Saracinesca alzata ad Officina Tetaro in questo primo primo weekend di Aprile.
In scena, Amleto Fx di e con Gabriele Paolocà, collaborazione alla regia Michele Altamura e Gemma Carbone
Se per un Amleto classico, con tutta la solennità che un testo di questo calibro possiede, c’è un pubblico che ben sa cosa aspettarsi, in quanto opera tra le più conosciute al mondo, per Amleto Fx c’è una platea che assiste al nuovo, che sia un linguaggio o una musica o un atteggiamento, pur riconoscendo sulla scena tutti gli squarci della storia che hanno fatto dell’Amleto la grandezza che il passato ci tramanda.
C’è Ofelia, ci sono Rosencrantz e Guildenstern, c’è una madre e uno zio, c’è il fantasma del padre, c’è Orazio.
E di certo vi stupireste se il suicidio di Ofelia avvenisse davanti all’ obiettivo di uno smartphone, sarebbe assurdo se la madre di Amleto lo chiamasse via skype da una casa di villeggiatura, sicuramente non credereste alle parole di Orazio che invita – attraverso una chat di Facebook – Amleto ad una festa dove ubriacarsi e farsi come ranocchi.
E il fantasma? Un video dimenticato nella cartella documenti sul desktop di un Mac.
La storia c’è, non fraintendetemi, la storia c’è. Ma c’è anche un punto di incontro tra quello che fu è quello che è, i sentimenti forti e ineluttabili che furono – sono – saranno, pur mutando cieli e musiche, abiti e personaggi.
La solitudine di una depressione che altro non è se non manifesta responsabilità di un qualcosa che va rimesso in ordine, dopo un passato che ci ha lasciato un gran caos senza logica. E le nostre colpe derivano proprio da un passato da risistemare.
Perchè se Amleto deve vendicare il padre, noi oggi ci troviamo a dover mettere in ordine un mondo che ci hanno consegnato malconcio e di cui dovremmo – chissà perchè – sentirne tutte le responsabilità. Un mondo che ci vuole tanto veloci, ma tanto condannabili in quanto i mezzi – tecnologici – che usiamo per stare al passo, sono ritenuti così di basso profilo da renderci fannulloni, scansafatiche, choosy.
Una mente geniale ha partorito la contaminazione. Un attore che – da solo sulla scena – attraverso il linguaggio nel corpo ci ha portato in mille mondi stando chiusi tra le quattro pareti di una stanza, ci ha presentato tanti e più personaggi con soli due occhi e un solo corpo che nella sua magistrale complessità, ha lasciato a noi la semplicità del solo cambio d’abito.
A saracinesca abbassata, come spesso accade ad Officina Teatro, ci siamo fermati a parlare con l’attore e l’aiuto regista. Uno splendido scambio di idee.
Finalmente muore la vecchia generazione, è stato il mio pensiero a voce alta, finalmente tutti i grandi della musica, della scrittura e del teatro stanno finendo fisicamente, lasciandoci lo spazio per esprimere un mondo nostro, la rivisitazione di un passato che vuoi o non vuoi non c’è più. E’ il nostro tempo, lasciatecelo vivere, non ci tenete incatenati “ai classici che non si toccano”, ai grandi nomi dei secoli scorsi. Abbiamo i nostri nomi da scrivere, oggi, se solo ci permetteste di costruire il nostro mondo, lasciandoci liberi e svincolati dalla responsabilità di contemplare il vostro di mondo, di rimettere ordine nel vostro casino, di rattoppare le vostre mancanze.
Ecco perchè a chi ieri ha manifestato il suo fastidio scaturito da termini quali “facebook, skype, smartphone” all’interno di un teatro durante la rappresentazione di un classico, consiglierei – umilmente – di rivedere lo spettacolo oggi pomeriggio.
I classici non solo li si può toccare, ma li si DEVE toccare, ribaltandoli, guardarli da altri punti di vista. Ma soprattutto smettiamola di criticare il nostro mondo di oggi solo per sentirci intellettualmente a posto con la nostra coscienza.
Renderemo il nostro mondo un posto migliore solo percorrendo nuove strade in avanti, non venerando i percorsi battuti da altri. Altri che uomini erano, esattamente come noi uomini siamo.
Roberta Magliocca