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Categoria

Dall’Italia e dal Mondo

Cannabis
CulturaCuriositàIn primo piano

Cannabis come sudario in un’ antica tomba cinese

scritto da L'Interessante

Cannabis

Di Antonio Andolfi

Un bouquet consistente e quasi intatto di piante di cannabis è stato ritrovato in un sito funerario del nord-ovest della Cina, in un vasto cimitero del bacino di Turpan associato alla locale cultura Gushi, e risalente a 2800-2400 anni fa.

Queste tombe – ciò che resta di una civiltà fiorita su uno snodo importante della Via della Seta – sono note per aver restituito, negli ultimi anni, alcune tra le più antiche testimonianze dell’uso di cannabis. Ma il ritrovamento descritto su Economic Botany ha caratteristiche eccezionali. A partire dalle modalità di sepoltura: le piante, 13 in tutto, sono disposte a coprire, come un sudario, il corpo di un uomo sui 35 anni, sdraiato su un supporto di legno e con un cuscino rosso sotto il capo.

Gli steli, lunghi circa 90 cm, rivestono una porzione di corpo compresa tra il bacino e la guancia sinistra. Soprattutto, sono interi: è la prima volta che gli archeologi sono in grado di rinvenire antiche piante di cannabis complete, per di più usate per ricoprire un feretro.

Cannabis. Non è la prima volta

Resti di cannabis erano stati trovati, in passato, anche in altre sepolture di Turpan: una decina di anni fa, in una tomba nel vicino cimitero di Yanghai furono scoperti quasi 900 grammi di semi e foglie di cannabis triturate. A ovest del sito, nella Siberia meridionale, semi di cannabis sono stati rinvenuti nella tomba di una donna vissuta nel primo millennio a.C., e morta probabilmente di cancro al seno. Il sospetto è che la sostanza fosse servita ad alleviare il dolore della malattia.

Come veniva usata la cannabis ?

Ma il fatto di non aver trovato finora piante intere non consentiva di capire se la cannabis fosse importata o coltivata in loco. Il nuovo ritrovamento sembra sciogliere il mistero e dà indizi anche sul suo utilizzo: non sono stati trovati tessuti in canapa, e i semi rinvenuti nelle tombe erano troppo piccoli per ricavarne oli essenziali. Inoltre, le piante presentano ancora le ghiandole della resina o tricomi dai quali si estrae il THC, la sostanza psicoattiva dei cannabinoidi. L’ipotesi è che la resina fosse inalata come un incenso o bevuta per scopi rituali o medicinali.

Gli steli permettono anche di risalire alla stagione di sepoltura. La maggior parte dei fiori delle piante era stata tagliata prima dell’inumazione, e i pochi rimasti sono immaturi: la morte, e il rito funebre, dovettero quindi avvenire in tarda estate.

Cannabis come sudario in un’ antica tomba cinese was last modified: marzo 12th, 2017 by L'Interessante
12 marzo 2017 0 commenti
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Interculturalità
CuriositàParliamone

Intercultura o Globalizzazione? Melting Pot!

scritto da L'Interessante

intercultura

Di Michele Calamaio

Intercultura? Una parola che risulta essere ancora sconosciuta a molti, ascoltata di rado da tanti, ma ben conosciuta dagli addetti ai lavori che, grazie allo sviluppo e alla diffusione dei mezzi di comunicazione, oggi giorno fanno dell’informazione internazionale il loro pane quotidiano e alimentano la fiamma della speranza che spinge verso un futuro nuovo e diverso, dove l’agglomerazione di più culture, più popoli e più mentalità sia possibile e dove la ricerca di in continuo scambio e progresso sociale sappia da subito rappresentare un continuum credibile per un coinvolgimento e un perenne arricchimento del reciproco bagaglio culturale. Come è possibile tutto ciò? Semplicemente perché Intercultura significa conoscenza, contatto, scambio tra lingue ed interazione, a tal punto da eliminare anche il solo puro sentimento di odio che ha trascinato per secoli guerre e martiri inutili, a tal punto da scomodare senza scrupoli l’assimilazione di un concetto tanto rude quanto vergognoso come la discriminazione, a tal punto da mutare totalmente un panorama di concetti che ispeziona ora nuovi modelli di “osmosi culturale”, all’interno dei quali i modelli altrui sono fonte di ispirazione e il sincretismo tra le razze non rappresenta più un’effimera speranza buttata al vento dall’ennesima brutale forma di razzismo ma la mano che sorge dalle ceneri di una vittoria per la pace.

<<Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze>> diceva Paul Valery; <<Felice è chi è capace di amare il diverso>> confermava Hermann Hesse; entrambi avevano in comune un unico desiderio: rigenerare quel posto, già conosciuto come mondo, che permettesse ad un singolo gesto di cambiare la società ed ad un vincitore di continuare a sognare senza mai arrendersi, così come predicava Mandela, esattamente così come profetizzava Gandhi. “Melting Pot” lo chiamano gli inglesi, ovvero quel “crogiolo” di società diverse che imparano a vivere insieme, che formano la generazione del futuro attraverso il rispetto e la commistione di elementi di origini eterogenee diversi, con il risultato finale di costruire una identità condivisa e prospera; ma con il termine “Globalizzazione”, forse, il tutto risuona un po’ più familiare: il processo di transazione da un sistema ad un altro che implica mutamenti socioculturali è purtroppo un intervento di sostegno che ha bisogno di tempo per essere studiato, necessita strategie di adattamento tra il “vecchio” ed il “nuovo” e non certamente vede dinnanzi a sé una immediatezza risolutiva capace di arrestare una società ancora troppo selvaggia per essere civilizzata sotto nuovi parametri culturali, sociali e religiosi. Il primo importante passo da compiere, dunque, è quello fatto in direzione delle popolazioni in via di sviluppo, le stesse che hanno visto per anni usurpati il proprio “oro vitale” dinnanzi ad un mancato riconoscimento di tutti i diritti universali ed il negato riconoscimento dell’identità di popolo.

