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Ricerca

peste nera
CulturaIn primo piano

Peste nera: quante persone si portò via davvero?

scritto da L'Interessante

di Antonio Andolfi

Uno studio ha misurato l’impatto sulla popolazione nel Medioevo dai cocci di ceramica di uso quotidiano in cinquanta villaggi in Inghilterra.

«Si moriva senza servitore, si veniva sepolti senza prete, il padre non visitava il figlio, né il figlio il padre, la carità era morta, la speranza annientata» scriveva Guy De Chauliac, medico francese alla corte papale ad Avignone. Quando la grande peste colpì in Europa, intorno al 1350, non risparmiava nessuno.

 

Nel corso di pochi anni, si stima che scomparvero un terzo dei 75-80 milioni di persone che costituivano all’epoca la popolazione del continente. Finora, però, non c’erano prove forti dirette in supporto dei racconti dei contemporanei, e alcuni storici hanno messo in dubbio che l’impatto della peste fosse stato così devastante come si era pensato.

Ora, basandosi sull’analisi dei resti di vasellame dell’epoca recuperati negli scavi in una cinquantina di villaggi in Inghilterra, un’ archeologa ha fornito una prova concreta delle proporzioni dell’epidemia di morte nera a metà del quattordicesimo secolo.

Peste nera: cocci rivelatori

Carenza Lewis, dell’Università di Lincoln, ha guidato progetti di scavi in molte comunità nella zona dello East Anglia, che si sa erano già abitate ai tempi della peste: circa duemila buche sono state scavate in giardini e cortili di chiese in tutta la regione, ai cui lavori hanno partecipato cittadini e  alunni delle scuole.

I cocci di ceramica di uso domestico sono uno dei reperti archeologici più comuni, e vengono usati come indicatore attendibile della numerosità di una popolazione, e per tracciare l’ascesa e la decadenza di città e villaggi. Facendo scavi di dimensioni standard, e paragonando i cocci negli strati corrispondenti alle diverse epoche, si può avere un’idea di come si viveva.

Prima e dopo la Peste Nera.

Ebbene: mentre le ceramiche di prima della Peste Nera, ben identificabili in base al loro aspetto e al colore grigio-marrone erano molto abbondanti in tutti i luoghi, negli anni successivi – fino a decenni dopo – erano molto più scarse, segno evidente di un declino della popolazione.

In particolare, per alcuni villaggi presi in considerazione, come Norfolk, la diminuzione arrivava al 65 per cento; in altri ancora, per esempio Gaywood e Paston, addirittura all’ ’85 per cento. In media, la popolazione dopo la peste era all’incirca la metà rispetto a prima. E nel conto non sono compresi villaggi che non esistono più perché non si sono mai risollevati dal colpo. Una devastazione su scala stupefacente. In confronto, una delle più terribili epidemie recenti, come quella di influenza Spagnola scoppiata intorno alla prima guerra mondiale, ha ucciso non più del 3 per cento della popolazione.

Insomma, la Peste Nera è stata davvero uno spartiacque, oltre che un monito sull’influenza terribile che le malattie possono avere sulla storia e sulle civiltà.

Peste nera: quante persone si portò via davvero? was last modified: aprile 2nd, 2017 by L'Interessante
2 aprile 2017 0 commenti
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macchine
CulturaIn primo piano

Macchine molecolari. Premio Nobel per la chimica

scritto da L'Interessante

Macchine

Di Antonio Andolfi

Automobili, ascensori, razzi e muscoli artificiali, tutti mille volte più sottili di un capello. Il Premio Nobel per la Chimica 2016 è stato assegnato a Jean-Pierre Sauvage, Sir J. Fraser Stoddart e Bernard L. Feringa per la loro progettazione e produzione di macchine molecolari. 

 

I tre ricercatori, infatti, hanno sviluppato molecole con movimenti controllabili, che possono svolgere un compito quando a queste molecole si aggiunge energia.

 

 Come è nato il progetto delle macchine molecolari.

