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Storia

peste nera
CulturaIn primo piano

Peste nera: quante persone si portò via davvero?

scritto da L'Interessante

di Antonio Andolfi

Uno studio ha misurato l’impatto sulla popolazione nel Medioevo dai cocci di ceramica di uso quotidiano in cinquanta villaggi in Inghilterra.

«Si moriva senza servitore, si veniva sepolti senza prete, il padre non visitava il figlio, né il figlio il padre, la carità era morta, la speranza annientata» scriveva Guy De Chauliac, medico francese alla corte papale ad Avignone. Quando la grande peste colpì in Europa, intorno al 1350, non risparmiava nessuno.

 

Nel corso di pochi anni, si stima che scomparvero un terzo dei 75-80 milioni di persone che costituivano all’epoca la popolazione del continente. Finora, però, non c’erano prove forti dirette in supporto dei racconti dei contemporanei, e alcuni storici hanno messo in dubbio che l’impatto della peste fosse stato così devastante come si era pensato.

Ora, basandosi sull’analisi dei resti di vasellame dell’epoca recuperati negli scavi in una cinquantina di villaggi in Inghilterra, un’ archeologa ha fornito una prova concreta delle proporzioni dell’epidemia di morte nera a metà del quattordicesimo secolo.

Peste nera: cocci rivelatori

Carenza Lewis, dell’Università di Lincoln, ha guidato progetti di scavi in molte comunità nella zona dello East Anglia, che si sa erano già abitate ai tempi della peste: circa duemila buche sono state scavate in giardini e cortili di chiese in tutta la regione, ai cui lavori hanno partecipato cittadini e  alunni delle scuole.

I cocci di ceramica di uso domestico sono uno dei reperti archeologici più comuni, e vengono usati come indicatore attendibile della numerosità di una popolazione, e per tracciare l’ascesa e la decadenza di città e villaggi. Facendo scavi di dimensioni standard, e paragonando i cocci negli strati corrispondenti alle diverse epoche, si può avere un’idea di come si viveva.

Prima e dopo la Peste Nera.

Ebbene: mentre le ceramiche di prima della Peste Nera, ben identificabili in base al loro aspetto e al colore grigio-marrone erano molto abbondanti in tutti i luoghi, negli anni successivi – fino a decenni dopo – erano molto più scarse, segno evidente di un declino della popolazione.

In particolare, per alcuni villaggi presi in considerazione, come Norfolk, la diminuzione arrivava al 65 per cento; in altri ancora, per esempio Gaywood e Paston, addirittura all’ ’85 per cento. In media, la popolazione dopo la peste era all’incirca la metà rispetto a prima. E nel conto non sono compresi villaggi che non esistono più perché non si sono mai risollevati dal colpo. Una devastazione su scala stupefacente. In confronto, una delle più terribili epidemie recenti, come quella di influenza Spagnola scoppiata intorno alla prima guerra mondiale, ha ucciso non più del 3 per cento della popolazione.

Insomma, la Peste Nera è stata davvero uno spartiacque, oltre che un monito sull’influenza terribile che le malattie possono avere sulla storia e sulle civiltà.

Peste nera: quante persone si portò via davvero? was last modified: aprile 2nd, 2017 by L'Interessante
2 aprile 2017 0 commenti
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otzi
CulturaIn primo piano

Ötzi: l’uomo di Similaun

scritto da L'Interessante

Di Antonio Andolfi 

Nel 1991, in un ghiacciaio della Val Senales veniva scoperto il corpo mummificato di un uomo vissuto oltre 5.000 anni fa. Venticinque anni di studi e ricerche hanno portato a scoprire molto su chi era e come viveva l’uomo di Similaun.

Vissuto durante l’Età del Rame, fra il 3100 e il 3300 a.C., Ötzi aveva circa 45 anni quando morì, un’età abbastanza avanzata per l’epoca. Aveva occhi marroni, capelli scuri lunghi fin sulle spalle, che probabilmente portava sciolti. La sua corporatura era snella e scattante: alto circa un metro e sessanta, pesava una cinquantina di chili. Il suo numero di scarpe corrisponderebbe oggi a un 38.

Ötzi: le prime ipotesi.