Intercultura “put into practice”: intervista a due ragazze neo-italiane

Ma cosa più spaventa o attrae di questo viaggio? Quali paure si porta dietro chi riesce a farsi forza ed intraprendere un percorso “fuori dagli schemi”? Cosa si genera nell’animo di chi prova a mettere in pratica tutto ciò senza aver paura di rischiare a rimettersi in gioco? Domande che forse non avranno mai una risposta limpida e chiara, mai forse una del tutto congruente con il resto delle altre esperienze che, come questa, cambiano la vita ma, nel tentativo di arrivare ad una banale seppur determinate conseguenza “fuori programma”, noi proviamo ad entrare nella più profonda logica dei medesimi mutamenti destinati a cambiare il mondo.

Eva e Yara sono dure ragazze all’apparenza diverse tra di loro, la prima di origini greche mentre la seconda siriane, ma intrinsecamente unite da un destino che ha deciso di farle incontrare e appassionare ognuna della vicenda altrui, portandole a costruire un’amicizia più forte delle barriere che da anni impediscono la sola comunicazione o l’approccio culturale tra popoli. Le abbiamo intervistate per capire quali sono state tutte le dinamiche della loro storia e per scavare più a fondo in una vicenda che rappresenta a tutti gli effetti i tratti di una nuova “speranza interculturale” nel mondo

Come siete arrivate in Italia e come è stato il vostro processo di integrazione?

E: Beh la mia è una storia particolare. Nasco da un padre greco e una madre italiana, di Viterbo, e passo la mia infanzia in Grecia, stando totalmente a contatto con la vita quotidiana di tutti i giorni tra scuola, amici e famiglia e parlando il greco “per la maggior parte del tempo”: perché si, seppur vivendo nel paese ellenico, in famiglia parlavamo anche l’italiano rispettando le origini materne. Il tanto atteso “ritorno” nel bel paese, invece, non mi risulta per nulla complicato: vivo con i nonni materni in provincia di Viterbo e frequento la facoltà di Chimica e Tecnologie Farmaceutiche all’Università di Urbino. Mi trovo bene, non trovo eccessive differenze tra i due paesi e la lingua, per evidenti ragioni, la conosco abbastanza bene, con tanto di accento romano. La mia è, sin dall’inizio, una storia a lieto fine, determinata dalla mia capacità di accettazione della situazione che ho vissuto, senza pormi problemi sul “perché”: per me l’interculturalità che ha caratterizzato la mia vita è pura normalità, la accetto e la considero fonte di profonda conoscenza interiore, che ti permette di maturare sotto tutti gli aspetti sociali e culturali.

Y: Se la storia di Eva è particolare, la mia lo è di più. Provengo da una famiglia siriana emigrata dal proprio paese per evidenti ragioni e ho passato la maggior parte della mia vita in Grecia: lì la situazione è stata abbastanza complicata per me all’inizio, perché tra la lingua e l’accento che avevo acquisito, il “marchio” che mi portavo addosso e di cui mai mi sono vergognata e una realtà sociale e culturale completamente diverse dal mio paese d’origine, ho vissuto momenti altalenanti e difficili. Tuttavia, mi sono sempre considerata abbastanza forte da superare tutto ed andare avanti: ed ecco come mi trovo ora in Italia, a frequentare la facoltà di Farmacia all’Università di Urbino, cominciando una ennesima nuova esperienza che continua a rivoluzionare la mia vita. Ora mi sento bene, mi sento sollevata sotto vari aspetti e mi riconosco in questa nuova immagine che ho creato di me stessa: una ragazza che ha vissuto tanti periodi difficili ma che non ha mai permesso alle circostanze di prendersi un futuro tutto dalla mia parte

Cosa si prova a sentirsi “estranei” all’interno di una realtà non propria? Quanto tempo ci è voluto prima di una completa e totale osmosi con il nuovo mondo?

E: Come anticipato prima, il mio processo di integrazione non è stato difficoltoso: mi consideravo a tutti gli effetti una cittadina italiana e cittadina del mondo. Per carità, all’inizio anche io ho vissuto momenti in cui mi percepivo “particolare”, ma è stata sempre una particolarità che ho vissuto con piacevolezza, tranquillità ed entusiasmo, perché non c’è niente di più bello che assuefarsi ad un mondo che ti accoglie a braccia aperte e ti aiuta a capire che essere figlia dell’incontro di due mondi paralleli è un emozione tanto indescrivibile quanto straordinaria da provare.

Y: Bella domanda. Come già risposto a priori, non ho mai permesso alle situazioni né alle persone che mi circondavano di programmare la mia felicità, ma anzi ho sempre affrontato di petto una realtà che all’inizio rischiava di risucchiarmi, e che alla fine è riuscita ad apprezzarmi per quella che veramente sono. Quindi si, mi sono sentita “estranea”, ma anche nel mio caso è stata una estraneità che mi è servita tanto a maturare idee diverse da quelle che mi ponevano problemi all’incipit, a crescere e a ribellarmi di fronte ad una verità che in realtà era menzogna: ho capito finalmente che solo con l’integrazione tra conoscenze, pensieri, modi di fare e pensare e culture si arriva ad un arricchimento totale della persona stessa, a tal punto da considerarsi parte di una società che non ti giudica più, ma ti rende partecipe e ti ingloba in tutto e per tutto, in una <<totale e completa osmosi>> appunto

Similitudini con persone della stessa situazione aumentano o riducono il senso di appartenenza al nuovo paese ospitante? e per la mancanza del proprio?

