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Categoria

Cinema

Cavalli
CinemaCulturaIn primo pianoMusicaTeatroTv

Marco Cavalli: io, un attore per passione.

scritto da L'Interessante

Cavalli

Di Christian Coduto

Giovedì 1 giugno, ore 18.30. Parco della Villa Floridiana, Vomero.

A quest’ora, il sole illumina ancora le strade.

L’estate, contrariamente a ciò che ci dice il calendario, c’è già venuta a trovare. Dopo aver fatto un po’ di giri per trovare un parcheggio, arrivo al posto scelto per l’intervista tutto trafelato e leggermente in disordine. Ritrovo Marco Cavalli seduto serenamente su una panchina, intento a fumare un sigaro.

Ha scelto un abbigliamento casual, ma con gusto: un pantalone che gli calza a pennello e una maglietta a maniche corte. Ma è la postura a fare la differenza … la prima parola che mi viene in mente è eleganza.

Appena mi intravede, sorride e si avvicina. Bella stretta di mano, vigorosa, di una persona sicura di sé. Mi chiede scusa se ha dovuto rinviare l’incontro per alcuni impegni lavorativi. Tono pacato, riflessivo, educato. Usa parole adeguate, è molto misurato, ma allo stesso tempo socievole e aperto al confronto.

L’intera intervista proseguirà allo stesso modo: in maniera totalmente rilassata e rilassante.

Mentre i bimbi giocano a pallone intorno a noi, richiamati dalle mamme affinché non facciano eccessivo rumore, iniziamo con le domande …

Marco Cavalli parla di sé a “L’interessante”

Chi è Marco Cavalli?

Allora … sono nato a Napoli il 25 aprile del 1975. Vivo con la mia compagna Ione e il nostro gatto Gabriele, detto anche Gabriellone, perché è decisamente grosso (ride). Lavoro alla CGIL e faccio l’attore, entrambe le cose per passione. Sono laureato in Scienze politiche. Ho preferito il percorso sindacale a quello politico/giornalistico che sognavo da ragazzino e posso dire di essere contento di aver fatto questo tipo di scelta. Ho svolto mille lavori: dal volantinaggio alla distribuzione degli album fuori dalle scuole, per due anni ho fatto ripetizioni ad alcuni ragazzini delle scuole medie ed elementari, per 6 anni sono stato lo stacca biglietti del San Paolo, per un anno e mezzo ho fatto il letturista dei contatori dell’acqua. Ho sempre voluto essere indipendente dalla mia famiglia, ho sempre dato il giusto peso al valore del lavoro. Nel tempo sono diventato redattore di un’agenzia di stampa; era un part-time, ma era molto impegnativo. Il mio primo contratto a tempo indeterminato. Nel frattempo, continuavo a svolgere la mia attività di volontariato presso la CGIL, che si è poi trasformato in un lavoro a tutti gli effetti.

Perché Marco Cavalli ha scelto la recitazione? Cosa rappresenta per te salire sul palco?

Il senso più profondo lo avevo già dall’infanzia. Da piccolino amavo il carnevale, i travestimenti. Ero inusuale persino nella scelta dei personaggi da interpretare: divieto assoluto al cowboy, l’indiano … erano benvenuti invece il vecchio carcerato, lo zombie trafitto e così via. Questo divertimento che provavo da bambino, credendo in maniera totalitaria nei personaggi che interpretavo nelle varie feste, me lo ritrovo pari pari nel gioco dell’attore.

Uscire da me stesso, indossare i panni di un altro e portarlo alle estreme conseguenze mi ha sempre divertito in una maniera pazzesca. Ecco perché ho scelto la recitazione.

Marco Cavalli lavora molto a teatro, spesso diretto da Nicola Guarino. Fare gavetta in sala cosa ti ha insegnato? Essere diretti da un regista che è anche attore facilita il processo di costruzione del personaggio che devi interpretare?

Nicola è un mio caro amico. Mi trascinò un po’ per caso in questo mondo magico. Venne a conoscenza della mia passione e mi spinse a provarci. Insieme abbiamo fatto diversi laboratori teatrali e tanti spettacoli, alcuni persino provocatori e naif. Con lui, ma anche con registi quali Ciro Pellegrino e Franco Zaccaro, ci siamo lanciati nel teatro off, decisamente d’avanguardia, anche se quest’ultimo termine è un po’ spocchioso e non mi piace utilizzarlo. Ritornando alla tua domanda: un regista che è anche attore talvolta può trovarsi in difficoltà nel momento in cui deve mettere in scena alcune cose, però quando si confronta con gli altri attori coinvolti il tutto è di gran lunga più costruttivo e stimolante.

