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Curiosità

cane
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Tu mi ignori, io soffro Ansia da separazione nel cane e stili di attaccamento dei proprietari

scritto da L'Interessante

Cane.

Di Luigi Sacchettino

Cari lettori interessati questa settimana continuiamo a parlare dell’influenza che il comportamento del proprietario può avere sullo sviluppo di alcuni stati di disagio nel cane

Dopo aver riportato lo studio sul proprietario aggressivo, ci spostiamo su quello evitante.

Lo studio a cui faccio riferimento è stato pubblicato nel febbraio 2015 su Plus One, ad opera del dipartimento di etologia, Università di Budapest, con la firma di Veronika Konok, András Kosztolányi, Wohlfarth Rainer, Bettina Mutschler, Ulrike Halsband,  Ádám Miklósi.

Come abbiamo potuto notare precedenti ricerche avevano suggerito che l’atteggiamento dei proprietari verso i loro cani  poteva  contribuire ad una varietà di problemi di comportamento del cane;  gli autori di suddetto studio presuppongono che cani con disordini correlati alla separazione chiedano sostegno in maniera differente al proprietario rispetto a ciò che avviene in cani definiti “normali”.

La ricerca ha suggerito che questi cani possano avere uno stile di attaccamento insicuro. Nel presente studio veniva investigato se lo stile di attaccamento e i tratti di personalità del proprietario nonché la personalità del cane potessero influenzare il verificarsi di un evento d’ansia in seguito alla separazione. Veniva sottoposto a circa 1500 proprietari un questionario  con una serie di domande per investigare il rapporto col proprio cane e si è così scoperto che  i proprietari con il punteggio più alto mostravano un  attaccamento evitante, che era in relazione con un aumento degli eventi di ansia da separazione.

I risultati hanno suggerito che i proprietari con un attaccamento evitante possano facilitare lo sviluppo dell’ansia da separazione nei cani. Si è presunto che i proprietari evitanti siano meno sensibili alle esigenze del cane e non riescano ad essere una base sicura per il proprio cane quando necessario. Come risultato i cani formano un attaccamento insicuro e possono sviluppare più facilmente tale alterazione. Gli autori hanno aggiunto che ci possano essere spiegazioni alternative dei risultati e che le discussioni e studi a riguardo siano in evoluzione.

Insomma, è tutto in divenire. Ma qualcosa torna. Partiamo prima dagli umani: cosa s’intende per  attaccamento evitante?

Ce lo sintetizza egregiamente Grazia Attili, nel suo libro Attaccamento e Amore.  A  partire dagli studi dell’etologia, l’autrice spiega le radici biologiche che stanno alla base delle  relazioni affettive e sessuali e ripercorre tappe e snodi dei legami di coppia.

“Per attaccamento verso una persona- spiega l’Autrice- s’intende quel sentimento che si prova quando ci sentiamo legati a qualcuno per sicurezza ed abitudini e può essere declinato in vari stili”. Quello a cui fa riferimento lo studio cane- proprietario è di tipo evitante/distanziante e in un rapporto madre- figlio umano comporterebbe:

  • una madre che non forma una base sicura e forma nel figlio l’idea che non è degno di essere amato;
  • una madre che lo vuol far diventare presto “ometto “;
  • una messa in atto di falsa autonomia (negazione dei bisogni);
  • il bambino viene spinto ad essere il più bravo e cresce il senso di competizione in lui, è solo abituato ad obbedire agli ordini del genitore;
  • nei rapporti da adulto non chiederà nulla a nessuno perché crederà che gli altri non sono disposti ad aiutarlo;
  • sopprime le sue emozioni per non essere “rifiutato“, rifiuta i sentimenti e li ritiene ridicoli;
  • è pronto ad usare gli altri, attribuzione di interesse e disvalore degli altri.

 E’ vero che gli studi sull’attaccamento tra uomo e cane hanno bisogno di ulteriori investigazioni ma volendolo trasporre questi punti nel rapporto cane proprietario cosa descriveremmo?

Il  proprietario che esce senza salutare il suo amico a quattro zampe.

Rincasa senza salutarlo.

Il  cucciolo che non può sbagliare perché deve crescere in fretta; non sono concesse  esplorazioni, deiezioni fisiologiche, utilizzo della bocca.

Il  cane guarda ripetutamente il proprietario- o gli va vicino- quando è in difficoltà e il proprietario resta immobile.

Se il suo cane fa rissa al parco l’umano non sostiene né lo accoglie, ma rimprovera direttamente senza cercare di capire cosa può essere successo.

Il cane richiede attenzioni e il proprietario lo ignora, nonostante il disagio del cane cresca.

Il cane raggiunge il proprietario, che guarda la tv mentre è steso comodamente sul divano, per il momento coccola ma quest’ultimo lo ignora o si alza e se ne va.

Il proprietario imposta la relazione soltanto sulla sfera comandi.

Il cane che vive in giardino in isolamento sociale, la cui unica compagnia è rappresentata dai sette nani.

Insomma, la lista è lunga.

Un attaccamento evitante potrebbe quindi aumentare lo stato d’ansia del nostro cane.

Il quale non ha scelto di vivere con noi. Non è venuto da solo a casa nostra. Non è fuggito

dal canile per raggiungerci. Non ci ha acquistati in allevamento.

E’ stata una nostra scelta di responsabilità.

Tocca a noi trovare il tempo e le risorse per il suo benessere. E per farlo ci vuole la capacità di imparare a leggere la mente dell’altro.

Per farlo, bisogna essere una base sicura e di sostegno allo sviluppo.

È facile demolire; il difficile è far crescere.

Tu mi ignori, io soffro Ansia da separazione nel cane e stili di attaccamento dei proprietari was last modified: gennaio 20th, 2017 by L'Interessante
20 gennaio 2017 0 commenti
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amore
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Amore: un caso del destino. La leggenda del filo rosso

scritto da L'Interessante

Amore.