E: Questa domanda è stata, in parte, risposta già precedentemente, ma ci tengo a precisare una cosa: tutto ciò che mi viene in soccorso nel mio percorso di formazione personale non solo è ben accetto, ma rappresenterà anche la motivazione principale a farmi capire che non esistono fattori che aumentano o riducono il senso di appartenenza ad un nuovo paese o il senso di mancanza del proprio, perché siamo nati per essere cittadini del mondo dove l’unica appartenenza è quella realtà umana che ci accomuna, e come tali dobbiamo lavorarci su e cercare di essere in grado di rapportarci con tutti, senza mezzi termini, senza creare problemi di razzismo, discriminazione o xenofobia. Proprio questo ha portato a creare le condizioni tali affinché incontrassi, per caso o per destino, una persona come Yara: la mia consapevolezza mi ha spinto a fare sempre di più verso una persona che “chiedeva aiuto” a modo suo, unite dallo stesso bisogno di essere apprezzate per quello che davvero eravamo. Incontri così, casuali o voluti da qualcuno di superiore, sono eventi che ti cambiano la vita e ti fanno capire l’importanza di essere aperti a qualsiasi tipo di stravolgimento, che sia esso culturale o sociale, e che qualsiasi cosa che abbia a che vedere con il fenomeno della globalizzazione, dell’interculturalità e del Melting Pot non rappresenti neanche minimamente un fattore di crescita negativa.

Y: Confermo rispondendo allo stesso modo: l’incontro con Eva è stata, da una parte, la mia ancora di salvezza quando sono arrivata in Italia, perché era come se avessi totalmente bisogno di affiancarmi a qualcuno che si “prendesse cura” di me dopo i tanti momenti difficili passati nella mia vita; ma, dall’altra, ha creato in me la consapevolezza che i fattori che aumentano o riducono il senso di appartenenza ad un paese o la nostalgia per il proprio hanno un origine diversa e più profonda degli schemi della società attuale. Spesso sono solo sentimenti o mancanze che vengono colmate dagli imprevisti della vita, come il banale incontro con persone in grado di farti osservare e vivere quella stessa nostalgia con serenità o che addirittura, grazie alla semplice compagnia che ti tengono, riescono a farti sentire così tanto a casa da apprezzare qualsiasi luogo, qualsiasi momento, qualsiasi attimo insieme a loro. La conclusione è che, semplicemente, non possono e non devono esistere barriere, muri o imposizioni all’educazione, ma permettere la creazione di un mondo dove la una stessa abbia la “necessità culturale” di ampliarsi vivendo situazioni come la nostra, dove l’”estraneo” è colui che preferisce non rischiare, morire nell’ignoranza e rimanere inerme di fronte al cambiamento positivo della legge universale che solo le società hanno imposto, e non colui che, invece, ha messo in gioco la propria vita per trasformarla nella più bella scoperta del mondo

Aspettative per il futuro? Come sarà?

E & Y: Semplicemente sarà “internazionale”, sarà uno di quelli da raccontare ai nipoti o da scrivere nei libri sulla scia di “I have a dream”, affinché la paura di un cambiamento nel mondo non sia più un dictat di dubbio perenne ma l’inizio di una nuova parola d’ordine che regali nuovi emozioni: Interculturalità.

Intercultura o Globalizzazione? Melting Pot! was last modified: marzo 9th, 2017 by L'Interessante
9 marzo 2017 0 commenti
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pompei
CulturaCuriositàIn primo piano

Pompei. Il vino al tempo degli antichi Romani

scritto da L'Interessante

pompei

Di Antonio Andolfi

 

Pompei è un gioiello del nostro patrimonio archeologico, uno scrigno del passato, i cui resti ci dicono tanto sulla vita degli antichi Romani.

L’attività principale di Pompei era la produzione del vino, come testimoniato da numerosi affreschi. Le viti coltivate nell’area vesuviana erano quelle ricordate da Plinio e da Columella: l’Amine gemina minor, caratterizzata da grappoli doppi; la Murgentina, uva di origine siciliana, molto diffusa a Pompei, ecc..

I vigneti sono stati piantati seguendo le tracce delle antiche viti, di cui si notano ancora i calchi in gesso ricavati riempiendo il vuoto lasciato nel terreno dalle radici che si decomposero dopo l’eruzione. I calchi delle radici sono spesso affiancati da quelli dei pali di sostegno del filare.

Ma come si produceva il vino allora?

Il vino nell’antica Pompei

L’uva raccolta era trasportata con i carri nelle fattorie (villae rusticae) dove veniva premuta e dove era conservato il vino, fino alla vendita o al consumo.

Allora immaginate, in autunno, lunghe file di schiavi rovesciavano tanta uva da delle ceste in una grande vasca. Qui altri schiavi, chiamati calcatores, pestavano quest’uva a lungo, per ore, e il succo che si formava veniva poi veicolato con dei tubi, delle condotte. Ma non è tutto.

Da un chicco pestato, infatti, si può ancora ottenere del succo, e questo i Romani lo sapevano bene, ma come? Con un torcular, cioè un torchio.  Allora raccoglievano le vinacce, cioè la polpa, le bucce, e lasciavano macerare per qualche giorno, e questo rendeva il tutto molto più liquido, quindi più facile da spremere, poi lo accumulavano all’interno di contenitori, e già il peso della trave cominciava a schiacciare le vinacce, poi grazie ad un sistema a verricello, bastava tirare delle leve e si aumentava la pressione all’inverosimile, fino ad ottenere l’ultimo succo possibile dalle vinacce. E questo liquido correva in una grondaia, in una canaletta laterale fino ai dolia delle celle vinarie, cioè esattamente lo stesso percorso fatto dal liquido ottenuto pestando con i piedi l’uva.