A ritrovare la mummia che affiorava dai ghiacci a 3.200 metri di quota nella zona del Giogo di Tisa in Val Senales fu, il 19 settembre 1991 una coppia di escursionisti tedeschi, che segnalarono la sua presenza al gestore del rifugio Similaun. Due giorni dopo, si trovò a passare sul posto anche Reinhold Messner, in compagnia di un altro alpinista sudtirolese, Hans Kammerlander. Venne mostrato loro uno schizzo dell’ascia ritrovata accanto al corpo, e Messner per primo ipotizzò che si trattasse di un corpo di un’età molto antica, non un escursionista morto di recente o un soldato della Prima guerra mondiale.

Dal 1998 la mummia si trova al Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, conservata in una cella frigorifera che riproduce le condizioni del ghiacciaio: una temperatura costante di 6 °C sotto zero e un’umidità del 99 per cento. La mummia viene inoltre spruzzata regolarmente con acqua sterilizzata per contrastare la perdita di umidità. Il pubblico può osservarla da un piccolo oblò.

Ötzi ucciso per vendetta?

Ötzi morì assassinato: nel 2001 fu scoperta la punta di una freccia nella spalla sinistra. In quali circostanze si consumò il dramma? Secondo la ricostruzione del commissario della polizia criminale di Monaco, Alexander Horn, l’uomo di Similaun potrebbe essere stato ucciso da qualcuno con cui aveva un conto in sospeso. Perché Horn è giunto a questa conclusione? Ötzi aveva una profonda ferita da taglio alla mano destra, risalente a pochi giorni prima della morte, che sembra procurata in una lotta corpo a corpo, forse in un tentativo di difesa. Poco prima di morire, inoltre, l’uomo si era fermato a consumare un pasto abbondante, di cui è stata trovata traccia nel suo stomaco: segno che non aveva fretta e non si sentiva minacciato. La freccia che l’ha colpito a morte è invece stata scagliata da lontano e probabilmente in modo inaspettato: il suo assassino, è l’ipotesi, potrebbe dunque averlo seguito, e avere pianificato l’agguato.

Nuovi studi sul corpo di Ötzi

Gli esperti hanno pensato finora che l’ascia ritrovata vicino al corpo mummificato fosse fatta di rame “locale”. In realtà, nuove indagini condotte da un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova, hanno fatto scoprire che il rame proviene da giacimenti nella Toscana meridionale. Ötzi, dunque, 5mila anni fa, si spingeva dalle Alpi fino a sud di Firenze? E quali erano i contatti tra popolazioni che vivevano in zone distanti dello stivale? Interrogativi per ora senza risposta.

Una nuova tomografia computerizzata di Ötzi, realizzata nel 2013 con un apparecchio di nuova generazione che ha permesso di realizzare una scansione completa, dalla testa ai piedi, ha evidenziato tracce di arteriosclerosi nei vasi del cuore, oltre a quelle già note. Questi dati clinici, oltre alle analisi genetiche, testimoniano che l’uomo di Similaun aveva una forte predisposizione alle malattie cardiocircolatorie.

I ricercatori hanno paragonato particolari marcatori del DNA mitocondriale della mummia con oltre mille campioni moderni e sono arrivati a concludere che quel DNA non si trova nella popolazione contemporanea, in pratica è estinto. Altre analisi indicano che per parte di padre gli antenati di Ötzi venivano dal vicino Oriente, ed erano arrivati sulle Alpi con le migrazioni dell’età neolitica, circa 8mila anni fa. Per parte di madre, invece, gli ascendenti di Ötzi erano di una popolazione di origine locale.

Gli abiti di Ötzi erano fatti di una combinazione di pelli e pelliccia di cinque diversi animali, oltre che di erbe intrecciate. In testa portava un berretto di pelliccia di orso bruno che secondo le analisi genetiche proveniva dall’Europa occidentale. La sopraveste era di strisce di pelle di pecora e di capra, ordinate in sequenze chiare e scure, quasi a dimostrare certo gusto estetico, rammendata con fili d’erba. I gambali erano fatti nello stesso modo. Aveva anche un perizoma, sempre di pelle di pecora. Le calzature avevano una suola “isolante” di erba secca, e tomaia di pelle di cervo, mentre i lacci erano realizzati in pelle bovina.