Con un regista “puro”, invece, hai libertà di azione, puoi spaziare nella creazione del tuo personaggio.

Il teatro è una bella palestra: è estremamente fisico, ti insegna ad affrontare nel modo migliore possibile una fatica che, a mio giudizio, nel cinema non c’è. Non me ne voglia nessuno, ma è così! Il cinema è faticoso per chi lo organizza, per gli scenografi, i tecnici, il regista, ma non per l’attore. Il grande Marcello Mastroianni, non a caso, diceva “Beh, sempre meglio che andare a lavorare” (ride di gusto).

Hai svolto, in più occasioni, il lavoro di reading. Un compito molto impegnativo. Potresti spiegare, ai profani, quali differenze ci sono tra la recitazione pura e la lettura?

Un’esperienza bellissima! Per quanto mi riguarda, facevo dei reading in presenza di musicisti: sassofono, chitarra, tromba, contrabbasso … La selezione dei testi da leggere era invece curata da una carissima amica, che è anche una scrittrice.

È necessario in primis, che il testo rimanga fedele all’originale. Ma c’è contemporaneamente la necessità da parte di chi legge di interpretare le parole e fare qualche piccolo emendamento, tagliare qualche parola poco fluida e così via … quindi la grande differenza sta nel fatto che il lettore deve rendere ascoltabile la parola scritta. Il reader legge il testo, gli dona colore, sottolinea degli stati d’animo trasmessi dalla pagina, ma non deve snaturare ciò che gli viene affidato. In più, per trasmettere emozioni, hai solo la parola. Da un punto di vista recitativo, è qualcosa di assolutamente appagante.

Aggiungo anche che determinati testi danno un’emozione veramente forte ed è molto bello quando riesci a far arrivare all’intero uditorio le emozioni che stai provando tu.

Sei il protagonista di svariati cortometraggi. Ci racconti della genesi di “Come fossi una bambola?” E’ un progetto che ha anticipato i temi di “Lars e una ragazza tutta sua” …

Un’idea bellissima di Andrea Borgia, un altro regista al quale sono legato da una forte amicizia … lui aveva questa idea relativa alla solitudine e lo straniamento. Sì, è una storia molto semplice, però è riuscito a rendere magica la vicenda di quest’uomo che passa una serata, a cena, con una bambola gonfiabile ed è felice ed emozionato come se fosse una storia d’amore. La particolarità è che, attorno al protagonista, c’è un mondo assolutamente silenzioso, asettico, minimale. Sì, per noi è stata una sorpresa quando leggemmo di “Lars …” a tal proposito: lo sai che, sempre dopo “Come fossi una bambola”, uscì anche in Giappone una storia analoga? Coincidenze fortuite? (Ride).

Con “Peristalsi” del 2013 inizia la tua collaborazione con il regista Enrico Iannaccone. A questo, seguiranno poi “La ciofeca” e “Aniconismo”. Generi molto diversi, progetti ambiziosi. E’ importante, in termini di riuscita di un progetto, l’empatia tra il regista e gli attori coinvolti?

L’empatia è fondamentale perché, nello scambio profondo che intercorre tra il regista e l’attore, dà vita a qualcosa di proficuo. Poi, ovviamente, c’è anche chi preferisce avere rapporti solo ed esclusivamente lavorativi, preservando sempre la propria professionalità. Tra me ed Enrico, invece, c’è un legame che va oltre l’ambito artistico, visto che c’è un’amicizia profonda da diversi anni. Si condividono stati d’animo, emozioni vissute che giovano alla messa in scena.

Reciti tanto a Napoli. Quanto è artistica la tua città?

Guarda … di sicuro mi sento libero di dire che Napoli è una città ricchissima di veri talenti, sia nell’ambito registico sia nel settore attoriale. Purtroppo poco coordinata e senza budget a disposizione. Spero, un giorno, di fare esperienze artistiche altrove, per poterti dare una risposta più precisa al riguardo. E’ un osservatorio troppo piccolo.

