. La morte di Silvia Ruotolo me la ricordo molto bene. Vivere a Scampia non è semplice, te lo garantisco. Lì vivevamo una doppia condanna: l’impossibilità di fare davvero qualcosa e l’abbandono delle istituzioni. Adesso le cose sono migliorate tantissimo, per fortuna. Nel mio rione non si spaccia più. I bimbi con i quali giocavo non ci sono più, lo dico con dolore. Io mi sono salvato per caso, perché ho avuto una famiglia solida alle spalle, mi ha salvato la cultura. Tanti anni fa, una sera, chiesi a mio papà di raccontarmi una fiaba. Lui, per tutta risposta, prese un’enciclopedia e mi lesse alcuni miti e leggende dell’antica Grecia. In particolar modo, mi parlò di Prometeo, un’immagine che mi ritorna spesso in mente quando vado a Scampia e, in generale, nella vita. Avere il coraggio di andare oltre e di sopportare con dignità la pena, senza risparmiarsi mai. Tornando allo spettacolo, diretto da Agostino Chiummariello e scritto da Roberto Russo, posso dire con orgoglio che ha ricevuto delle recensioni splendide. E’ stato definito uno dei testi più belli sul tema della camorra. Siamo abituati ad altri brand, ora. In questo spettacolo il termine camorra non esce mai. E’ un inno poetico alla vita e all’amore. Ci soffermiamo solo sulla bruttezza delle cose, troppo spesso. Silvia continua a vivere attraverso gli occhi dei suoi figli, che ho avuto l’onore di conoscere. Vive attraverso il ricordo dei suoi amici, di suo marito. E’ uno spettacolo molto intenso da vivere. Tanti si sono commossi. Spero che lasci un insegnamento: quello di non abbattersi mai. Lo abbiamo rappresentato a Padova, dove ho avuto modo di parlare con alcuni ragazzi di un’associazione dedicata proprio a Silvia Ruotolo.
La camorra si evolve, si trasforma, assume forme sempre diverse. Bisogna rimanere sempre in guardia.
Qual è l’esperienza teatrale alla quale sei più legato?
(Ci pensa un po’). Allora, non mi lego alle opere di cui sono protagonista. Le affronto tutte allo stesso modo, anche quelle il cui testo non mi appartiene. Pur tuttavia, ci sono due esperienze alle quali sono legato, ma per fattori extra teatrali. In primis, mi ricordo quando Costantino Punzo mi scelse per la versione teatrale de “Il Postino” nel ruolo che fu di Massimo Troisi. Lui è stato il fondatore del “Centro Teatro Spazio” proprio insieme a Troisi. Una grandissima emozione. Lo spettacolo venne rappresentato anche in occasione del ventennale della morte di questo grande artista, proprio nel “suo” teatro, a San Giorgio a Cremano. Con Costantino, da allora, è nata un’amicizia indissolubile e una grande collaborazione artistica.
Poi sicuramente “Filosofia in vestaglia“, un progetto che fra poco compirà un anno. Ma su questo sono più riservato e non ti dirò il perché (ride).
Certo, la bellezza di questo lavoro è proprio quella di poter conoscere le persone, di analizzare i particolari. Nella vita, questo, non accade sempre purtroppo. La gente non ne ha la voglia o il tempo.
Il tuo ultimo progetto è “Acqua Santa” in cui si parla di omosessualità al femminile. E di omofobia. La storia è ambientata nel 1800. A tuo parere, le cose sono davvero completamente cambiate?
Purtroppo no, non credo che le cose siano cambiate. La storia di Annina e Maddalena, nello spettacolo, viene rappresentata con la massima brutalità. Forse, una volta c’era un tipo di omofobia “leonina”. Di fronte al diverso si ruggiva, i ragazzi o le ragazze omosessuali venivano sbranati e gettati via. Adesso, invece, si è creato un qualcosa di più pericoloso: c’è un’omofobia “volpina”, che si esercita con battutine, sguardi superiori, paletti anche giuridici. Qualcuno può sorridere di fronte alle sentinelle in piedi, ma sono sintomo di un qualcosa di molto preoccupante. E’ un’omofobia nascosta, latente, che opera tra le pieghe. “Acqua Santa” è la coppa della tolleranza, che noi non abbiamo ancora bevuto. C’è ancora tanto lavoro da fare, troppo. Lavorare con Ares e Marilia Marciello è stato davvero bellissimo. Nel momento in cui non si saranno più le definizioni etero, gay, lesbica, trans, bisex, ma solo la parola amore allora avremo superato tutti gli ostacoli.
Più che un’intervista, sembra una seduta dallo psicologo. Glielo dico, si dimostra d’accordo. Ha un piglio filosofico nei confronti della vita. Ha una profondità di quelle rare: analizza ogni frase, controlla il ritmo della conversazione, rielabora le mie osservazioni. È uno scambio estremamente stimolante. Mi dice che uno dei suoi più cari amici, Armando (laureato in filosofia) ama confrontarsi con lui perché (parole sue!) “Non capisce nulla di filosofia e lui gli apre nuovi mondi!”.
Sceneggiatore, attore, regista. Qual è la tua connotazione più naturale? E’ vero che sai anche suonare l’armonica a bocca?