Di Michela Salzillo

Il cuore è una lingua, comincia a parlare prima che subentri in noi la parola, il concetto definito, quello che spesso complica le cose. Non c’è grammatica che sia più difficile di quella parlata dai sentimenti, e lo impariamo quasi subito: ce lo insegnano gli imprevisti non calcolabili, quelli che di solito arrivano per scomporci le abitudini e le convinzioni. È negli improvvisi giusti che cominciamo a capire quanto sia fondamentale l’amore, non importa se non sappiamo bene come chiamarlo, quale vestito fargli indossare o quale camera mettergli a disposizione, perché il cuore di queste cose non sa nulla, conosce solo l’urgenza di dare o restituire vita, e lo fa a prescindere da ogni ragionevole limite. Non è una cosa semplice l’amore, confina spesso con l’innamoramento, la passione, e a volte ci confonde: è un movimento universale, una legge senza deontologie precise; è una energia ciclica e rigenerante che, come qualcuno scriveva, move il sole e l’altre stelle. È un legame che lascia liberi; è un bisogno senza dipendenza; è un divertimento, anche un impegno, in grado di appagare l’anima, e quando da cosmico si trasforma nella viva presenza di qualcuno, in grado di essere il nostro fianco irrinunciabile, diventa subito il desiderio perfetto verso cui conciliamo tutti i nostri migliori intenti. A volte è anche doloroso, e forse non c’è nulla di sbagliato in questo: gli amori non corrisposti, ad esempio, non sono di certo il migliore augurio da fare, agli altri come a sé stessi, ma è proprio attraversando questo tipo di dimensione che si impara ad assaggiare il frutto maturo del sentimento; in questo modo si giunge a capire che di certo l’amore è la regola delle nostre più profonde volontà, ma lo stare insieme è una eccezione che spesso sbaglia i tempi. La difficoltà, infatti, non è trovare l’amore, ma scorgere qualcuno che si innamori di noi nell’ istante in cui ci accade la stessa cosa, e che poi resti a viaggiare sul nostro stesso binario, al medesimo ritmo delle nostre esigenze. Detta così, sembra la cosa più complicata del mondo, soprattutto per chi ha collezionato più amori sbagliati che gioie da cofanetto, ma state tranquilli!  Anche in questo caso la speranza è pronta a morire per ultima, a dirlo è una bellissima leggenda cinese a cui, sognatori o no, vale la pena dar credito.

Siamo destini che si uniscono: per trovare l’ amore basta seguire un filo rosso

Secondo un’antica leggenda, che le maggiori testimonianze fanno confinare con la tradizione cinese – poi adottata anche dal Giappone – ci sarebbe un filo rosso in grado di legare le persone destinate a incontrarsi: a prescindere dal tempo, luoghi o circostanza. Il filo può allungarsi, aggrovigliarsi, ma non potrà mai spezzarsi. Anche se le due anime non dovessero mai arrivare a incontrarsi, il filo resterà sempre attaccato alle loro dita, invisibile, nascosto ai loro occhi.

 

C’era una volta… un bellissimo racconto d’ amore

  C’era una volta, un uomo di nome  Wei, che – rimasto orfano di entrambi i genitori quand’era ancora un bambino – aveva maturato negli anni un unico  desiderio: quello di sposarsi e costruire una grande famiglia; nonostante gli sforzi e le buone intenzioni, però, era giunto all’età adulta senza essere riuscito a trovare una donna da prendere in moglie.

 Un giorno, durante uno dei sui viaggi, il giovane Wei incontrò, sui gradini di un tempio, un anziano scrupolosamente impegnato a consultare un libro. Wei, incuriosito, chiese all’uomo cosa stesse leggendo; l’anziano, che si identificò come il Dio dei matrimoni, dopo aver adocchiato una pagina del volume, confessò a Wei di conoscere l’identità della donna che gli sarebbe rimasto a fianco per tutta la vita.

Durante la visione, però, tenne a specificare che al momento era una bimba di soli tre anni, quindi avrebbe dovuto attenderne altri quattordici prima di riuscire a conoscerla. Wei, nonostante fosse rimasto deluso dalla risposta, chiese cosa contenesse il sacco che aveva notato già da prima alle spalle del saggio; l’uomo rispose che lì dentro era custodito del filo rosso, destinato a legare i piedi di mariti e mogli. Un filo invisibile e impossibile da tagliare, in modo da permettere alle due persone legate tra loro di sposarsi.

Quelle parole, indubbie portatrici di un ottimo messaggio, non furono per nulla di aiuto a  Wei che, per sentirsi libero di scegliere da solo, senza il vincolo del destino, la donna da sposare, ordinò al suo servo l’ uccisione della  bambina destinata a diventare sua sposa,almeno secondo quanto raccontato dal vecchio saggio. Il servo, come richiesto, pugnalò la bambina, ma non la uccise: riuscì soltanto a ferirla alla testa.

 Wei, dopo l’accaduto, si rassegnò a vivere la sua solita vita, confrontandosi spesso con quel  vuoto incolmabile. Quattordici anni dopo da quelle vicende, ancora celibe, conobbe una bellissima ragazza: aveva diciassette e proveniva da una famiglia agiata, fu con lei che si sposò. In tutti quegli anni sua moglie aveva sempre indossato una pezzuola sulla fronte e Wei, che ne aveva sempre rispettato il mistero, un giorno le chiese per quale motivo non  la togliesse mai, nemmeno per lavarsi. Fu così che la donna, in lacrime, raccontò che quando aveva tre anni fu accoltellata da un uomo. Il folle gesto le aveva procurato una profonda cicatrice sulla fronte, quella che per vergogna   nascondeva accuratamente sotto a delle bende.  Udire quelle parole per Wei fu come ricevere una pugnalata, in un istante si ricordò dell’incontro con il Dio dei matrimoni, di ciò che gli aveva predetto, e del successivo ordine che dette al suo servo. Confidare a sua moglie di essere stato il diretto artefice del tentato omicidio a suo danno, le parve la cosa migliore da fare. Conoscere la verità, però, non danneggiò di certo il loro amore, anzi , si rivelò un sigillo ulteriore sulla loro unione, oltre che una valida conferma del fatto che al destino nulla è impossibile.