I primi studi individuarono sul suo corpo un numero variabile, tra 49 e 57, piccole incisioni della pelle su cui veniva strofinato del carbone vegetale. Un’analisi successiva ne ha trovati 61, in corrispondenza del torace e della schiena, sul polso sinistro, sul ginocchio destro, sui polpacci e sulle caviglie: ad eccezione di due croci, si tratta per la maggior parte di segni costituiti da brevi lineette disposte parallelamente. Un’ipotesi è che i tatuaggi avessero una funzione terapeutica, simile all’agopuntura, ma il dibattito sul loro significato è aperto.

Ötzi: l’uomo di Similaun was last modified: marzo 26th, 2017 by L'Interessante
26 marzo 2017 0 commenti
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Quaresima
CulturaIn primo piano

Quaresima. Che cos’è e come funziona

scritto da L'Interessante

Quaresima

 

Di Antonio Andolfi

La quaresima è il periodo liturgico di conversione e penitenza rituale che precede la Pasqua. Inizia con il mercoledì delle ceneri e si conclude dopo 40 giorni, il Giovedì santo. 

In questo periodo i cristiani sono invitati a vivere la loro fede in modo più forte attraverso le liturgie penitenziali, i pellegrinaggi in segno di penitenza, le privazioni volontarie come il digiuno e l’elemosina, la condivisione fraterna (opere caritative e missionarie).

 Concretamente i precetti da vivere in questi 40 giorni si sono limitati notevolmente negli anni. Oggi è prevista soltanto l’astensione dalle carni durante i venerdì di Quaresima (per ricordare la morte di Gesù) e il digiuno in due giorni particolari: il mercoledì delle ceneri e il Venerdì santo. Il digiuno consiste nel mangiare soltanto un pasto completo (senza carne), limitandosi a uno “spuntino” per gli altri due pasti.

 

Digiuno e niente carni durante la Quaresima.

 

L’astinenza, in particolare dalla carne, risale all’Antico Testamento e per alcune circostanze allo stesso mondo pagano, anche se ha avuto ampio sviluppo nel monachesimo cristiano. Una severa alimentazione e il controllo della gola combatteva le tentazioni e la concupiscenza della carne, favorendo l’ascesi e il dominio dello spirito sul corpo.  

Se da un punto di vista scientifico il digiuno quaresimale può essere un toccasana per il corpo, da un punto di vista spirituale ha poco senso se non viene accompagnato dalla  preghiera a Dio e dall’elemosina: i tre elementi insieme connotano la pratica penitenziale della Chiesa Cattolica. 

 Nel medioevo l’astensione dalla carne era accompagnata anche dall’astensione dalle carni: in quaresima era proibito avere rapporti sessuali (ovviamente all’interno del matrimonio). Il Decreto del canonista tedesco Burcardo di Worms, nell’XI secolo ammoniva:

“Con la tua sposa o con un’altra ti sei accoppiato da dietro, come fanno i cani? Devi fare penitenza per 10 giorni a pane e acqua.

Ti sei unito a tua moglie mentre aveva le mestruazioni? Farai penitenza per altri 10 giorni con pane e acqua. […]

Hai peccato con lei in giorno di Quaresima? Devi fare penitenza 40 giorni con pane e acqua o dare 26 soldi di elemosina; ma se ti è capitato quando eri ubriaco, farai penitenza per solo 20 giorni”

 

Quaresima. Il mercoledì delle ceneri

 

Come detto la Quaresima inzia con il mercoledì delle ceneri quando si compie il rito dell’imposizione delle ceneri: i sacerdoti impongono sulla fronte o sul capo dei fedeli un po’ di cenere, a simboleggiare la polvere che diventeremo, e anche come esortazione alla conversione. La formula che si recita è infatti: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» oppure «Convertiti e credi al Vangelo».

 A essere bruciate e ridotte in cenere sono le palme e i rami d’olivo benedetti in occasione della domenica delle Palme dell’anno precedente.

 

Perché la Quaresima dura 40 giorni

 

Perché ricorda i 40 giorni che Gesù trascorse nel deserto, episodio narrato dagli evangelisti. Calendario alla mano, però, la Quaresima dura 44 giorni, perché le domeniche (che sono 4 in questo periodo) non contano come Quaresima: il periodo di penitenza “si interrompe” nelle domeniche che ricordano il giorno della resurrezione di Gesù.