 

Il mondo naturale è pieno di macchine di dimensioni nanometriche: prendiamo i flagelli batterici: macromolecole a forma di turacciolo che, muovendosi, permettono ai microrganismi di spostarsi. Ma può l’uomo, con le sue gigantesche mani, progettare qualcosa di simile? Nel 1984 Richard Feynman aveva profetizzato che macchine come queste sarebbero divenute realtà in 25-30 anni. Il suo sembrava allora un discorso visionario, ma già da tempo qualcuno stava lavorando affinché si concretizzasse.

 

Una possibile strada, percorribile con le nostre “manone” sarebbe stata quella di costruire mani più piccole, che avrebbero costruito altre mani più piccole e così via, fino alla costruzione di nano macchine da parte di nanomani. Strada affascinante, ma impercorribile.

 

Lo stesso Feynman riponeva la sua fiducia su altre strade. Come quelle prese dai 3 vincitori del Nobel 2016 per esempio, che hanno costruito le nanomacchine a partire dalla chimica: molecole controllabili e in grado di convertire l’energia chimica in forze meccaniche e movimento. Tutto questo ha permesso ai chimici di costruire una serie di dispositivi molecolari, come interruttori e motori.

 

Le macchine molecolari e gli ioni di rame.

 

Come spesso accade nella ricerca, l’intuizione è arrivata da un campo completamente diverso, quello della fotochimica, la branca della chimica che studia come catturare l’energia contenuta nei raggi del Sole e utilizzarla per guidare nuove reazioni chimiche. Semplificando molto, Jean-Pierre Sauvage ha costruito due molecole in grado di legarsi a uno ione di rame in modo da costruire una catena molecolare. I precedenti tentativi di costruzione di catene molecolari erano stati molto deludenti: solo l’1% delle molecole utilizzate si legava. Con il metodo di Sauvage la percentuale saliva al 42%.

 

Le catene molecolari non erano più un passatempo e la strada per legare le molecole in strutture sempre più complesse era stata aperta. E così anche quella di costruzione di macchine molecolari: nel 1994 il gruppo di ricerca di Sauvage costruì una catena molecolare nella quale un anello ruotava in maniera controllata quando veniva aggiunta energia. Era il prototipo della prima macchina molecolare non di origine biologica.

 

Ascensori e computer: esempi di macchine molecolari.

 

Fraser Stoddart nel 1991 si spinse decisamente più avanti: il suo gruppo di ricerca costruì una macchina molecolare costituita da un anello molecolare aperto privo di elettroni e un asse con strutture ricche di elettroni. Se inseriti in una soluzione, le strutture povere di elettroni venivano attratte da quelle ricche di elettroni e l’anello si inseriva nell’asse; se veniva applicato del calore l’anello si muoveva avanti e indietro lungo l’asse.

 

Questo meccanismo – perfezionato in seguito – è detto tecnicamente rotaxano ed è stato utilizzato da Fraser per realizzare numerose macchine. Tra questi, minuscoli montacarichi in grado di sollevarsi per 0,7 nanometri sopra la superficie in cui erano posti e un muscolo artificiale in grado di piegare sottilissime lamine di metallo. Insieme ad altri ricercatori Stoddart ha creato un chip basato sui rotaxani con una memoria di 20 kB. Rispetto ai processori che usiamo si tratta di un chip minuscolo.

 

Quando Ben Feringa nel 1999 costruì il primo motore molecolare utilizzò diversi “trucchi” per fare in modo che le molecole girassero tutte nelle stessa direzione, invece che caoticamente come avviene di solito. In condizioni normali il movimento delle molecole è governato dal caso e in media il numero di giri di una molecola su se stessa è lo stesso verso destra e verso sinistra.

Ma Feringa è riuscito farle girare sempre dalla stessa parte. Semplificando moltissimo, Feringa è riuscito a costruire una struttura chimica in cui alcune molecole, se esposte a flash di raggi ultravioletti, si muovevano di 180 gradi lungo un perno centrale: era nato il primo motore molecolare a raggi ultravioletti. Non era particolarmente veloce, ma il gruppo di Feringa è riuscito a perfezionarlo nel 2014: il motore ruota a 12 milioni di giri al secondo. Nel 2011, i ricercatori hanno anche costruito una macchina molecolare 4×4 che funziona.