Amore amore.

 

 

 

 

Amore: un caso del destino. La leggenda del filo rosso was last modified: gennaio 20th, 2017 by L'Interessante
20 gennaio 2017 0 commenti
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cani
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Aiuto, il mio cane non è intelligente

scritto da L'Interessante

Cani

Di Luigi Sacchettino

Cari lettori interessati è notizia di qualche giorno fa di una classifica che stila l’elenco dei cani più intelligenti: border collie, barboni, pastori tedeschi e i soliti blasonati

Quando leggo di questi notizie mi parte l’embolo, mi si gonfia la vena sulla fronte, divento verde e perdo l’aspetto zen.

Questo perché trovo la continua ricerca del maius intellettivo nei cani sterile e poco utile: un tentativo di standardizzare, incorniciare, confinare rigidamente le loro soggettive capacità cognitive.

Provo a dirvi la mia, andando con ordine. Come possiamo definire genericamente l’intelligenza?

Una delle definizione afferma che l’intelligenza è la capacità di comprendere il mondo in cui si vive e di risolvere i problemi ambientali, sociali e culturali che vengono posti in ogni momento della  esistenza.

E su questo i cani ci riescono magistralmente. Vivono in un mondo a misura d’uomo ma sono in grado di utilizzare un ascensore, salire su un autobus e scale mobili, tollerare le continue violazioni dello spazio personale da parte di estranei incrociati per strada, e soprattutto capirci molto più di come noi riusciamo a fare con loro. In questo quindi mostrano una adattabilità e flessibilità cognitiva straordinariamente lontana da quella umana. Che se solo cambia il bagno di casa, non riesce più ad esprimersi.

I test più noti su cui è stata testata l’intelligenza dei cani appartengono al neuropsicologo Stanley Coren, professore di neuropsicologia a Vancouver, e consistono nella valutazione della capacità dei cani di risolvere problemi (problem solving) e di comprendere le parole. Anche attraverso l’aderenza alle attività di addestramento. Il ricercatore sostiene che le loro capacità intellettive potrebbero essere paragonate a quelle di un bambino dai tre ai cinque anni.

Bene. Se non fosse che sono dei test ipotizzati dalla mente umana. Quindi test antropocentrici.

Mi aiutano le parole del prof. Marchesini che nel suo libro Intelligenze plurime esprime un concetto che condivido appieno: “Il problema clou, quando si parla di menti animali, resta quello dell’attribuzione delle diverse componenti cognitive evitando la deriva del confronto serrato e della messa in discussione dell’unicità dell’uomo. La difficoltà nell’analizzare gli ambiti delle funzioni menali sta nel grado di coinvolgimento avvertito dall’uomo rispetto al significato degli aspetti mentali nella definizione dell’identità umana”.

Sarebbe quindi più corretto testare le capacità del cane prendendo in considerazione un  altro modello canino. E come si fa, in una specie che conta  per l’ Ente Nazionale della Cinofilia Italiana 16 razze italiane (oltre a tutte le altre) e per la Fédération cynologique internationale più di 400 razze? Per esempio un pastore maremmano ha struttura fisica- comportamentale completamente diversa da quella di un border collie; il primo forte fisicamente, calmo, solido, autonomo nel lavoro, mentre il secondo snello, veloce, nevrile, molto più collaborativo e richiedente con l’uomo. Eppure entrambe si occupano di greggi: il primo per la custodia, il secondo per la conduzione.

Chi potremmo definire più intelligente?

Hanno motivazioni diverse nel loro assetto comportamentale. Ricercano diversamente il piacere nel mondo. Si muovono diversamente nel mondo.

Forse il border collie ci appare più intelligente perché la sua intelligenza collaborativa lo fa essere più attento a noi, ai nostro comandi e a ciò che gli proponiamo. E quindi anche ai problem solving che gli somministriamo. Non a caso il podio dei cani più intelligenti appartiene a tre razze- border collie, barbone, pastore tedesco- che mostrano una maggiore predisposizione al lavoro con l’uomo. Ma un segugio che segue ostinatamente una traccia olfattiva per km lasciandosi alle spalle l’imbranato e lento umano non lo definirei meno intelligente. E che dire di un levriero che raggiunge  circa  70 km/h? Molti umani intelligenti inciampano su un gradino figurarsi a correre a quella velocità.

“La mente opera in modo plurale perché plurali sono le prestazioni che le diverse specie, i diversi soggetti e anche lo stesso soggetto nelle diverse età, sono chiamati a compiere.  Come non è paragonabile la prestazione che compie l’arto anteriore di un chirottero da quella realizzata dall’arto di un delfino, o quella di una talpa rispetto all’elefante, o ancora, quella di un gatto rispetto a quella di un uomo, allo stesso modo nel mondo animale le diversi menti presentano complessi di performatività cognitiva assai diversi tra loro” Marchesini.

E dell’altronde questo concetto vale anche in umana. Secondo lo psicologo americano H. Gardner non esiste un solo tipo di intelligenza, ma una molteplicità di forme, ovvero potenzialità biologiche presenti sin dalla nascita che in ogni essere umano assumono una particolare combinazione di livelli di sviluppo, rendendo unico il suo profilo intellettivo.

L’evolversi di ciascuna intelligenza e il raggiungimento di gradi più o meno elevati, risulta in parte condizionato da fattori genetici, ma dipende anche dalle opportunità di apprendimento offerte da una particolare contesto culturale. Non basta, dunque, individuare le inclinazioni personali, occorre esercitarle, in caso contrario rimarranno nello stato embrionale.

Con la sua opera Gardner non ha messo in discussione soltanto la vecchia teoria di intelligenza, bensì anche i test standardizzati che sulla stessa si fondavano.

I nostri cani hanno una intelligenza e cultura soggettiva; certo qualcuno può avere dei talenti già più sviluppati di altri, qualcun altro può avere delle risorse che noi non abbiamo ancora scoperto. Qualcun altro ancora può avere delle inclinazioni da sostenere.