Ma cosa accadeva a questo punto?

Bisognava lasciare i dolia aperti, assistere alla fermentazione , una fermentazione che per 10 giorni doveva essere molto violenta, quasi un ribollire, poi la si controllava per un’altra ventina di giorni, e poi si richiudevano i dolia con dei grandi coperchi in terracotta, e sopra si mettevano delle altre coperture, simili a degli scudi protettivi. E a questo punto cominciava la maturazione, era un processo che poteva durare mesi o addirittura anni.

Com’era il vino a Pompei

Allora non esisteva il novello, il vino solitamente dopo una vendemmia autunnale, veniva consumato non prima della primavera seguente, ed era molto apprezzato quello invecchiato qualche anno, 2, 3, solitamente, 5, 10 già era un’ eccezione, e di solito invecchiavano dentro le anfore, nei depositi, in soffitta o nei lunghi trasporti nell’Impero. Solo eccezionalmente si potevano trovare dei vini invecchiati qualche decennio.

In generale i vini dei Romani erano assai diversi rispetto ai nostri, quasi sempre avevano un’altissima gradazione, e alcuni avevano addirittura la consistenza del miele e quindi bisognava allungarli con dell’acqua gelida d’inverno e acqua bollente d’estate. Inoltre, dal momento che si spremevano assieme i chicchi e i rametti, cioè i raspi, il vino che ne usciva, era un vino amaro, bisognava correggere, lo si correggeva in generale con molti sistemi, a volte si mettevano anche delle spezie o addirittura del piombo. Il piombo, infatti, produce, se rimane all’aria una patina biancastra che è dolce, e così si faceva permanere il vino in contenitori di piombo, e questo aiutava il gusto, ma certo non la salute.

Insomma grazie ai resti archeologici è possibile scoprire uno spaccato della vita quotidiana a Pompei, pensate, tutto questo è avvenuto poco prima che il Vesuvio con la sua eruzione cancellasse tutto. Ma ora grazie agli archeologi, possiamo rivivere quelle storie che rimarranno per sempre scolpite nel tempo e nella memoria.

 

 

Pompei. Il vino al tempo degli antichi Romani was last modified: febbraio 27th, 2017 by L'Interessante
27 febbraio 2017 0 commenti
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NASA
AttualitàIn primo pianoNotizie fuori confine

NASA. 7 pianeti attorno ad unica stella

scritto da L'Interessante

NASA

Di Antonio Andolfi

Dopo giorni di attesa, speculazioni e anticipazioni a proposito della “conferenza stampa straordinaria” indetta dalla Nasa, l’annuncio è stato finalmente dato: nell’orbita di Trappist-1, una nana rossa ultrafredda a una distanza stimata di circa 40 anni luce da noi sono stati scoperti in totale 7 piccoli pianeti rocciosi, cioè con caratteristiche simili a quelle della Terra. Detto in altre parole: gli astronomi della Nasa (e non solo) hanno trovato ben 7 pianeti quasi gemelli della Terra, non uno solo!

L’annuncio della NASA: Trappist – 1 e i suoi pianeti

Le osservazioni, iniziate nel settembre del 2015, sono state effettuate utilizzando un insieme di strumenti: il telescopio TRAPPIST-South (ESO, Osservatorio Europeo Australe, La Silla, Cile), il Very Large Telescope (ESO, Cerro Paranal, Cile), il telescopio spaziale Spitzer (Nasa, in orbita a 568 km) e altri telescopi attorno al mondo.

Osservabile nella costellazione dell’Acquario, è molto “piccola” (poco più grande di Giove) e di massa stimata nell’8% di quella del Sole.

 Tutti i suoi pianeti, chiamati rispettivamente Trappist-1 b, c, d, e, f, g, h (dal più vicino al più lontano), hanno dimensioni simili a quelle del nostro pianeta: le dimensioni, la possibile composizione e le orbite sono state desunte dalle variazioni di luminosità della stella causate dal passaggio dei suoi pianeti tra noi e la stella stessa: eventi che in astronomia sono noti come transiti.

Il coordinatore della ricerca, Michaël Gillon (istituto di astrofisica di Liegi, Belgio), afferma che «ci troviamo di fronte a un sistema planetario incredibile, non solo perché abbiamo trovato così tanti pianeti insieme, ma soprattutto perché sono sorprendentemente simili per dimensioni alla Terra».

 Da tempo gli astronomi ipotizzavano che stelle con dimensioni affini a quella di Trappist-1 (che per tipologia è la più diffusa nell’Universo, probabilmente tra il 70 e l’80%) possono avere attorno molti pianeti rocciosi di dimensioni simili alla Terra. Trappist-1 è la prima a essere stata sottoposta a osservazioni così prolungate e approfondite, tali da permettere la scoperta di “b”, “c” e “d” già nel 2015 e infine gli altri quattro.

Questi pianeti, o almeno alcuni di essi, se orbitano in modo regolare e alla distanza “giusta” potrebbero sostenere forme di vita.

 Amaury Triaud, co-autore della ricerca, sottolinea che «la quantità di energia emessa da stelle come Trappist-1 è molto inferiore rispetto a quella emessa dal nostro Sole. Per avere acqua liquida in superficie sui loro pianeti, questi devono orbitare a distanza ravvicinata, molto più vicini alla loro stella di quanto la Terra sia dal Sole. Sembra che questo tipo di configurazione compatta sia proprio quella che caratterizza Trappist-1».