Questa differenza di 4 giorni non c’è nel rito ambriosiano – quello in vigore a Milano e Lombardia, per intenderci – dove infatti non c’è il mercoledì delle ceneri, il carnevale dura fino al sabato, la quaresima inizia di domenica e queste ultime sono a tutti gli effetti giorni di penitenza.

 Il digiuno è importante per tutte le religioni monoteiste: i musulmani celebrano il mese di Ramadam e gli ebrei il Kippu.

Quaresima. Che cos’è e come funziona was last modified: marzo 6th, 2017 by L'Interessante
6 marzo 2017 0 commenti
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pompei
CulturaCuriositàIn primo piano

Pompei. Il vino al tempo degli antichi Romani

scritto da L'Interessante

pompei

Di Antonio Andolfi

 

Pompei è un gioiello del nostro patrimonio archeologico, uno scrigno del passato, i cui resti ci dicono tanto sulla vita degli antichi Romani.

L’attività principale di Pompei era la produzione del vino, come testimoniato da numerosi affreschi. Le viti coltivate nell’area vesuviana erano quelle ricordate da Plinio e da Columella: l’Amine gemina minor, caratterizzata da grappoli doppi; la Murgentina, uva di origine siciliana, molto diffusa a Pompei, ecc..

I vigneti sono stati piantati seguendo le tracce delle antiche viti, di cui si notano ancora i calchi in gesso ricavati riempiendo il vuoto lasciato nel terreno dalle radici che si decomposero dopo l’eruzione. I calchi delle radici sono spesso affiancati da quelli dei pali di sostegno del filare.

Ma come si produceva il vino allora?

Il vino nell’antica Pompei

L’uva raccolta era trasportata con i carri nelle fattorie (villae rusticae) dove veniva premuta e dove era conservato il vino, fino alla vendita o al consumo.

Allora immaginate, in autunno, lunghe file di schiavi rovesciavano tanta uva da delle ceste in una grande vasca. Qui altri schiavi, chiamati calcatores, pestavano quest’uva a lungo, per ore, e il succo che si formava veniva poi veicolato con dei tubi, delle condotte. Ma non è tutto.

Da un chicco pestato, infatti, si può ancora ottenere del succo, e questo i Romani lo sapevano bene, ma come? Con un torcular, cioè un torchio.  Allora raccoglievano le vinacce, cioè la polpa, le bucce, e lasciavano macerare per qualche giorno, e questo rendeva il tutto molto più liquido, quindi più facile da spremere, poi lo accumulavano all’interno di contenitori, e già il peso della trave cominciava a schiacciare le vinacce, poi grazie ad un sistema a verricello, bastava tirare delle leve e si aumentava la pressione all’inverosimile, fino ad ottenere l’ultimo succo possibile dalle vinacce. E questo liquido correva in una grondaia, in una canaletta laterale fino ai dolia delle celle vinarie, cioè esattamente lo stesso percorso fatto dal liquido ottenuto pestando con i piedi l’uva.

Ma cosa accadeva a questo punto?

Bisognava lasciare i dolia aperti, assistere alla fermentazione , una fermentazione che per 10 giorni doveva essere molto violenta, quasi un ribollire, poi la si controllava per un’altra ventina di giorni, e poi si richiudevano i dolia con dei grandi coperchi in terracotta, e sopra si mettevano delle altre coperture, simili a degli scudi protettivi. E a questo punto cominciava la maturazione, era un processo che poteva durare mesi o addirittura anni.

Com’era il vino a Pompei

Allora non esisteva il novello, il vino solitamente dopo una vendemmia autunnale, veniva consumato non prima della primavera seguente, ed era molto apprezzato quello invecchiato qualche anno, 2, 3, solitamente, 5, 10 già era un’ eccezione, e di solito invecchiavano dentro le anfore, nei depositi, in soffitta o nei lunghi trasporti nell’Impero. Solo eccezionalmente si potevano trovare dei vini invecchiati qualche decennio.