L’innovazione delle macchine molecolari

 

 Con le loro macchine molecolari Jean-Pierre Sauvage, Fraser Stoddart e Ben Feringa ci hanno regalato una “cassetta degli attrezzi molecolare” formidabile: strutture chimiche che tutti i ricercatori del mondo possono utilizzare per creare oggetti sempre più complessi e avanzati. Uno dei più suggestivi esempi è un robot molecolare che può afferrare e collegare tra loro aminoacidi. È stato costruito nel 2013 con un rotaxano come suo fondamento.

 

Coloro che spesso lamentano che il Nobel per la chimica sia raramente assegnato a “veri” chimici saranno soddisfatti. Il premio è andato a ricerche di scienza di base, ma con un gran numero di future applicazioni, dai materiali intelligenti alla somministrazione mirata di medicinali. 

 

Da un punto di vista teorico Sauvage, Stoddart e Feringa hanno trovato il modo per guidare – in modo controllato – i sistemi molecolari fuori da una condizione di equilibrio. È un risultato importante perché tutti i sistemi chimici tendono all’equilibrio. Da un punto di vista pratico i tre hanno aperto un nuovo ambito di ricerca nella chimica: hanno realizzato sistemi molecolari impensabili fino a qualche decennio fa con grandi potenzialità in molti ambiti, da quello medico a quello della ricerca di nuovi materiali.

 

Le loro scoperte  sono paragonabili – a livello nano – a quelle ottenute negli anni Trenta dell’Ottocento con i motori elettrici, quando i ricercatori di allora armeggiavano con ruote e manovelle senza avere idea che tutto quello li avrebbe portati a costruire treni elettrici, lavatrici, condizionatori etc.

 

 

Macchine molecolari. Premio Nobel per la chimica was last modified: marzo 1st, 2017 by L'Interessante
1 marzo 2017 0 commenti
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faglia
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Nuova faglia in California

scritto da L'Interessante

Faglia

di Antonio Andolfi

Pochi giorni dopo lo sciame di oltre 200 piccoli terremoti che hanno scosso l’area di Salton Sea, nel sud della California, gli scienziati hanno scoperto una seconda faglia che corre parallela alla nota faglia di Sant’Andrea (San Andreas Fault), a ovest rispetto a questa, lunga oltre 50 chilometri. La scoperta obbliga i sismologi a rivedere i modelli di rischio sismico per la maggior parte dell’area che comprende Los Angeles.

Secondo i ricercatori la faglia, che prende il nome di Salton Trough, non era mai stata rilevata prima perché si trova sotto il Salton Sea, un vasto lago salato che si è formato in seguito all’attività tettonica dell’area. La frattura è stata identificata casualmente, grazie ad un gruppo di ricercatori impegnati ad approfondire la geologia della regione incrociando dati ottenuti attraverso numerosi strumenti, tra cui rilevatori sismici, sismometri per ricerche oceaniche e il LiDAR (Light Detection and Ranging), ossia una tecnica di telerilevamento che utilizza impulsi laser.

La faglia si trova nella parte orientale di Salton Sea e poiché negli ultimi anni non ci sono stati terremoti associati con essa, non è mai stata evidenziata. Nonostante la scoperta, non c’è tuttavia motivo di pensare che la zona sia più soggetta a terremoti rispetto a quanto già ipotizzato.

La faglia di San Andreas, perché non è arrivato il Big One

Questa nuova frattura potrebbe in realtà spiegare perché ci sono stati meno terremoti rispetto a quanto previsto lungo quella di San Andreas. Una ricerca da poco pubblicata evidenzia che nell’arco degli ultimi 1.000 anni, lungo l’area meridionale della più famosa faglia, si è verificato un terremoto di magnitudo 7 ogni 185 anni: una periodicità che, in tempi più recenti, sembra essere saltata.

Questo spiega perché da tempo se ne attende uno di elevata intensità, il famigerato Big One.

Quale ruolo può avere questa seconda scoperta di Salton Sea in questo lungo periodo di quiete relativa? Una ipotesi è che potrebbe aver assorbito parte dell’energia che, altrimenti, si sarebbe scaricata lungo la faglia di San Andreas provocando l’atteso evento catastrofico.