Quello che so è che quando giravo per boschi con la mia Shana, perdendo l’orientamento, lei sapeva riportarmi a casa. Eppure non ho mai avuto necessità di testare la sua intelligenza con dei problem solving.

“Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido” Albert Einstein

 

 

 

Aiuto, il mio cane non è intelligente was last modified: gennaio 12th, 2017 by L'Interessante
12 gennaio 2017 0 commenti
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kissenger
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Kissenger: il gadget a prova di bacio

scritto da L'Interessante

Kissenger.

Di Michela Salzillo

Lontano dagli occhi, vicino alle labbra!

Stando alle ultime iperattività scientifiche verrebbe da crederci, ma le sensazioni non sono mai state figlie dell’inconfutabile aritmetica, forse è per questo che quando Emma Yann Zhang, studentessa asiatica impegnata alla City University di Londra, ha presentato al pubblico la sua ultima creazione, qualcuno ha storto il naso con non poco vigore. Si tratta di un dispositivo particolarissimo nel suo genere che si accrediterebbe, con presunzione giustificata, il merito di ridurre le distanze fra i baci nostalgici di labbra lontane. Di fronte al  Kissenger– è questo il nome che definisce il gadget tecnologico dalle vibrazioni sensibili- la vasta gamma di emoticon e video chat appare già un cumulo di abitudini in disuso. Ma come funziona realmente il prototipo recentemente realizzato? Qual è la vera attendibilità dell’ invenzione?

Kissenger: il bacio in una protesi e le perplessità dei tradizionalisti

Presentato in Cina, nell’ambito del “ Love and Sex with Robots Conference”, Kissenger è stato definito sin da subito un ibrido molto interessante, a metà fra un gadget tecnologico e un sex toys. Il dispositivo, che non è ancora in vendita, funziona come una qualsiasi app di messaggistica ed è compatibile con il sistema operativo iOS. È già noto però che se l’inventiva dovesse diventare commerciabile, qualcosa nel progetto di conformazione attuale andrebbe senz’altro modificato. L’apparecchiatura, infatti, sintetizza la sua funzionalità attraverso l’uscita minijack, quella riservata alle cuffie per meglio intenderci, che  non è  però presente in tutti i telefoni cellulari di ultima generazione, come nel caso del modello neonato nella famiglia degli iPhone. Si tratta di un marchingegno in silicone che andrebbe installato sul telefonino come se fosse una  familiare cover: è, più banalmente, un grosso tasto-cuscinetto, posto sulla superficie  di una serie di  minuscoli  sensori che, secondo quanto dimostrato all’ evento sussual- futuristico,  serve a registrare le pressioni delle labbra, riprodotte sul terminale gemello del baciato lontano. C’è da dire che la giovane ricercatrice asiatica, pur caldeggiando in maniera entusiasta il prodotto, ha mantenuto un’ obiettiva onestà, ammettendo senza troppe ritrosie che il sistema non è in grado di restituire totalmente l’effetto del bacio; un limite   ben contrastato  dal qualificato staff che la spalleggia, il quale non ha tardato a  promette la riduzione fino ai minimi termini delle lacune sensoriali, in modo da ottenere un’ ottimizzazione che sia quanto più veritiera possibile.

 Intraprendenze di questo tipo sono delle ottime curiosità con cui giocare, ma a volte lasciano anche un po’ perplessi, specie quando ad essere intaccato è l’ambito dei rapporti umani. Nonostante siamo sempre più conformi a un’ epoca che tende a digitalizzare pure le emozioni; che si sente emancipata lontano dai citofoni che suonano e dalle lettere scritte a penna, sentir parlare di baci tecnologici fa un po’ strano anche ai nerd più incalliti. La paura forse è che ci si abitui ancora di più a certe ostilità, in fondo  dimostriamo spesso di non conoscere il senso della misura, ed il problema, se proprio bisogna ipotizzarne uno, è proprio questo: straripare fuori dall’equilibrio, abusare, rendere un’ opportunità l’ unica possibilità. È chiaro, infatti, che il danno non sta in invenzioni di questo tipo, che se considerate con estrema leggerezza possono essere anche utili, ma nella valorizzazione sbagliata che il nostro modus operandi, sbagliato in troppi casi, attribuisce loro.

Kissenger: il gadget a prova di bacio was last modified: gennaio 12th, 2017 by L'Interessante
12 gennaio 2017 0 commenti
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Insalata
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Insalata russa: è veramente russa?

scritto da L'Interessante

Insalata Russa.

Di Erica Caimi

L’insalata russa non può mancare nella moltitudine di antipasti serviti durante le feste. Ma vi siete mai chiesti perché l’insalata russa si chiama russa? Contrariamente a quanto si possa pensare, basta valicare i confini nostrani perché la sfiziosa pietanza venga servita sulle tavole con nomi differenti. In Lituania la chiamano insalata bianca, in Germania e Danimarca diventa insalata italiana e in Russia? Non sconvolgetevi, ma in Russia ve la serviranno come insalata “Olivié” e vi spieghiamo il motivo.

Insalata russa: l’inventore

Ci sono diverse teorie sulle origini del piatto e, secondo una delle più accreditate, pare che l’idea sia nata proprio in Russia, grazie alla sapiente mano del cuoco di origine francese Lucien Olivier. Il gande chef, famoso per le sue doti culinarie, negli anni ’60 del XIX secolo aprì a Mosca un ristorante di cucina francese di lusso, chiamato Hermitage. Tale era la sua bravura, che spesso veniva pagato profumatamente per preparare sontuosi banchetti nelle case dell’alta aristocrazia moscovita, che fece di lui una vera e propria celebrità, chiamandolo a organizzare ricevimenti ufficiali, come quello del matrimonio di Cajkovskij o quello in onore di Dostoevskij per esempio.