In generale i vini dei Romani erano assai diversi rispetto ai nostri, quasi sempre avevano un’altissima gradazione, e alcuni avevano addirittura la consistenza del miele e quindi bisognava allungarli con dell’acqua gelida d’inverno e acqua bollente d’estate. Inoltre, dal momento che si spremevano assieme i chicchi e i rametti, cioè i raspi, il vino che ne usciva, era un vino amaro, bisognava correggere, lo si correggeva in generale con molti sistemi, a volte si mettevano anche delle spezie o addirittura del piombo. Il piombo, infatti, produce, se rimane all’aria una patina biancastra che è dolce, e così si faceva permanere il vino in contenitori di piombo, e questo aiutava il gusto, ma certo non la salute.

Insomma grazie ai resti archeologici è possibile scoprire uno spaccato della vita quotidiana a Pompei, pensate, tutto questo è avvenuto poco prima che il Vesuvio con la sua eruzione cancellasse tutto. Ma ora grazie agli archeologi, possiamo rivivere quelle storie che rimarranno per sempre scolpite nel tempo e nella memoria.

 

 

Pompei. Il vino al tempo degli antichi Romani was last modified: febbraio 27th, 2017 by L'Interessante
27 febbraio 2017 0 commenti
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sanremo
CulturaEventiIn primo pianoMusica

Sanremo: storia di una tradizione

scritto da L'Interessante

Sanremo.

di Maria Rosaria Corsino

1950.

La canzone italiana era snobbata e poco capita dalla maggioranza del popolo, che parlava solo il dialetto, e non capiva alcuni testi.

Erano gli anni delle canzoni Francesi, il trionfo mondiale di Edith Piaf con “La vie en rose”, dei ritmi latino-americani.

Quando nacque l’idea del festival della canzone Italiana, la città di Sanremo era ancora mal ridotta, con tanti problemi da affrontare e risolvere. il Teatro comunale era andato distrutto dai bombardamenti, la guerra era finita da poco.

Ma c’era la volontà di uscire dall’impedimento guerresco e la città era intenzionata a riprendersi il suo ruolo principale, nel campo turistico e floricolo.

Sanremo: sessantasei anni di storia

Le edizioni del “Festival di Sanremo” degli anni 70 furono determinate da diversi eventi, spiacevoli e di contestazione.

Nel 1972 lo sciopero dei cantanti.

Furono gli anni della televisione a colori, e del dilagare nelle discoteche della “febbre del sabato sera”.

La cultura Italiana, era in evoluzione.

La crisi a Sanremo si fece sentire, per diversi anni, il festival non era più l’evento nazionale, e la televisione manifestò poco interesse, così fece anche il gran pubblico. Il decennio, restò impresso come il più basso, insignificante per le manifestazioni canore di quegli anni. Nel 1977 ci fu il cambiamento di sede. La manifestazione canora si spostò dal Casinò Municipale al teatro dell’ Ariston, e la Televisione mandò in onda il primo Festival a colori.

Nel 1979 ci fu un grande evento a Sanremo, con la presenza di Stars Internazionali come Tina Turner e Kate Bush.

I Festival degli anni 70, però, produssero per il mondo musicale grandi cantanti della canzone Italiana, come Lucio Dalla e la combinazione Mogol -Battisti.

Il 1970 vide la nascita del gruppo Ligure “I Ricchi e Poveri” dopo la loro partecipazione al festival del 70 e del 71, infatti, diventarono il gruppo più popolare d’Italia.

Gli anni ottanta furono incisivi per il rilancio del Festival di Sanremo.

L’ evento della Televisione commerciale fu la molla che determinò la competizione.

Tornarono anche i personaggi del Festival, si produssero più spettacoli, e si ritornò a parlare di nuovo di Sanremo e della canzone Italiana, e la non dimenticata frase,”tanto si sa sempre prima chi vincerà il Festival”.

La rinascita del Festival di Sanremo, con il ritorno in gara dei big della canzone Italiana, e l’intervento degli ospiti internazionali, attribuì un qualcosa in più alla manifestazione, che riprese possesso della sua funzione, imponendosi come evento più importante e seguito dal gran pubblico.

Gli anni novanta, lanciati verso il duemila, furono il decennio, dei molti cambiamenti per la manifestazione canora. Fu abolito il Play-back, e le Orchestre che accompagnarono i cantanti nell’esibizione tornarono di nuovo di moda

Per il quarantennale del Festival, la manifestazione fu spostata nella mega struttura in Valle Armea: si trattò del Palafiori.