 

Tutti e sette i pianeti, infatti, orbitano a una distanza inferiore di quella tra il Sole e Mercurio (circa 58 milioni di chilometri) e, proprio a causa della bassa energia della stella, tutti potrebbero ricevere una quantità di energia analoga a quella che irradia sui pianeti interni del Sistema Solare (Mercurio, Venere, Terra e – a seconda dei criteri utilizzati – Marte).

Anatomia dei pianeti scoperti dalla NASA.

In particolare, Trappist-1 c, d, f ricevono quantità di energia vicine a quelle che arrivano, rispettivamente, su Venere, Terra e Marte. Le misure sulla possibile densità dei singoli pianeti suggeriscono che almeno i primi sei sono di tipo roccioso.

 

Tutti e sette potrebbero potenzialmente avere acqua allo stato liquido in superficie, anche se per alcuni la probabilità sembra più elevata: “e”, “f” e “g”, per esempio, sembrano avere tutte le carte in regola per mantenere questa condizione – l’acqua liquida – che dal nostro punto di vista è anche condizione indispensabile per un eventuale sviluppo di forme di vita.

In base ai modelli utilizzati, i pianeti “b”, c” e “d” potrebbero avere acqua, ma forse solo in piccole regioni, mentre per “h” – il più distante – l’ipotesi è che, se c’è acqua, è allo stato solido. Sarà però purtroppo solamente con la prossima generazione di telescopi, come l’European Extremely Large Telescope (ESO) e il James Webb Space Telescope (Nasa/Esa) che potremo saperne di più.

NASA, I commenti a caldo.

Questa scoperta è importante non solo dal punto di vista scientifico, ma anche culturale: sapere con sempre maggiore sicurezza che oltre il nostro Sistema Solare ci sono luoghi potenzialmente favorevoli alla vita è semplicemente affascinante. La ricerca di pianeti extrasolari è uno degli ambiti in cui l’Istituto Nazionale di Astrofisica è profondamente coinvolto a livello internazionale, con l’eccellenza dei suoi scienziati, strumenti d’avanguardia come il Telescopio Nazionale Galileo e importanti partecipazioni in missioni spaziali di frontiera.

 

Il sistema multiplo di pianeti terrestri transitanti individuato attorno a Trappist-1 è straordinario sotto diversi aspetti. Innanzi tutto è il primo sistema con pianeti di tipo terrestre nella fascia di abitabilità (quell’intervallo di distanze da una stella entro il quale un pianeta di tipo roccioso con un’atmosfera può potenzialmente avere acqua allo stato liquido sulla superficie) per i quali sia stato possibile determinare, sia pure in modo preliminare, la densità, e quindi la composizione interna, scoprendo che sono probabilmente rocciosi come la nostra Terra.

 

In secondo luogo, tre dei sette pianeti del sistema sono soggetti a livelli di irraggiamento simili a quelli che Venere, la Terra e Marte ricevono dal nostro Sole, e se posseggono un’atmosfera di tipo terrestre potrebbero avere oceani sulla superficie. Inoltre, la bassissima luminosità e le dimensioni della stella, paragonabili al nostro Giove, rendono gli eventi di transito dei pianeti in fascia abitabile frequenti e facili da rivelare, aprendo la possibilità della caratterizzazione dettagliata delle loro proprietà atmosferiche con strumentazione di punta già esistente (come l’Hubble Space Telescope) o pronta nel futuro prossimo (come il James Webb Space Telescope).

 

I pianeti rocciosi potenzialmente abitabili attorno a stelle molto più piccole e fredde del Sole, quali Trappist-1, costituiscono dei laboratori eccezionali dove studiare l’impatto sulle proprietà atmosferiche (e sul concetto stesso di abitabilità) di questi oggetti con storie evolutive molto diverse da quelle da cui ha avuto origine la nostra Terra.

 

In ultima analisi, l’esistenza del sistema planetario di Trappist-1 e, in generale, il successo della strategia della ricerca di pianeti terrestri attorno a stelle di piccola massa, rende se possibile ancora più urgente moltiplicare gli sforzi per la scoperta e la caratterizzazione delle proprietà fisiche e delle atmosfere di veri gemelli della nostra Terra, cioè pianeti di tipo terrestre nella regione di abitabilità di stelle più simili al nostro Sole.

NASA. 7 pianeti attorno ad unica stella was last modified: febbraio 23rd, 2017 by L'Interessante
23 febbraio 2017 0 commenti
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arenadiana aps
CulturaDall'Italia e dal MondoIn primo pianoMusicaParliamone

ARENADIANA APS: IL 22 FEBBRAIO IL VIA AGLI EVENTI CON MUSICHE BRASILIANE DEL DUO ETTARI – DEDA A VILLA VANNUCCHI A SAN GIORGIO A CREMANO

scritto da L'Interessante

arenadiana aps

Arenadiana APS a San Giorgio a Cremano: il 22 febbraio, Villa Vannucchi ore 20,30, il via agli eventi musicali con il duo Gloria Ettari e Massimo Deda

Mercoledì 22 febbraio alle 20,30, a San Giorgio a Cremano, nel cuore del miglio d’oro e nella splendida cornice della vanvitelliana Villa Vannucchi, l’Associazione Arenadiana APS dà il via alla programmazione degli eventi musicali con il Live di Gloria Ettari e Massimo Deda.

Sound e sonorità brasiliane per l’esordio

Un tuffo nelle sonorità brasiliane in perfetto stile partheno-carioca. Una delle combinazioni più felici tra le tradizioni musicali del Brasile e dell’Italia: Gloria Ettari, voce delicata che sa farsi potente, cantante italiana radicata in Brasile, e Massimo Deda, chitarrista, compositore e paroliere di grande talento. Nella delicata formazione di chitarra e voce presenteranno musiche dal repertorio del disco d’autore registrato a Rio nel 2011 ed interpretazioni del canzoniere brasiliano, da Milton Nascimento ed Ivan Lins ad Ary barroso, Dorival Caymmi e Antonio Carlos Jobim.