 

Nuova faglia in California was last modified: febbraio 2nd, 2017 by L'Interessante
2 febbraio 2017 0 commenti
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Violenza
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

La violenza umana (e non solo) ha radici antiche

scritto da L'Interessante

Violenza.

di Antonio Andolfi

Uno dei dibattiti più accesi degli ultimi secoli riguarda l’origine della violenza e delle uccisioni all’interno di una specie. L’uomo è naturalmente cattivo o sono le condizioni che scatenano la violenza? La nostra natura o la nostra cultura sono alla base delle guerre, delle lotte e degli omicidi?

L’analisi della nostra storia ha portato a posizioni le più varie, da quella di homo homini lupus (l’aggressione è connaturata all’uomo) a quella del “buon selvaggio” (la cultura occidentale rende tutti più violenti), non riuscendo a chiarire la questione. Un gruppo di studiosi spagnoli di varie università ha preso il toro per le corna e ha esaminato non solo la storia della violenza umana, ma quella di tutto il gruppo animale di cui facciamo parte, i Mammiferi.

L’albero della violenza

In un articolo pubblicato sulla rivista Nature , gli scienziati hanno usato i metodi della biologia evolutiva per ricostruire uno schema filogenetico della violenza letale nei mammiferi. Hanno così elaborato la causa di 4 milioni di uccisioni avvenute nella storia dei mammiferi, basandosi su comportamenti e analisi storiche che riguardano 1.024 specie, la nostra compresa, appartenenti a 137 famiglie. Secondo gli autori, nei primissimi mammiferi solo una morte su circa 300 (0,30%) era causata da membri della stessa specie. Con l’andare del tempo, la differenziazione e la vera esplosione evolutiva tra vari ordini ha portato a stili di vita del tutto differenti, e quindi anche diversi comportamenti per quanto riguarda il rapporto con gli altri.

 Primati di uccisioni

Man mano che passava il tempo e ci si avvicinava ai nostri antenati, seppure lontani, la violenza letale aumentava. E raggiungeva il 2,3% circa negli antenati di primati e tupaie (insettivori del sud-est asiatico, simili a grossi toporagni ma lontani parenti dei primati) e all’1,8% nei veri primati. All’origine della nostra specie questa percentuale era di circa il 2%. Altri animali, come pipistrelli e balene, sembrano molto più pacifici, e hanno una percentuale di uccisioni molto più bassa.

Scritto nei geni? Non solo.

Gli autori concludono quindi che la violenza non è caratteristica di una specie o di un’altra, ma ha basi genetiche (anzi, filogenetiche) che devono essere prese in considerazione, anche quando ci sono stati profondi cambiamenti nello “stile di vita” delle specie. In generale, per esempio, i carnivori sono più violenti degli erbivori. Ma soprattutto contano gli stili di vita. Le cause di questo aumento di percentuale di morti per violenze interne alla specie sono state, infatti, la nascita in mammiferi più vicini a noi di comportamenti complessi, come la territorialità e la vita di gruppo. Vivere assieme e dover difendere le risorse, alimentari o meno, oppure cercare di invadere territori altrui, come fanno oggi gli scimpanzé, ha portato a un aumento del numero di scontri tra animali simili, e quindi a morti causate da questi scontri. Le cose si sono complicate quando nella nostra specie è subentrata la cultura, che ha fatto diventare più complessi ed estremamente diversificati i rapporti tra gli uomini. Per chiarire il quadro, il gruppo di ricerca ha cercato di capire come fossero andate le cose anche nel Paleolitico (da 2,5 milioni a 10.000 anni fa), nel Mesolitico (dal 10000 all’8000 a.C.) e in altri periodi anche recenti. Il risultato è che la percentuale di violenza varia moltissimo nel tempo, e può arrivare al 15-30% tra i 3.000 e i 500 anni fa. Per diminuire poi quando il compito di usare la violenza, se necessaria, è stato assunto dagli Stati e dalla polizia. Anche se l’idea è interessante, ci sono molte obiezioni a questo studio. Una prima è del tutto intuitiva: non è facile stabilire quale fosse la percentuale di morti ammazzati qualche migliaio di anni fa, e in specie lontane da noi nel tempo e nello spazio. Una seconda obiezione riguarda la pesante influenza nella specie umana della cultura, che può variare di molto la percentuale di omicidi da una società a un’altra, anche se vicine, e da un’epoca alla successiva. Nonostante i dubbi, però, uno studio che faccia notare come la violenza all’interno della linea filetica cui appartiene una specie sia un fattore da tenere in considerazione quando si studiano le società animali, e umane, è estremamente interessante e innovativo.