Ah ah ah! Ma come fai a saperlo? Per me la musica è una componente della mia quotidianità. Ascolto ogni tipo di musica, non sono legato a nessun gruppo musicale, a nessun genere, non faccio distinzione. Però preferisco la musica, rispetto alla canzone. Mi aiuta a riflettere, a rilassarmi. Ci sono delle melodie che, insieme ad alcuni odori, riportano alla mente dei momenti meravigliosi che ho vissuto. L’armonica è una vera e propria estensione di me, anche se è entrata da poco nella mia vita. In precedenza ho suonato la chitarra. Alcuni amici mi hanno consigliato questo strumento, anche perché è pratico, comodo. Anche in relazione al mio modo di vestire, che è piuttosto ricercato. Sogno di suonare il blues e il country, punto in alto! Al momento, però, le uniche melodie che ho imparato sono “Imagine” e “Nearer my God to thee”, che è stata l’ultima melodia suonata dall’orchestra sul Titanic, prima della tragedia. Siccome sono ateo, sostituisco God con man, ovverosia uomo. Così la canzone diventa “Più vicino a te, uomo”.
Per ciò che riguarda la mia connotazione più naturale, ovviamente è quella di essere attore. Leggo e scrivo tantissimo (racconti, pensieri, poesie). Mi piacerebbe scrivere delle sceneggiature, al momento ho realizzato solo qualche adattamento, ma c’è bisogno di studio. Ho una mentalità ancora troppo attoriale.
Aurelio De Matteis, da attore di teatro, qual è la tua posizione nei confronti di chi esce da un reality in cui lo scopo è quello di spalare le feci in Nicaragua e si ritrova all’improvviso ad interpretare 15 film da protagonista?
(Ride a crepapelle) Christian, sono sincero: non guardo mai la televisione. Il mezzo televisivo ha una cassa di risonanza che può essere pericolosa. Può creare una notorietà effimera. Purtroppo siamo abituati ad affezionarci a persone che “vivono” in una scatola (anche se adesso sono dei quadri veri e propri!). C’è un approccio superficiale, inutile, all’arte, ma con chi dovremmo prendercela? Con chi guarda questi programmi o con chi ce li propone? A tal proposito, ti racconto questa cosa: venni invitato ad esibirmi all’interno di un premio teatrale come guest. Io, che mi esibii con due maschere (una neutra e una di Pulcinella) interpretando un monologo che avevo scritto, chiesi solo che non venisse detto il mio nome al termine della performance. Non per snobberia, ci mancherebbe. Il messaggio era un altro: non è importante chi indossa la maschera, ma la maschera in quanto tale; l’emozione, l’idea erano tutto ciò che contavano davvero.
Quali sono i tuoi attori preferiti?
(Spalanca gli occhi) Guarda, farei prima ad elencarti quelli che non amo. Ci sono sicuramente attori che studio continuamente: Leo de Berardinis e Perla Peragallo, per esempio. Tra le altre cose, erano anche una coppia nella vita. Credo che non ci sia niente di più bello che creare arte insieme alla persona che ami, è un miracolo della vita. Adoro anche Roberto Latini e Federica Fracassi.
Ed ecco che ricompare la parola amore. Mi domando cosa spinga questo ragazzo a ricercare questa emozione in ogni gesto della sua vita. E’ una forma di salvezza, forse? La necessità di un porto sicuro per evadere dalle brutture che ci circondano? Un completamento in quanto essere umano? Chissà. Oppure nulla di tutto ciò. Tanto è inutile chiederglielo: la sua mente, nel frattempo, ha già elaborato mille altri pensieri.
Io mi occupo di cinema. Il mondo della celluloide attinge dal teatro e viceversa. Qual è il film della tua vita e perché?
Ecco un’altra domanda che mi mette in crisi! Amo tantissimi film che associo, come la musica, ad altrettanti momenti della mia vita. Adoro il cinema di Aleksandr Sokurov, di Emir Kusturica e di Stanley Kubrick. Sono poetici, viscerali, pieni di vita. A questo punto dovrei cambiare la domanda in “Qual è il film che ti appartiene di più?” e la risposta sarebbe “Barry Lyndon”. La prima volta l’ho visto ripetutamente per tre giorni di fila! Avevo anche letto il romanzo, che mi aveva catturato completamente! E’ un film che parla di ricerca dell’amore.
Cosa dobbiamo attenderci da Aurelio De Matteis per questo 2017?
Magari lo sapessi! Sono un pirata che naviga a vista. Ho buttato l’orologio, non sono miliardario e vivo costantemente nel qui e nell’ora. Non programmo, anche se ovviamente ho tante idee e proposte. A maggio affronterò una storia multo cruda “Io, Pietro Koch”, sulla vita di uno dei peggiori fascisti mai esistiti sulla faccia della terra. E’ ambientata tra il 1943 e il 1945. E’ una storia rappresentativa di alcune dinamiche che coinvolgono l’essere umano in determinati contesti. Ho in testa questo progetto da almeno tre anni. Mi incuriosisce l’animo umano, anche quando commette crimini così efferati. Vorrei che il pubblico cercasse di capire, insieme a me, il perché di alcune azioni. Andare oltre le apparenze: questo è l’obbiettivo.
Alla Marzullo : fatti una domanda e datti una risposta
“Aurelio perché racconti e sei ossessionato, nelle tue storie, da tre elementi che sono l’amore, il tempo e il mare?” Risposta: “Perché un giorno, presto o tardi, diventeremo una sola cosa.”
Il sole sta tramontando. Inizia a fare quasi freddo nel momento in cui ci salutiamo. Mentre mi avvio all’uscita, lancio un’ultima occhiata ad Aurelio: è ancora fermo lì, intento a pregustarsi i sapori di un luogo intriso di cultura. Capisco che non ha ancora voglia di andare via. Lo immagino perdersi, confondersi, mescolarsi, entrare a far parte del vortice informe che si è creato all’interno del Parco. Chissà se, nel suo viaggio, troverà l’amore di cui parla spesso e ha bisogno. Sarà un percorso interessante, ne sono davvero sicuro.