Ospite dell’evento il compositore Luigi Montesanto

Sarà ospite dell’evento l’autore e compositore Luigi Montesanto, che con il duo Ettari-Deda ha condiviso un concerto a Rio de Janeiro nel giugno scorso, e che nell’occasione presenterà in anteprima le ultime composizioni cantautoriali.

Luigi Montesanto, presidente di Arenadiana APS, così sintetizza lo start: “si realizza un altro step sul percorso di valorizzazione e promozione sociale e culturale del territorio vesuviano, area che sempre più si rivela come terra che produce straordinaria bellezza.”

ARENADIANA APS: IL 22 FEBBRAIO IL VIA AGLI EVENTI CON MUSICHE BRASILIANE DEL DUO ETTARI – DEDA A VILLA VANNUCCHI A SAN GIORGIO A CREMANO was last modified: febbraio 21st, 2017 by L'Interessante
21 febbraio 2017 0 commenti
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Oroville
Dall'Italia e dal MondoIn primo piano

Oroville. La crisi della diga

scritto da L'Interessante

Oroville

Di Antonio Andolfi

Negli ultimi giorni la diga di Oroville, nel nord della California, è stata al centro dell’attenzione internazionale a causa di una crepa che si è formata nello scarico di emergenza dell’impianto, dopo che quello principale era stato danneggiato qualche giorno prima. Il rischio di collasso della struttura, la più alta diga degli Stati Uniti (oltre 230 metri), ha portato all’evacuazione di quasi 200.000 persone.

Se il canale ausiliario dovesse cedere, milioni di litri d’acqua si riverserebbero sulle città vicine e sulle principali arterie di comunicazione, inondandole irrimediabilmente. Nelle ultime ore molte delle famiglie evacuate hanno potuto far ritorno a casa, dopo che l’impianto è stato in parte alleggerito d’acqua e la diga vera e propia fortificata. Ma l’allerta resta alta: sono previste forti piogge sulla zona.

Come è iniziata questa crisi?

Perché la diga preoccupa così tanto?

Diga di Oroville: perché è importante?

La diga si trova a circa 120 km a nord da Sacramento, in California; è alta 234 metri ed è stata costruita tra il 1962 e il 1968. È la fonte principale d’acqua per gli agricoltori della Central Valley californiana, per la California del sud e per la Bay area, in un periodo – gli ultimi 5 anni – caratterizzato da una siccità senza precedenti. Il collasso della diga, oltre a causare un danno gravissimo sul fronte idrogeologico, lascerebbe buona parte del Paese senz’acqua.

Le forti piogge e le nevicate delle ultime settimane hanno riempito l’invaso fino al 151% della sua capacità. Dopo anni di siccità, l’impianto si è trovato ad affrontare il problema opposto: troppa acqua. Quando capita, l’acqua in eccesso viene drenata da uno sfioratore, un gigantesco canale in calcestruzzo che fa da “troppo pieno” rispetto al livello di sicurezza stabilito. Il principale sfioratore del lago artificiale di Oroville riversa l’acqua in esubero nel fiume Feather.

Cosa è avvenuto alla diga di Oroville?

Il 7 febbraio si è appreso che le forti piogge avevano creato, nel canale principale, una voragine larga 91 metri. Lo sfioratore può far defluire 425 mila litri di acqua al secondo, così le autorità hanno ritenuto fosse troppo pericoloso continuare a sollecitarlo, e sono ricorse al canale ausiliario, sulla sinistra di quello principale, che non veniva utilizzato da 50 anni. Si è trattato di una soluzione estrema, l’ultima possibile, visto che il livello dell’acqua nell’invaso continuava ad aumentare.

Il volume e la portata hanno creato profonde crepe nel terreno, rendendo insicura la struttura. Se la barriera di 9 metri in cima al canale ausiliario dovesse collassare, milioni di litri d’acqua e di detriti si riverserebbero nel fiume Feather, provocandone lo straripamento. Decine di città finirebbero allagate, così come alcune superstrade che tagliano la zona. Sarebbe uno dei peggiori disastri idrici mai avvenuti in California.

Oroville: qual è la situazione attuale?

Esperti e manager della diga hanno ispezionato il canale principale, concludendo che, nonostante la voragine, poteva ancora reggere grandi volumi d’acqua. Per alleggerire la pressione sulla diga sono stati scaricati nel canale milioni di litri d’acqua. Squadre di elicotteristi hanno riversato nella voragine del canale principale centinaia di sacchi di pietre, per rinforzare la struttura, e si è potuto così evitare di ricorrere ancora al canale ausiliario. Le persone evacuate sono state fatte rientrare in casa, ma l’allerta rimane ancora alta. Sono previste forti piogge sulla zona, che potrebbero riportare l’acqua della diga a livelli ancora allarmanti. La domanda ancora in sospeso è se il canale ausiliario reggerà, se dovesse ripresentarsi la necessità di usarlo in emergenza.

L’emergenza a Oroville ha fatto riaffiorare il problema della manutenzione delle grandi dighe degli Stati Uniti. La maggior parte di esse è stata infatti costruita 50-60 anni fa, e non raggiunge gli standard di sicurezza richiesti oggi. Nel 2005, alcune organizzazioni per l’ambiente avevano messo in guardia le autorità sulla necessità di fortificare lo sfioratore principale di Oroville, per evitare il rischio inondazioni, ma non furono ascoltate.

Molte altre infrastrutture, negli USA e non solo, soffrono di analoghi problemi di manutenzione, che con gli squilibri di precipitazioni legati ai cambiamenti climatici potrebbero trasformarsi in rischi reali.