Fu considerata una “pazzia” del Patron Adriano Aragozzini, che riuscì a trasformare uno stanzone vuoto, in un teatro pronto ad accogliere cinque mila persone. Il Patron ebbe tutti contro, convinti che avrebbe fallito in quell’impresa che sembrava impossibile

Invece dovettero dargli ragione: infatti invitò e portò nella città dei fiori e delle canzonette, grandi nomi della musica Internazionale, e la manifestazione riuscì perfettamente.

La canzone Italiana in questi anni, percorse il mondo intero.

Sanremo: storia di una tradizione was last modified: febbraio 11th, 2017 by L'Interessante
11 febbraio 2017 0 commenti
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blue jeans
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

I blue jeans nati in Perù, 6000 anni fa

scritto da L'Interessante

Blue Jeans

di Antonio Andolfi

I blue jeans che conosciamo sono un’invenzione del diciannovesimo secolo, ma il loro colore ha origini decisamente più antiche. E non stiamo parlando dei primi tessuti blu da cui ha origine il termine blue jeans.

Tracce di blu indaco, il pigmento di origine vegetale usato per tingere il denim, sono state individuate su cinque di otto campioni di tessuto di cotone ritrovati nel 2009 nel sito di Huaca Prieta, nel nord del Perù. Lo studio della George Washington University (USA) è stato pubblicato su Science Advances. 

Blue jeans. Il colore originario

 

Le stoffe, forse quel che resta di antiche sacche, sono state preservate dal clima secco e risalgono a un periodo compreso tra i 6.200 e i 1.500 anni fa.

Analizzandole con una tecnica chiamata cromatografia liquida ad alta prestazione, è stato possibile individuare, sotto secolari strati di sporco, tracce di indigotina e indirubina, le componenti chiavi dell’indaco, che si ricava dalla fermentazione di foglie di diverse piante (tra cui la Indigofera tinctoria).

Finora il più antico utilizzo noto di questo pigmento risaliva all’Egitto di 4.400 anni fa. 

 L’indaco era uno dei pigmenti più pregiati dell’antichità e la sua presenza è attestata in Cina, Nord Africa e Sud America: qui, a quanto pare, fu utilizzato per le prime volte. La costa settentrionale del Perù è anche nota per essere stata una delle più antiche “culle” di domesticazione del cotone. Per molti versi questa regione è dunque la patria storica dei jeans.

I blue jeans nati in Perù, 6000 anni fa was last modified: dicembre 20th, 2016 by L'Interessante
20 dicembre 2016 0 commenti
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anfiteatro
CulturaIn primo piano

Anfiteatro di quella che fu Capua: tra storia e leggenda

scritto da L'Interessante

Anfiteatro

Di Maria Rosaria Corsino

La storia, l’arte, l’archeologia sono materie così interessanti che sembrano non bastare mai.

Passeggiare tra maestosi monumenti architettonici, inciampare in un sassolino millenario e invocare gli dei pagani, è sempre una grande emozione.

A Santa Maria Capua Vetere, avvolto da un’atmosfera quasi magica e circa tre o quattro bar, sorge il mastodontico anfiteatro

Risalente circa alla fine del I secolo, viene fatto costruire da Augusto dopo la vittoria ad Azio da una colonia conquistata,  fatto restaurare da Adriano e  inaugurato da Antonio Pio.

Secondo solo al Colosseo, l’anfiteatro campano è noto a livello mondiale per la grande storia (mescolata a molti ingredienti di fantasia) di Spartaco.

Di origine Tracia, assodato nell’esercito romano, fugge non riuscendo a sopportare la disciplina ferrai a cui è sottoposto.

Catturato e considerato disertore, viene ridotto in schiavitù e venduto a Lentulo Batiato che gli da il soprannome di Spartacus.

Viene così introdotto in quella che è la più grande scuola di gladiatori.

Inutile soffermarci troppo su ciò che è un gladiatore: un lottatore, tendenzialmente schiavo o ex soldato assetato di voglia di combattere, che ha come arma una piccola spada, il gladio.

