Sala d’attesa
Cari lettori interessati in questi giorni ho molto girato per strutture medico veterinarie, come amico di un “paziente” collie ed ho avuto modo di osservare- spogliato dall’abito professionale- le scene che capitano frequentemente in una sala d’attesa.
Vorrei condividere con voi delle domande che mi sono rimbalzate in mente dopo quei momenti.
Partiamo con la prima che mi ha molto scosso.
La scena: un setter inglese con otite, agitato per il dolore e per la preoccupazione della visita- che lo rendeva nevrile e cinetico- insieme al suo proprietario il quale continuava a chiedergli di star seduto, strattonandolo e costringendolo a star fermo. Era un continuo manifestare disagio del setter mentre il cieco proprietario esibiva la sua voce forte ed austera. Rivolgendosi al resto degli astanti: “E’ maleducato, ha la testa dura”.
Assenza di empatia. Non riconoscimento dei segnali di disagio. Assenza di cura. Non riconoscimento del bisogno di protezione. Due mondi incompresi. Anzi uno, quello del cane.
Quei “padroni” cosa avevano capito di quello splendido e rassegnato setter?
Ho avvertito un freddo notevole in quella situazione.
Seconda scena. Nella sala d’attesa di un’altra clinica un proprietario descriveva il suo precedente cane: “Era un bellissimo husky, aveva un pelo come pochi. Era intelligentissimo e addestrato- sapete- poteva fare il seduto terra e resta. Me lo chiedevano anche per le mostre. Peccato non avesse il pedigree”. E la descrizione continuava con il sottolineare l’eccellenza di quel (s)oggetto.
Ci fosse stato un passaggio al loro vivere insieme, al suo carattere, al suo modo di giocare. Alle esperienze vissute in condivisione.
Quanto quei proprietari avevano bisogno di esibire quel soggetto? Quanto si divertivano assieme?
Ho avvertito un senso di rabbia per quella strumentalizzazione del cane.
Terza scena.
In una clinica romana, signora anziana stringeva a sé il suo bichon frisé. Maschio intero, 2 anni.
La signora continuava a tenerlo in braccio, mentre il bichon manifestava insofferenza in quella situazione, volendo stare a terra, nel tentativo di conoscere gli altri cani. Peraltro pacifici.
“Stai qui con me, tu sei piccolino, non puoi giocare con loro, non vedi quanto sono grandi, ti farebbero male. Ti proteggo io, piccolo mio”.
Un cane a due anni è fisiologicamente e mentalmente adulto; avremmo tenuto in grembo un figlio di 25 anni in una sala d’attesa- e lui come si sarebbe sentito?
Ho avvertito un senso di solitudine per la signora e di “sostituzione” per quel bichon.
A volte penso che quello che più pesi in una relazione uomo- cane sia l’egocentrismo del primo.
Se non ci si mette in discussione non ci si può definire amici dei nostri cani. Bisognerebbe smetterla.
Un amico conosce, comprende, accoglie, sostiene. Magari rimprovera, a volte non condivide, esprime dissenso e prende distanza. Ma ciò non rappresenta la direttiva del rapporto.
Visto dagli occhi del cane- come ho notato in quei momenti- noi umani siamo veramente degli arroganti e ciechi “padroni”.
Investite nelle vostre relazioni. Ibridatevi. Contaminatevi. In emozioni e vissuti. Se non siete pronti e disposti a farlo ricordatevi che non è obbligatorio avere un cane.
Noi possiamo scegliere. Loro meno.
Luigi Sacchettino