Oroville. La crisi della diga was last modified: febbraio 20th, 2017 by L'Interessante
20 febbraio 2017 0 commenti
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Cani
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I cani al cinema

scritto da L'Interessante

Cani.

Il regista Thor Freudenthal  afferma che i cani piacciono molto al cinema  per via della loro personalità: pare siano in grado di “bucare lo schermo”

Oggi i cani sono ampiamente diffusi nei film e nei media digitali, ma erano molto presenti anche nel cinema delle origini.

Un illustre esempio è “Vita da cani” del 1918, con la locandina recante Charlot depresso  con  accanto un meticcio che gli rassomiglia.

Correvano gli anni 30 e  40 quando  “Pete the Pup”, bellissimo esemplare di american pit bull terrier  diveniva la mascotte dei bambini della serie di film Simpatiche canaglie, andata in onda per tantissimi anni.

Contemporaneo di Pete  è  “Rin Tin Tin”, il pastore tedesco preferito d’America  presente al cinema dal 1923 al 1931. Il primo cane attore ad interpretare Rinty  fu trovato cucciolo da un soldato americano in un canile bombardato dai tedeschi,  alla fine della prima guerra mondiale.

Invece dal famoso racconto di Eric Knight  “Torna a casa Lassie” nel  1938 , prende origine sul grande e  piccolo schermo la storia del nobile collie più longevo del mondo.Sul set si sono alternati otto collie maschi nel ruolo di protagonista che però originariamente  era femminile.

Nel 1992 sotto la direzione di Brian Levant prende vita “Beethoven”,  il San Bernardo le cui avventure maldestre  hanno portato il sorriso sul volto di tantissimi bambini .

Il 2008 è l’anno di “Io&Marley”  film  diretto da David Frankel,  basato sull’omonimo romanzo di John Grogan, interpretato da Owen Wilson e Jennifer Aniston. “Un cane non se ne fa niente di macchine costose, case grandi o vestiti firmati. Un bastone marcio per lui è sufficiente, a un cane non importa se sei ricco o povero, brillante o imbranato, intelligente o stupido, se gli dai il tuo cuore ti darà il suo”, dirà il protagonista nell’epilogo del film.

Nell’anno successivo esce nelle sale il film Hachiko, diretto da Lasse Hallstrom con Richard Gere, ispirato alla storia vera del cane giapponese Hachiko . La trama racconta del rapporto indissolubile tra l’akita e il professore di musica Parker Wilson. Ogni giorno il cane accompagna il proprietario alla stazione e questa abitudine non cambierà anche dopo la morte improvvisa del professore: il cane continuerà ad aspettarlo in stazione per circa nove anni.

Spesso purtroppo le sorti di una razza sono legate al cinema; dalle intense campagne di marketing che accompagnano l’uscita di questi film scaturiscono sia successi commerciali sia tragedie domestiche. Ne scatta  spesso la moda inconsapevole com’è avvenuto nel caso dei dalmata ne “La carica dei 101”.

Tutto ciò si verifica perché chi acquista quella determinata razza è convinto che il cane abbia tutte le doti e i comportamenti promossi dal film; da qui nasce la frustrazione per l’aspettativa delusa o l’amarezza di relazionarsi con un soggetto diverso dall’attore. Ma l’errore è tipicamente umano; è nostra la proiezione. E’ nostra l’aspettativa. E’ nostra la romanzata.

È giusto scegliere un cane con delle predisposizioni di razza che pensiamo ci siano congeniali; ciò però non significa aspettarsi di trovare un soggetto addestrato per competenze specifiche di un film.

È consapevole della scelta chi chiede, s’informa, visiona nella realtà cosa quel cane rappresenti. Sarebbe utile raccogliere informazioni sui blog degli allevatori o ancor di più parlare direttamente con proprietari di quella razza che possano dirci il loro amico a quattro zampe che tipetto è.

Una scelta errata può ricadere su un sistema famiglia intero, e soprattutto sul cane che rischia di finire nella gabbia di un canile.

I cani al cinema was last modified: febbraio 16th, 2017 by L'Interessante
16 febbraio 2017 0 commenti
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Relitto
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Relitto di Antikythera: trovato uno scheletro umano

scritto da L'Interessante

Relitto.

di Antonio Andolfi

Una squadra internazionale di ricercatori ha scoperto uno scheletro umano durante gli scavi del famoso relitto di Anticitera. La buona condizione dei resti scheletrici dell’uomo potrebbe fornire la prima traccia di DNA recuperata da una nave affondata nell’antichità.

I subacquei hanno scoperto i resti scheletrici dell’uomo, forse un membro dell’equipaggio. È qui, nel Mar Egeo, vicino all’isola greca di Anticitera, che è stato trovato il misterioso meccanismo, un avanzatissimo calcolatore astronomico. Il naufragio della nave, forse una nave greca mercantile, sarebbe avvenuto nel I secolo a.C.

Da quando venne scoperto il relitto, nel 1900, erano già stati trovati dei resti umani. La spedizione del 1976 di Jacques-Yves Cousteau e del suo equipaggio, a bordo della Calypso, ne avevano portato alla luce almeno quattro, oltre a quasi 300 preziosi manufatti. Ma questo è il primo scheletro che si trova da quando gli scienziati sono capaci di condurre un’analisi genetica.

Le ossa trovate finora, che erano sepolte sotto mezzo metro di sabbia e frammenti di ceramica, includono parti di costole, due femori, due ossa del braccio e parti di un cranio con mascella e tre denti ancora attaccati. Sono state descritte sulla rivista scientifica Nature.