 

La violenza umana (e non solo) ha radici antiche was last modified: gennaio 23rd, 2017 by L'Interessante
23 gennaio 2017 0 commenti
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Veronesi
CulturaIn primo piano

Il ricordo di Umberto Veronesi

scritto da L'Interessante

Veronesi

di Antonio Andolfi

ll più grande oncologo italiano, uno dei migliori del mondo, è morto a 90 anni. Era stato ministro della Sanità ed è stato uno dei principali fautori delle leggi contro il fumo.

Umberto Veronesi è morto a Milano martedì 8 novembre all’età di 90 anni. Era nato a Milano il 25 novembre 1925 (avrebbe compiuto 91 anni tra meno di un mese) ed era uno dei più noti oncologi del mondo.

Dopo aver diretto l’Istituto dei Tumori di Milano nel 1991, sempre a Milano, aveva fondato l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), un modello di ospedale oncologico innovativo che si basa su 3  principi: centralità del paziente, integrazione fra la ricerca di laboratorio e ricerca clinica, prevenzione. Ministro della Salute tra il 2000 e il 2001 nel governo Amato (allora si chiamava ancora Ministero della Sanità), si era battuto per far approvare le norme che limitano il fumo nei locali pubblici.

Veronesi e la scienza

Se la figura di Umberto Veronesi è molto nota e stimata in Italia è anche per il ruolo che ha avuto nella vita pubblica: come divulgatore infaticabile; come protagonista del dibattito etico sui temi della medicina, dell’eutanasia, della cura dei malati; come medico e imprenditore della sanità. Ma il suo ruolo scientifico è altrettanto importante e noto soprattutto al di fuori dei confini nazionali. Perché prima di tutto Umberto Veronesi era un chirurgo. Un grandissimo chirurgo. È a lui che dobbiamo la tecnica della quadrantectomia per estirpare il tumore alla mammella. Si tratta di un intervento che ha un impatto estetico (e pertanto anche psicologico) molto meno invasivo ma altrettanto efficace della mastectomia, ovvero l’asportazione chirurgica del seno.  

Nel 1981 pubblica i dati della sua ricerca sulla quadrantectomia sul New England Journal of Medicine, uno studio condotto dai medici e chirurghi italiani dell’Istituto dei Tumori di Milano. Il  New York Times riprende la notizia in prima pagina e la notorietà di Veronesi, fino ad allora relegata al pubblico degli addetti ai lavori, decolla. E decolla anche la sua tecnica, rivoluzionaria, che cambia per sempre la chirurgia del tumore alla mammella.

È questo il periodo in cui l’Italia, Milano, l’Istituto dei Tumori fa scuola a tutti i medici del mondo, statunitensi compresi. Merito di un oncologo, Gianni Bonadonna, di un grande chirurgo, Umberto Veronesi, e della sua idea rivoluzionaria: il cancro non si combatte da soli, ma in gruppo. E si vince con la ricerca.

 Nel  1993, all’IEO, la sua creatura nel quale anche a 90 anni si recava per 3 giorni alla settimana,  sviluppa la tecnica del “linfonodo sentinella”. Come funziona questa tecnica? Veronesi e gli altri ricercatori dello IEO si resero conto dell’importanza di intercettare tempestivamente i carcinomi piccoli perché in questi casi le cellule cancerose non facevano in tempo a raggiungere i linfonodi dell’ascella, per cui non era necessario asportarli. Mentre il paziente è ancora in sala operatoria, si inietta un liquido radioattivo che individua il linfonodo sentinella, quello più vicino al tumore, lo si analizza e se è sano si evita di togliere tutti gli altri, che sono una barriera protettiva naturale del nostro sistema immunitario.