La prima insalata russa

Si narra che durante una di queste occasioni Olivier stupì i commensali inventando un pastiche di petti di pernici, quaglie e code di gamberi al vapore ricoperti da gelatina e maionese preparata con olio di Provenza, salsa che all’epoca era quasi sconosciuta in Russia. A scopo decorativo sistemò delle fettine di patate, tartufi, sottaceti e uova al centro del piatto, creando una sorta di piramide. Si racconta che uno dei commensali abbia mischiato barbaramente tutti gli ingredienti, così meticolosamente posizionati, rendendo il proprio piatto qualcosa di molto simile ad un’insalata. Olivier, orgoglioso delle sue creazioni e terribilmente permaloso, la prese male e nei giorni seguenti servì il piatto nella versione “maltrattata”, come reazione al gesto dell’uomo che l’aveva offeso sminuendo la sua opera d’arte. Il risultato fu ancor più eccezionale per lo chef: non soltanto questa rivisitazione piacque, ma fu anche l’inizio di un successo straordinario, che portò l’insalata russa sulle tavole di tutta la città. Olivier non svelò mai gli ingredienti della sua ricetta, portandosi il segreto nella tomba. Così, dopo la sua morte, avvenuta nel 1883, nessuno riuscì a riprodurre il piatto con esattezza.

La versione moderna dell’insalata russa

Come si può dedurre, la versione che conosciamo si discosta molto dalla ricetta di Olivier e questo perché gli eventi storici hanno contribuito alla modifica del piatto. Infatti, il vento comincia a soffiare in direzione opposta ai capricci della mondanità e anche il ristorante moscovita Hermitage subisce i contraccolpi della Rivoluzione russa fino a chiudere i battenti dopo cinquant’anni di veneranda e prosperosa attività (dal 1864 al 1917). Dopo la rivoluzione russa del 1917, l’influenza francese in cucina non era più vista così di buon occhio e per di più gli ingredienti costosi cominciavano a scarseggiare. Così, nasce la versione sovietica, chiamata stoličnij salat (insalata della capitale) che prevedeva il pollo al posto delle pernici, le carote grattugiate invece dei crostacei e i piselli in scatola al posto di tartufi e sottaceti. Del piatto originario restavano soltanto le patate lessate e la maionese, divenuta ormai una delle salse preferite dei russi.

Oggi, se volete ordinare un’insalata russa in Russia, dovete chiedere un’Olivié, chiamata ancora così in russo, dal nome del suo inventore Lucien Olivier. Ma non aspettatevi di assaggiare un piatto simile al nostro, perché la versione russa differisce sia nel sapore che negli ingredienti. Infatti, nella Olivié troviamo oltre a carote, piselli, patate e maionese anche cetrioli in salamoia, uova e kolbasa (una sorta di salume). Paese che vai, usanza che trovi!

 

Insalata russa: è veramente russa? was last modified: gennaio 9th, 2017 by L'Interessante
9 gennaio 2017 0 commenti
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Levrieri
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Levrieri: veloci e silenziosi come il vento! Il Dog Friendly nel nuovo anno

scritto da L'Interessante

Levrieri

Di Luigi Sacchettino

Cari lettori interessati bentrovati!

Spero che le festività siano trascorse piacevolmente e che i botti di fine anno siano stati un rognoso imprevisto gestito senza risvolti negativi.

Oggi torneremo a parlare di razze: i fascinosi e veloci levrieri. Lo faremo con la Dottoressa Alessandra Giannoccaro, medico veterinario ed educatore cinofilo, che da tempo convive con loro.

  • Grazie mille Dottoressa per aver accettato l’intervista. Cosa sappiamo circa l’ origine di questi velocisti?

“I Greyhounds e i Galgo sono due esponenti di un gruppo di cani più vasto, quello dei levrieri.

Si tratta di cani molto antichi, le cui prime raffigurazioni, ritrovate in Anatolia Centrale (sud-est della Turchia, per intenderci), risalgono al sesto millennio avanti Cristo.

Con la civiltà egizia i levrieri acquistarono un altissimo valore simbolico e religioso, come evidenziano le raffigurazioni nelle tombe dei faraoni; ed è proprio dal leggendario cane dei faraoni, il tesem, ossia la razza canina più antica che ci sia concesso di riconoscere (parliamo del 3600 a.C.) che deriverebbero tutte le razze levriere conosciute.

Per quanto concerne in particolare il greyhound, si ritiene che gli egizi abbiano fatto dono di alcuni dei loro preziosi tesem ad Alessandro Magno che ne avrebbe a sua volta favorito la diffusione nell’antica Grecia con la nascita di una nuova razza: il levriero ellenico. Questo, in tempi più recenti, avrebbe raggiunto le isole britanniche per opera dei fenici. Molti studiosi ritengono a tale proposito che il nome “greyhound” sia nient’altro che una distorsione del termine “greek-hound”.

Per quanto concerne il Galgo, malgrado la apparente notevole somiglianza, si riconosce un percorso completamente diverso e geograficamente inverso: dalla mezza-luna fertile all’Africa settentrionale e di qui direttamente alla penisola iberica.

  • Si fa presto quindi a dire levriero; ma quali sono le analogie e differenze tra le due razze?

“Le due razze si somigliano molto, ma ad un occhio attento mostrano differenze sostanziali.

Sono entrambi cani selezionati per cacciare prede veloci in campo aperto; lo scheletro è leggero ma solido, il torace profondo e il ventre retratto.

Il grey però è uno scattista, dalla muscolatura imponente, la velocità impressionante (si è misurata una velocità sul rettifilo di oltre 70km/h); i piedi, non adatti a terreni dissestati e rurali, hanno dita affusolate con unghie lunghe e robuste per aumentare la presa con il suolo e favorire la propulsione. Le orecchie sono piccole e portate indietro, mentre la coda è lunga, diritta e usata come bilanciere.

Il galgo ha una velocità inferiore ma una maggiore resistenza, con muscolatura più asciutta e piedi più compatti per muoversi agevolmente su ogni tipo di terreno; le orecchie sono più grandi e carnose e la coda ricurva in punta, tipo punto interrogativo.

Probabilmente la differenza più evidente tra le due razze sta nella corporatura in generale: semplificando un po’, pensiamo al fisico di due immensi campioni quali Bolt e Mennea: muscoloso e velocissimo il primo, magrolino ma instancabile il secondo”.