Ma la vita dei gladiatori è tutt’altro che facile, ecco perché nel 73 a.C. Spartaco scappa insieme ad altri 70 compagni iniziando quella che verrà poi ricordata come la “Terza Rivolta Servile” che si conclude nel 71 a.C con la sconfitta dei ribelli.

Dopo questo grande momento di gloria però, l’anfiteatro perde colpi.

Viene distrutto prima dai Vandali di Genserico e poi dai Saraceni, mentre i Longobardi lo usano come cava di marmo e come fortezza.

I Borbone metteranno fine alla sua distruzione dichiarandolo monumento nazionale.

Ad oggi è uno dei monumenti più apprezzati nel territorio campano.

Circondato da tanto verde, tanta storia e tanti anziani, è veramente un posto degno di essere visitato.

 

Anfiteatro di quella che fu Capua: tra storia e leggenda was last modified: settembre 5th, 2016 by L'Interessante
5 settembre 2016 0 commenti
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dracula
CulturaIn primo piano

Dracula nel centro storico di Napoli

scritto da L'Interessante

Dracula

Il sanguinario, che si nutre di sangue di vergini.

La storia di Dracula in realtà affonda le sue radici nell’omonimo romanzo di Bram Stoker che trova le sue fonti in una tradizione folkloristica molto lunga

Vlad III Tepes, conte di Valacchia, fu fatto prigioniero e portato a Costantinopoli  dove si ritiene abbia imparato la tecnica dell’impalamento. Ma cosa ci fa un sovrano appartenuto ad un’area geografica così lontana a Napoli? Il ritrovamento è stato fatto a Santa Maria La Nova nei pressi del centro storico ove una tomba sembra riportare quelli che sono i segni distintivi della sua dinastia.
Il rilievo presente al centro, rappresentante un dragone e uno stemma, potrebbe stare a indicare l’unione in matrimonio di Maria, figlia di Vlad giunta a Napoli per fuggire alle persecuzioni dei turchi, e di un membro della famiglia Ferrillo.
Il dragone si rifà però anche a quello che era l’Ordine del dragone, una congrega di nobili che si battevano contro le eresie e di cui avevano fatto parte anche il padre di Vlad III e il sovrano Aragonese, Ferrante.
Le due sfingi che si trovano invece a lato richiamano all’antica città di Tebe, la cui pronuncia era Tepes, altro riferimento al Conte e i piccoli templi indicano quelli che sono luoghi sacri in Valacchia. La teoria più accreditata è che la figlia Maria abbia portato il corpo del padre deceduto in città per preservarlo.

All’interno della Chiesa si trova poi un affresco in una lingua che non è stata ancora decifrata e si crede che sia un messaggio in codice dei cavalieri scritto dai Cavalieri del Dragone.

Maria Rosaria Corsino

Dracula nel centro storico di Napoli was last modified: maggio 2nd, 2016 by L'Interessante
2 maggio 2016 0 commenti
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archivio
CulturaEventi

Archivio storico del Banco di Napoli: porte aperte

scritto da L'Interessante

Archivio Storico del Banco di Napoli

Da questa mattina , con ingresso gratuito per i primi due mesi, si apriranno le porte dell’ archivio storico del Banco di Napoli, un’opportunità di screening tutta multimediale.

 La visita guidata garantirà un’ immersione totale nell’ enorme schedario degli antichi banchi pubblici: si tratta di un racconto inusuale, di trame reali tessute sui fatti storici del 1539. È un crocevia suddiviso in 330 stanze di realizzazione cinquecentesca; ad accoglierle l’antico Palazzo Ricca di Via dei Tribunali, distante pochi metri da Castel Capuano che, dopo Castel dell ’Ovo, è la più antica struttura partenopea di origine normanna.

Di proprietà della fondazione Banco di Napoli è una realtà, quello dell’archivio in questione, che vanta dimensioni non paragonabili alle altre fonti di stessa natura sparse per il mondo.

Nasce con finalità puramente filantropiche, indirizzate verso il sostentamento delle precarie condizioni economiche in cui versava la fascia medio bassa della popolazione.

Un obiettivo presto realizzato, infatti i banchi si rivelarono sin da subito una colonna portante su cui si erse lo sviluppo economico della città. Negli anni divenne addirittura una fortezza economica al cospetto dell’economia mondiale, tanto da rendere Napoli il fulcro su cui  equilibrare i rapporti finanziari nazionali ed internazionali.