 Nel 2000 Veronesi rivoluziona la radioterapia con la cosiddetta radioterapia intraoperatoria, resa possibile quando un gruppo di ingegneri e fisici romani riesce ad assemblare un macchinario per la radioterapia così piccolo e mobile da poterlo portare in sala operatoria. Grazie a questa tecnica le pazienti non devono tornare in ospedale ogni giorno per 6 settimane circa dopo l’operazione per le consuete (e fondamentali) sedute di radioterapia. Ma l’efficacia della tecnica, naturalmente, non è limitata soltanto al confort delle pazienti: la radioterapia intraoperatoria riduce il campo dell’irradiazione del seno e limita al minimo l’irradiazione nelle zone vicine che potrebbero essere danneggiate senza ricevere benefici.

Proprio per queste innovazioni ha ricevuto tredici lauree honoris causa, nazionali e internazionali.

Veronesi. L’importanza della sua figura

Difensore dei diritti degli animali, vegetariano e molto attento al ruolo dell’alimentazione nella prevenzione dei tumori e nella tutela della salute, sostenitore del testamento biologico, dell’eutanasia e dei diritti del malato, della fecondazione eterologa,  nel 2003 ha anche creato la fondazione Veronesi per sostenere la ricerca e la divulgazione scientifica.

Il suo ruolo nel dibattito etico ha travalicato il campo della medicina e della salute: si è battuto contro la pena di morte, l’ergastolo e per la riforma del sistema carcerario. Per questo motivo ha creato e sostenuto l’iniziativa Science for Peace.

Fervente antiproibizionista, ha promosso la depenalizzazione dell’uso delle droghe leggere e più volte sostiene l’importanza di una regolamentazione dei derivati della cannabis, soprattutto per i suoi usi terapeutici in materia di terapia del dolore.

Nel campo della sanità ha sostenuto la centralità della ricerca. Per questo ha promosso la creazione degli Irrcs, gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, e ha cercato di convincere la politica (prima da ministro della salute, poi da senatore) che la ricerca pubblica è una priorità: senza sono le aziende a fare il bello e il cattivo tempo.

Umberto Veronesi faceva parte di una generazione di medici che hanno fatto la storia della medicina in Italia e che sono cresciuti all’interno dell’Istituto Tumori di Milano, il primo luogo di cura che ha approcciato la malattia oncologica con l’occhio della modernità.

Tutti i malati oncologici, e AIRC in particolare, devono molto alla sua lungimiranza di medico e scienziato e alla sua instancabile tenacia nel perseguire l’obiettivo di terapie più umane, efficaci e accessibili a tutti.

A Veronesi si deve la nascita della Giornata per la Ricerca sul Cancro nel 1998, una delle attività più qualificanti di AIRC, che ancora oggi ogni anno informa la cittadinanza sui risultati raggiunti per la cura del cancro e sull’importanza di sostenere il lavoro dei ricercatori.

 

 

Il ricordo di Umberto Veronesi was last modified: novembre 17th, 2016 by L'Interessante
17 novembre 2016 0 commenti
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Ricerca
CronacaIn primo pianoParliamone

Umberto Veronesi: grande perdita nel mondo della ricerca

scritto da L'Interessante

Ricerca

Di Vincenzo Piccolo

 

Si è spento l’oncologo di fama mondiale Umberto Veronesi , a 90 anni.

Lascia un grande patrimonio, ma anche un grande vuoto, per la ricerca contro i tumori

Nato il 28 Novembre del 1925 è deceduto nella sua casa di Milano dove, nelle ultime settimane, si erano viste aggravare le sue condizioni. Tra i suoi tanti incarichi vale la pena ricordare quello di Ministro della Salute che ha ricoperto dal 2000 al 2001 e la carica di Senatore dal 2011. Fondatore dell’istituto per la lotta al cancro, che ha guidato per vent’anni, sotto l’egida di Enrico Cuccia. Ha portato in Italia il modello ospedaliero basato sulla centralità del paziente e non il suo male, istituendo una gestione che reinvestiva gli utili nella ricerca. Inventore del metodo della “quadrantectomia”, un intervento conservativo soft che non deturpa il corpo durante la rimozione del tumore mammario. Scoperta molto pionieristica, a suo tempo, tanto da portare molto scetticismo nella comunità scientifica, tant’è che molti chirurghi-oncologi, dell’epoca, non volevano rinunciare alla classica mastectomia.