  • Quali sono le caratteristiche di razza di questi splendidi atleti?

 “Avrei talmente tante cose da dire… Riassumendo al massimo le questioni che vorrei evidenziare sono due: la prima è che si tratta di cani dalla sensibilità spiccatissima; le maniere forti sortiscono il solo effetto di impietrirli e indurli a chiudersi in una sorta di muta, incoercibile ostinazione, il che richiede un approccio coerente ma mai aggressivo, empatico e in nessun caso frettoloso. La seconda è che non ci si deve aspettare da un levriero che muoia dalla voglia di compiacerci e “obbedirci”: sono cani fieri e indipendenti, molto devoti ma mai servili. Tutti motivi che inducono gli adepti di un certo stampo di cinofilia e gli appassionati di un certo tipo di discipline cinofile a ritenere i levrieri cani “ottusi” e poco affidabili”.

  • Cosa consiglierebbe spassionatamente ad un umano che fa richiesta di adozione per un levriero?

“L’errore più comune in cui incappa chi decide di prendere per compagno di vita un levriero, ed in particolare un rescue (ossia un cane adulto con un passato di gare o attività venatoria), è pensare di poter “domare” la loro incredibile spinta predatoria! Deve sapere che ogni giorno dovrà fare i conti con questo aspetto della loro personalità.

Ovviamente sto facendo un discorso di carattere generale e che non tiene conto delle singole individualità, ma di fatto bisogna sapere che sono cani che non possono e non devono essere liberati con leggerezza: la forte autonomia e la predatorietà atavica talora, l’eco di un passato oscuro di maltrattamenti  davvero inenarrabili talaltra, possono indurli ad allontanarsi dal proprietario sordi ad ogni richiamo e, in un mondo che non è più a misura d’uomo e tantomeno di cane, spesso a mettersi nei guai.

Il gioco in corsa con i cani di piccola taglia va sempre monitorato con attenzione, potendo con facilità sfociare in una dinamica predatoria vera e propria con conseguenze facilmente immaginabili.

Infine non scegliamo un greyhound rescue se abbiamo in casa gatti o piccoli roditori: nei paesi di origine il loro allenamento viene condotto con l’ausilio di prede vive e tale convivenza risulterà pertanto inattuabile nel 99% dei casi”.

Grazie mille alla dottoressa Giannoccaro per averci aiutato a chiarire alcuni luoghi comuni circa questa razza.

In Italia ci sono ottime associazioni che si occupano dell’affido di greyhound e galgo a “fine carriera”; non vi resta che prendere informazioni, scegliere consapevolmente ed essere pronti ad accoglierli silenziosamente, lasciando loro il tempo di potersi esprimere.

Li ho visti correre senza corde, sereni, curiosi senza coercizioni o allenamenti massacranti: uno spettacolo da togliere il fiato. Libertà.

 

Levrieri: veloci e silenziosi come il vento! Il Dog Friendly nel nuovo anno was last modified: gennaio 5th, 2017 by L'Interessante
5 gennaio 2017 0 commenti
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Babbo Natale
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Babbo Natale? Porta i regali ai bambini ricchi

scritto da L'Interessante

Babbo Natale

di Antonio Andolfi

Uno studio scientifico smonta la credenza diffusa secondo cui a essere premiato è il comportamento

Non è vero che Babbo Natale porta i regali ai bambini buoni. Secondo una ricerca condotta nel Regno Unito, il comportamento non c’entra affatto, ma altre variabili hanno un ruolo importante nel determinare la frequenza delle visite. Lo studio è pubblicato sul numero natalizio della rivista British Medical Journal che ogni anno ospita ricerche condotte con rigore e precisione scientifici, ma i cui argomenti sono decisamente strani e divertenti. Come in questo caso.

L’esistenza di Babbo Natale, naturalmente, non è in discussione: gli avvistamenti da parte di adulti e bambini sono infatti numerosi e ritenuti sufficienti. I ricercatori hanno invece messo alla prova il criterio che Babbo Natale segue nel distribuire i doni, verificando se la sua presenza negli ospedali è legata alla percentuale di “bambini buoni” registrati nei rispettivi reparti di pediatria.

La “bontà media” dei piccoli pazienti è stata ricavata dal tasso di criminalità minorile registrato nell’area attorno all’ospedale e dall’assenteismo nelle scuole. È stata inoltre considerata la distanza dal Polo Nord (perché Babbo Natale potrebbe preferire habitat più adatti alle sue renne) e le condizioni socioeconomiche delle zone analizzate, dedotte da parametri come il reddito medio, il livello di disoccupazione e così via. La presenza di Babbo Natale è stata verificata in 186 ospedali del regno Unito, chiedendo ai medici e agli infermieri di turno se il personaggio sia passato il 25 dicembre 2015.

Babbo Natale. Per contratto o per il whisky

I risultati sono molto netti: «Non ci sono prove che Babbo Natale preferisca i bambini buoni» si legge nello studio. La frequenza delle visite, infatti, non era legata né al tasso di criminalità né all’assenteismo scolastico. 

A contare, invece sono le condizioni socioeconomiche: Babbo Natale, infatti, preferisce i bambini ricchi, mentre visita meno spesso quelli ricoverati in ospedali che si trovano in zone disagiate.

Per i ricercatori, ci sono due possibili spiegazioni. La più probabile è che Babbo Natale abbia un contratto che lo obbliga a rispettare lo status quo: ovvero, a dare di più ai ricchi e meno ai poveri, per non turbare l’ordine sociale.

La seconda è che nei reparti ospedalieri delle zone più agiate il whisky e i dolcetti lasciati per lui dai bambini siano migliori. Fortunatamente, comunque, dove Babbo Natale non arriva, altri personaggi vanno a tappare il buco, svolgendo uno splendido lavoro.

I più attivi sono, nell’ordine: gli elfi, i clown, i calciatori, Elsa di Frozen e i vigili del fuoco.