Il recupero del DNA dal relitto

L’esperto in DNA antico presso il Museo di storia naturale di Danimarca a Copenhagen, Hannes Schroeder, ha potuto visionare le ossa di persona, determinando che probabilmente appartenevano alla stessa persona – un giovane uomo. Contro tutte le previsioni, le ossa sono sopravvissute a oltre 2.000 anni sul fondo del mare, e sembrano in condizione abbastanza buone, il che è incredibile.

Le parti del cranio sembrano particolarmente promettenti per quanto riguarda l’estrazione del DNA, poiché contenevano la parte petrosa, una parte di osso temporale a forma di piramide quadrangolare. Situata alla base del cranio, quest’area contiene parte del più denso materiale osseo nel corpo, ed è considerato uno dei migliori posti per trovare del DNA. Se ce ne fosse abbastanza, potremmo conoscere l’aspetto fisico del giovane, o da quale parte del mondo venisse.

Il meccanismo del relitto di Anticitera

Dato che il relitto era stato individuato la prima volta da un gruppo di pescatori di spugne nel 1900, numerosi oggetti sono stati portati in superficie. Le prime spedizioni, nel 1901, trovarono tesori a volontà: dozzine di statue di marmo, scheletri dei membri dell’equipaggio e lo spettacolare “computer” di bronzo soprannominato il meccanismo di Anticitera.

Questo curioso congegno, descritto dal Ministero ellenico della Cultura e dello Sport come il più complesso oggetto antico mai scoperto, è stato trovato in 82 frammenti. Conteneva ruote, quadranti e oltre 30 ingranaggi. La complessità e l’intricata progettazione ha incuriosito gli esperti per decenni; alla fine si è scoperto che era capace di mostrare le fasi lunari e le posizioni di Sole, Luna e pianeti in date particolari.

Tra i vari oggetti emersi dal relitto ci sono anche dei beni di lusso: pezzi di giochi da tavolo, strumenti musicali e persino il braccio di quello che sembra essere stato un trono di bronzo.

Ma mentre gli oggetti trovati nel sito forniscono informazioni importanti sulla vita di migliaia di anni fa, questo scheletro rappresenta un collegamento vitale con gli antichi – in particolare con l’equipaggio di questa nave. Gli archeologi studiano il passato umano attraverso gli oggetti che i nostri antenati hanno creato. Ora abbiamo un collegamento diretto con questa persona, che navigò e morì a bordo della nave di Anticitera.

Relitto di Antikythera: trovato uno scheletro umano was last modified: febbraio 14th, 2017 by L'Interessante
14 febbraio 2017 0 commenti
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Lisbona
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Lisbona tra fascino, cibo e colori

scritto da L'Interessante

Lisbona.

Di Miriam Gargiulo

Lisbona, capitale del Portogallo,emerge tra le città più visitate del Sud Europa.

Lisbona è una città ricca di storia e maestosi monumenti, dai meravigliosi “Azulejos” che rivestono palazzi e numerose stazioni metropolitane. Si tratta di piastrelle di ceramica smaltata e decorata che rappresentano il tipico ornamento dell’architettura portoghese e spagnola, che donano colore e brillantezza ad ogni angolo della città.

Incanto e Miradouros

Città che per la sua conformazione urbanistica, presenta ripide salite e discese che la rendono davvero suggestiva per i numerosi miradouros, ovvero luoghi elevatiche Lisbona presenta in quanto si estende su sette colli, che permettono di ammirare dall’alto di favolose terrazze, la città in tutta la sua bellezza attraverso diverse angolazioni. Tra i tanti, incantevole è il Miradouro de Santa Luzia, per la vista del panorama di cui si può godere essendo affacciato sul Tago, il fiume che attraversa la città e che per la sua notevole estensione, somiglia più ad un mare.

Maestosa e raffinata, Lisbona è avvolta da una straordinaria tranquillità che non ti aspetteresti di trovare in una grande città, e da una singolare luminosità regalata dall’Oceano Atlantico e dallo stesso fiume Tago, che hanno portato visitatori e poeti a riconoscerla come la “Città della luce”.

Non solo baccalà

Per quanto riguarda il cibo, è ben noto che il baccalà è una vera e propria specialità della cucina tradizionale portoghese, fatta di porzioni appetitose e abbondanti. E’ infatti possibile mangiarlo in svariati modi e tutti diversi da come siamo abituati a consumarlo noi italiani. Consistenze differenti rendono questo pesce davvero gustoso. Si va dal “Bacalhau à Bras” con cipolle, uova, prezzemolo e olive, al “Bacalhaucomnatas” una deliziosa versione con la panna, a tante altre ricette ancora. Oltre al baccalà, molto consumate sono le sardine, tanto da incontrare negozi adibiti alla sola vendita di questo tipo di pesce nel pieno centro della città.

E’ inoltre doveroso assaggiare il “Pastel de nata” il tipico dolcetto portoghese di pasta sfoglia con un delicato ripieno di crema e panna, da gustare nella versione semplice o con l’aggiunta di cannella.

Dopo aver visitato questa meravigliosa capitale e assaggiato le sue specialità culinarie, credo che Lisbona sia davvero una città che tutti dovrebbero ammirare almeno una volta nella vita.

 

“Per me non esistono fiori in grado di reggere il confronto con la varietà dei colori che assume Lisbona alla luce del sole.”

-Fernando Pessoa

Lisbona tra fascino, cibo e colori was last modified: febbraio 10th, 2017 by L'Interessante
10 febbraio 2017 0 commenti
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Dall'Italia e dal MondoIn primo pianoNotizie fuori confine

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scritto da L'Interessante

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***PUBBLICITA’*** SOUND MAX SERVICE PER LE TUE FESTE*** was last modified: febbraio 10th, 2017 by L'Interessante
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