A distanza di 40 anni tutto il mondo ha dovuto ammettere il primato di Veronesi, anche gli americani, il cui nome è legato ai grandi contributi scientifici che ha portato nella società.

 

Assegnatario di ben tredici lauree “ad honorem”, sia nazioniali che internazionali, il suo contributo intellettuale non era mirato solo alla scienza, ma anche alla vita pubblica e politica.

 

Importanti le sue battaglie per la laicità dello stato e l’equilibrio dei poteri, per la legalizzazione e la depenalizzazione delle droghe leggere.

Favorevole ai matrimoni tra persone dello stesso stesso, all’aborto e all’eutanasia,argomento sul quale ha scritto il libro Il diritto di morire: La libertà del laico di fronte alla sofferenza (2005).

Importanti i suoi studi sull’alimentazione,prima arma contro il cancro, che lo portarono ad adottare il vegetarianesimo riguardo al quale ha sempre sostenuto « Il nostro organismo, come quello delle scimmie, è programmato proprio per il consumo di frutta, verdura e legumi. Una dieta priva di carne non ci indebolirebbe certamente: pensiamo alla potenza fisica del gorilla. E pensiamo al neonato, che nei primi mesi quadruplica il suo peso nutrendosi solo di latte. Non solo una dieta di frutta e verdura ci farebbe bene, ma servirebbe proprio a tenere lontane le malattie>>.

Ateo convinto non ha mai avuto paura di scomparire, ma di perdere le sue facoltà intellettive e per questo si allenava ogni giorno. La sua più grande eredità sono le idee che lascia, queste vanno oltre lo stesso compito di ricercatore e professore, perché toccano il tessuto sociale e culturale di paese, tessendo la trama di una storia che ancora non ha trovato una fine, infatti, come diceva “non ho visto la soluzione finale contro il cancro ma arriverà!”.

Umberto Veronesi: grande perdita nel mondo della ricerca was last modified: novembre 12th, 2016 by L'Interessante
12 novembre 2016 0 commenti
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Scienza
CuriositàIn primo piano

Scienza: passi da gigante contro l’HIV

scritto da L'Interessante

Scienza

Di Maria Rosaria Corsino

Sembrerebbe che ci siamo quasi, che anche l’HIV stia per essere sconfitto.

Forse, in un’ipotesi molto remota. Mai cantar vittoria col male dormiente, col flagello degli ultimi secoli.

Alcuni risultati positivi però si sono avuti su un uomo di 44 anni curato con farmaci sperimentali, che riattivano il virus combinati con le normali terapie antiretrovirali.

Queste, nonostante riescano a tenere molto basso il livello del virus nel sangue, non riescono però a distruggere le cellule dormienti che sono responsabili del ritorno della malattia.

Ancora non si grida al miracolo, ma i medici affermano che questo è un enorme passo avanti, anche se i risultati definitivi non si avranno prima di cinque anni.

 

AIDS – Scienza: passi da gigante contro l’HIV

 

La sindrome da immunodeficienza acquisita è una malattia che rende difficile al corpo difendersi da infezioni esterne.

Trasmissibile attraverso fluidi corporei, sangue o aghi infetti è dal 1991 la sesta causa di morte negli Stati Uniti.

Ma anche in Italia i numeri sono molto alti: nel 2015 sono stati contati circa 140 mila sieropositivi.

L’Hiv non ha mai risparmiato nessuno ed è stato causa della morte di moltissimi personaggi celebri: da Freddie Mercury a Rudolf Nureyev a Michel Foucault.

Non esistono vaccini o cure definitive per sconfiggere il virus, l’arma più potente che si possa usare è la prevenzione.

E gli esperti si esprimono all’unanime: abbiate rapporti protetti.

La vostra vita ve ne sarà grata.

Scienza: passi da gigante contro l’HIV was last modified: ottobre 4th, 2016 by L'Interessante
4 ottobre 2016 0 commenti
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