«Sorprendentemente, invece, non è stata trovata nessuna relazione fra la frequenza delle visite e la distanza dal Polo Nord» scrivono i ricercatori; «mentre la presenza quasi simultanea di Babbo Natale in molti luoghi conferma che il tempo e lo spazio non rappresentano per lui un limite, e che Babbo Natale è perfettamente in grado di distribuire doni in tutto il mondo nell’arco di 24 ore».

Babbo Natale? Porta i regali ai bambini ricchi was last modified: gennaio 2nd, 2017 by L'Interessante
2 gennaio 2017 0 commenti
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fiaba
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

E’ una fiaba sai, vera più che mai

scritto da L'Interessante

Fiaba

di Maria Rosaria Corsino

E’ una delle fiabe più note al mondo, una delle più apprezzate.

L’idea che Belle possa amare una bestia, riuscire a cambiarlo nel profondo ha fatto sospirare milioni di fanciulle che hanno poi creduto di poter davvero cambiare un uomo. Sbagliato.

Ma le fiabe ci piacciono proprio perché ci fanno sognare ad occhi aperti, eppure in questa storia ambientata in Francia un fondo di verità c’è eccome.

La vera storia de la Bella e la Bestia: meno fiaba, più realtà

Francia, metà del Cinquecento.

Enrico II viene incoronato Re di Francia e prende in moglie Caterina de Medici.

Come doni vengono portate le cose più strabilianti e meravigliose, fino a quando non viene presentato lui, il Selvaggio.

Creatura sentita solo nominare nei libri, a metà tra un uomo e un animale, rapisce bambini di cui si nutre e vive nascosto aspettando il momento giusto per colpire. E’ vigliacco, è rude, è una bestia.

Ma Enrico II è un uomo colto e intelligente e decide di accogliere nella sua corte Pedro Gonzales, il nome che viene dato al Selvaggio, per istruirlo ed educarlo. Per renderlo umano.

Con molta sorpresa dei suoi precettori, Pedro si dimostra intelligente e svelto ad imparare, divenendo così in poco tempo un uomo di lettere raffinato. Enrico II muore durante una giostra e il Delfino, Luigi XIII, è ancora minorenne così il potere passa nelle mani di Caterina. Caterina è una donna forte, prepotente. Decide che vuole dar moglie a Pedro e dopo una serie di colloqui trova la persona adatta per lui: Caterina, figlia di un servo di corte.

Caterina non sa a chi andrà in sposa, né può rifiutarsi: i Medici non amano sentirsi dire di no. Tutti temono la prima notte di nozze, che coincide con la luna piena, perché nonostante tutto Pedro è pur sempre un Selvaggio. Passano gli anni e la coppia ha cinque figli, due dei quali ricoperti di pelo come il padre gli altri tre invece, perfettamente normali. Caterina è soddisfatta e la famiglia lascia la Francia per trasferirsi prima a Parma e poi a Capodimonte dove vivrà serena lontana dagli occhi curiosi della gente.

Ma Pedro, è davvero un Selvaggio?

No. Pedro proviene dalle Canarie ed è un uomo a tutti gli effetti, ciò che lo rende diverso però è l’ipertricosi, una malattia che copre l’intero corpo di peli.

Non ci sono tazze parlanti o candelabri eccentrici, ma solo un sovrano che è riuscito a trovare l’umanità lì dove gli altri non riuscivano a vederla.

E’ una fiaba sai, vera più che mai was last modified: gennaio 2nd, 2017 by L'Interessante
2 gennaio 2017 0 commenti
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botti
CuriositàDall'Italia e dal MondoIn primo piano

Un Natale senza botti: intervista alla Dott.ssa Giussani

scritto da L'Interessante

Botti

Cari lettori interessati siamo a ridosso delle festività natalizie; se per molti cani questo è un momento di condivisione di gioie dovute ai regali da parte dei proprietari, ai premietti più succulenti dati fuori pasto, alle passeggiate più lunghe per il maggior tempo libero, per molti altri è un tragico periodo dovuto alla consuetudine dei botti e dei fuochi d’artificio

L’udito dei cani è molto sensibile e quei boati possono indurre un vero e proprio attacco di panico in un cane. Per capirci di più abbiamo chiesto il parere autorevole della dottoressa Sabrina Giussani, Medico Veterinario Esperto in Comportamento Animale, Presidentessa SISCA (società italiana scienze del comportamento animale).

  • Stiamo avvicinandoci alle festività natalizie e molti cani e gatti manifestano grossi disagi dovuti ai botti e ai fuochi d’artificio: da cosa deriva questo disagio?

“La paura dei botti e fuochi d’artificio può essere appresa dalla madre. Durante l’ultima parte della gravidanza, il feto è sensibile agli stimoli tattili: le contrazioni dell’apparato digerente e dell’utero dovute alla paura sono avvertite dal piccolo come una sensazione spiacevole. Dopo la nascita. Il cucciolo osservando la madre spaventata e a disagio, identificherà lo stimolo responsabile come pericoloso. In età giovanile o adulta, il cane può essere traumatizzato dallo scoppio di un botto molto violento o da un petardo esploso molto vicino. Da quel momento l’animale mostrerà sintomi di un importante disagio alla percezione degli stessi stimoli”.

  • E’ possibile lavorare in prevenzione o è più adeguato affrontare il problema a ridosso dello stimolo fobogeno?

“Per prevenire la comparsa di una fobia legata ai botti o ai fuochi d’artificio, è necessario proteggere il cucciolo durante la crescita, per esempio, portandolo a conoscere il mondo (rumori, oggetti, persone e cani) con calma, evitando inizialmente i luoghi troppo affollati o rumorosi. Quando il piccolo ha paura, è fondamentale rincuorarlo così che possa sempre contare su di noi. Del resto noi siamo i genitori in “seconda battuta” del cane così come hanno dimostrato numerosi studi scientifici. La costruzione di una solida banca dati permetterà al cane adulto di adattarsi con facilità alle nuove situazioni. Quando il cane si fida e affida al proprietario, durante un evento che lo spaventa anziché scappare senza meta ,cercherà il conforto della persona”.