Le stanze dell’archivio sono una cassaforte inestimabile, custode di volumi originali e le bancali degli otto banchi pubblici, che furono assoluti protagonisti degli scambi fra il mezzogiorno e le altre realtà geografiche sin dal 1539.

“Il progetto de ilCartastorie museo multimediale permanente – ha spiegato il presidente della Fondazione Banco di Napoli Daniele Marrama – si instilla in un quadro più ampio di iniziative già sperimentate, come i laboratori di scrittura creativa, poetica e di teatro, ideati per far conoscere a napoletani e turisti un luogo unico dove sono conservati documenti bancari che vanno dal 1500 ad oggi”.

Durante l’itinerario, lo sguardo catturerà vere e proprie opere d’arte, si scannerizzeranno non solo gli aspetti dell’economia dell’epoca, ma irromperanno come meraviglie sfumature mai viste sui costumi di quei tempi. Tra i protagonisti per antonomasia, spiccheranno gli espedienti artistici di Caravaggio e le peculiarità legate all’attività del principe di Sansevero.

Sarà interessante venire a contatto, attraverso il filtro ottico dei banchi, con le storie di sfida e coraggio, di amori e sconfitte vissute dalla gente comune fra le frattaglie sociali, culturali ed economiche di molti secoli fa.

 Un buco della serratura rispettoso, quindi, in cui infilarsi in punta di piedi per godere del profumo di una parte significativa della nostra antica identità.

Michela Salzillo

 

Archivio storico del Banco di Napoli: porte aperte was last modified: marzo 30th, 2016 by L'Interessante
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Stirpe dei Draghi: il mito continua

scritto da L'Interessante

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Inaugurata sabato 19 marzo la mostra Stirpe dei draghi ed è già boom di visitatori

La storia infinta della Saticula, tanto cara al Touring Club Italiano, irrompe nuovamente sulle scene della cittadina considerata erede del nucleo preromano. Nella tiepida giornata di sabato 19 marzo 2016 si è, infatti, tenuta la conferenza stampa della mostra “Stirpe di draghi”, realizzata nell’ambito del progetto “Suoni di terra nei luoghi  dell’Arte”. L’evento-mostra riporta in “patria”un altro capolavoro di questo maestro pestano: un vaso a figure rosse che si collega al cratere esposto a Sant’Agata de’ Goti dal dicembre 2014 al maggio 2015. Il precedente cratere raffigura i mito del “ratto di Europa” ad opera di Zeus,trasformatosi in un toro bianco e possente. Il vaso attualmente in  esposizione (proveniente dal Museo Nazionale di Napoli) restituisce, quindi, uno dei racconti più completi di questa parte del mito. Ritrae, infatti, Cadmo, il fratello di Europa, alla vana ricerca della fanciulla. Dopo aver consultato l’oracolo delfico si imbatte in un drago spaventoso che riesce a sconfiggere e, su consiglio di Atena, semina i suoi denti nel terreno dai quali spunteranno uomnini armati delle nuova città di Tebe.

La mostra assume un’atmosfera suggestiva anche grazie agli effetti scenici superbi, coadiuvati dalla società che si occupa dei percorsi di luce della Reggia di Caserta. 

Saticula, uno dei centri principali del Sannio Caudino, è stata depredata per secoli.  I suoi tesori, rinvenuti grazie agli scavi all’interno della ricca necropoli, sono stati in gran parte dispersi in Musei italiani ed esteri e ancor oggi, purtroppo, oggetto di trafugamento da parte di scavatori clandestini. Emblematico è proprio l’esempio del primo cratere in esposizione lo scorso anno, venduto da un tombarolo dietro compenso di un milione di lire e un maialino e poi esposto fino al 1981 al Getty Museum di Malibu. Questa seconda mostra segna un passo importante verso la promozione di un territorio di arte e di storia e di un patrimonio archeologico, quello di Saticula, dal valore inestimabile.

Carmen Giaquinto

Stirpe dei Draghi: il mito continua was last modified: marzo 24th, 2016 by L'Interessante
24 marzo 2016 0 commenti
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