  • Quali strumenti la medicina del comportamento mette in atto per tutelare i nostri animali?

“La medicina del comportamento, quando il cane ha paura o è in preda al panico, mette a disposizione della famiglia numerosi strumenti che spaziano dai consigli comportamentali, ai feromoni, alla floriterapia, alla terapia biologica, al percorso riabilitativo”.

  • Spesso viene consigliato di ignorare il cane che manifesta un comportamento di paura per evitare di rinforzarglielo: Lei è del medesimo avviso?

“Ignorare il cane quando è in difficoltà peggiora il disagio dell’animale. Quando il cane sa che lo comprendiamo e lo proteggiamo, chiede aiuto con lo sguardo, toccandoci con la mano, abbaiando. Così facendo l’animale si tranquillizzerà rapidamente affidandosi a noi. Per confortare il cane è necessario parlargli trasmettendo tranquillità, guardarlo e mantenere il contatto. Accarezzare l’animale “avanti e indietro” può raggiungere l’effetto contrario: il contatto deve calmare e non eccitare”.

  • Come bisogna comportarsi se un nostro caro amico a 4 zampe vive un evento di panico in casa?

“È necessario chiudere le imposte o abbassare le tapparelle, lasciare radio o tv accesa in sottofondo, spostarsi nella stanza più silenziosa dell’abitazione e creare un rifugio per il cane. Alcuni preferiscono la parte bassa dell’armadio, altri la cabina armadio o si riparano sotto il letto o sotto le coperte. È necessario rimanere con loro, raccontare una favola o leggere un libro a voce alta cercando di mantenere la calma. La sintomatologia dell’attacco di panico è differente da cane a cane e non sempre è possibile tranquillizzare l’animale senza un supporto medico”.

  • E se accade fuori casa, quando siamo per strada?

“Quando il cane si spaventa durante la passeggiata è necessario condurlo immediatamente a casa, in un negozio o in automobile così che possa sentirsi protetto e al sicuro. La passeggiata con la pettorina anti – fuga è consigliata per gli individui che, in preda all’agitazione, possono sfilarsi e correre senza meta”.

  • Quali rischi fisici corrono i nostri cani durante questi eventi?

“I cani affetti da malattie cardiache, respiratorie o metaboliche possono mostrare un peggioramento della sintomatologia. In caso di fuga l’animale può incorrere in un incidente o esserne la causa. Il disagio provato può essere così intenso da originare una fobia post traumatica con la comparsa di risposte simili alla paura in molteplici occasioni”.

Grazie mille alla dottoressa Giussani per aver risposto alle nostre domande.

Da un punto di vista gestionale possiamo inoltre coinvolgere l’animale in una lunga passeggiata il pomeriggio dei giorni festivi, così sarà più stanco ed appagato e i livelli di stress mitigati dalle endorfine del piacere; meglio offrirgli la cena al rientro dalla passeggiata, magari il suo pasto preferito. Se il cane se la sente possiamo portarlo a fare l’ultima passeggiata a festa conclusa, avendo cura di attendere almeno trenta minuti dell’ultima deflagrazione così da evitare la presenza di scoppi improvvisi durante il giro.

Puntare sugli amici chiedendo loro di festeggiare evitando l’utilizzo di fuochi  d’artificio ma lanciando stelle  filanti o coriandoli.

Perché tutelare i nostri amici a quattro zampe non è cosa da poco; e a volte passa attraverso la sensibilizzazione di amici e parenti che sovente non riescono a capire né ad immaginare a quale disagio espongono gli animali con quei petardi di cui, francamente, possiamo farne a meno.

Se pensate che il vostro cane possa soffrire durante questo periodo è opportuno effettuare al più presto un consulto con un medico veterinario esperto in comportamento: sul sito http://www.sisca.vet/  troverete le info necessarie per trovare il medico più vicino a voi.

Bisogna far rumore circa i botti. Bisogna risvegliare sensibilità, attenzione e cura dell’altro, evitando il superfluo laddove dannoso.

Un Natale senza botti: intervista alla Dott.ssa Giussani was last modified: dicembre 22nd, 2016 by L'Interessante
22 dicembre 2016 0 commenti
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blue jeans
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I blue jeans nati in Perù, 6000 anni fa

scritto da L'Interessante

Blue Jeans

di Antonio Andolfi

I blue jeans che conosciamo sono un’invenzione del diciannovesimo secolo, ma il loro colore ha origini decisamente più antiche. E non stiamo parlando dei primi tessuti blu da cui ha origine il termine blue jeans.

Tracce di blu indaco, il pigmento di origine vegetale usato per tingere il denim, sono state individuate su cinque di otto campioni di tessuto di cotone ritrovati nel 2009 nel sito di Huaca Prieta, nel nord del Perù. Lo studio della George Washington University (USA) è stato pubblicato su Science Advances. 

Blue jeans. Il colore originario

 

Le stoffe, forse quel che resta di antiche sacche, sono state preservate dal clima secco e risalgono a un periodo compreso tra i 6.200 e i 1.500 anni fa.

Analizzandole con una tecnica chiamata cromatografia liquida ad alta prestazione, è stato possibile individuare, sotto secolari strati di sporco, tracce di indigotina e indirubina, le componenti chiavi dell’indaco, che si ricava dalla fermentazione di foglie di diverse piante (tra cui la Indigofera tinctoria).

Finora il più antico utilizzo noto di questo pigmento risaliva all’Egitto di 4.400 anni fa. 

 L’indaco era uno dei pigmenti più pregiati dell’antichità e la sua presenza è attestata in Cina, Nord Africa e Sud America: qui, a quanto pare, fu utilizzato per le prime volte. La costa settentrionale del Perù è anche nota per essere stata una delle più antiche “culle” di domesticazione del cotone. Per molti versi questa regione è dunque la patria storica dei jeans.

I blue jeans nati in Perù, 6000 anni fa was last modified: dicembre 20th, 2016 by L'Interessante
20 dicembre 2016 0 commenti
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