Parliamo di televisione e della tua esperienza ad “Amore criminale” …

Ho lavorato con Matilde D’Errico, che io reputo un’autrice e una regista di grandissimo talento. E’ riuscita a fondere, in una maniera estremamente efficace, il testo giudiziario con il testo televisivo. “Amore criminale” è un format che racconta episodi di cronaca molto duri. Nel caso specifico, la puntata affrontò la storia di Teresa Bonocore, una cittadina di Portici, madre di una ragazzina che era stata violentata da un vicino di casa. La donna lo aveva denunciato e fatto arrestare. L’uomo però, dal carcere, ordì la spedizione di morte contro di lei. Tutti i colpevoli sono stati arrestati.

Io ho interpretato il ruolo del commissario. In quell’occasione sono rimasto sorpreso dalla capacità di sintesi della D’Errico. Un’esperienza molto piacevole, veloce, molto ben organizzata. La rifarei molto volentieri.

Il tuo curriculum è molto vario e variegato. Tra le tue esperienze, anche qualche videoclip musicale. Tra questi, “How to cure hangover in april” è quello sicuramente più interessante …

E’ effettivamente un lavoro del quale conservo un piacevole ricordo! Tanta energia e un apparato tecnico non indifferente. La storia è quella di quest’uomo che decide di comprare Ben, un robot, affinché lo aiuti nella fase di hangover in cui si ritrova … l’uomo beve, si droga, partecipa a festini. Il problema è che Ben inizia a sostituirsi al protagonista in ogni cosa della sua vita, fino ad arrivare a prendere il suo posto con la fidanzata (ridacchia). Un’esperienza divertentissima.

Nel 2014, diretto da Enrico Iannaccone, ecco il film “La buona uscita” accanto a Gea Martire. Interpreti il ruolo di Marco Macaluso. Il tema trattato è di quelli forti …

Un regista esordiente ed io, per la prima volta, protagonista di un film. Che dire? Un’esperienza magnifica. Avevo già fatto tanto teatro, ero apparso in tv, vari videoclip e diversi corti … eppure, quando mi sono rivisto sullo schermo, dopo una conferenza stampa nazionale, mi sono chiesto quando avessi preso la strada giusta che mi stava portando a tutto ciò. Ed ho pensato alla “Nausea” di Sartre: il protagonista è in un bar e sta ascoltando questa cantante di colore che sta eseguendo un blues. Ad un certo punto dice “Sono stato nel deserto, mi sono battuto con diversi uomini, ho amato donne e tutto questo mi ha portato in questo momento, in questo bar, in questa bolla di luce, avvolto dalle note”. Questa è stata la sensazione che ho provato … non ho ancora trovato una risposta: forse è stata fortuna, perseveranza, l’allegria e il divertimento che metto nel lavoro o il fatto che non abbia scelto la recitazione come mestiere principale, chissà.

O forse, semplicemente, perché Marco Cavalli è davvero un bravo attore? È così difficile ammetterlo? Umile, per nulla propenso all’autocelebrazione. Non è un atteggiamento forzato o costruito, il suo … Marco è autenticamente sorpreso dalla stima che riceve da chi lo ha visto recitare o da coloro i quali lo hanno scelto per i vari lavori. Non riesce quasi a farsene una ragione. Questo è probabilmente il vero motivo del suo successo: non si prende troppo sul serio. Recitare è una passione? Ecco, la vive come tale. Quindi, la vive bene.

Parliamo di Marco Macaluso … nelle note al personaggio che inviammo prima delle presentazione stampa venne definito come “Un uomo che, se fosse stato saggio, sarebbe stato un epicureo”. Invece lui è uno che consuma la propria vita e quella degli altri, solo ed esclusivamente per il proprio ego. Dopo la visione, molti mi hanno chiesto se Marco, così spregevole, fosse tipico di un particolare ambiente napoletano. Io dico, semplicemente, che è un personaggio trasversale … è il classico uomo dei nostri tempi, con i soldi, perché proviene da una famiglia molto ricca. Quello che tutti vorremmo essere: il forte che schiaccia gli altri, che ha il potere datogli dal denaro.

Se non lo guardiamo da un punto di vista morale, quest’uomo tocca il tema che Enrico voleva trattare nel film: i limiti della libertà.

Ci parli de “Il labirinto dell’anima” di Claudio Gargano, che uscirà prossimamente nelle sale?

E’ un lavoro dalla genesi inusuale: inizialmente doveva essere un medio metraggio poi, nel tempo, ha assunto la forma di un lungometraggio vero e proprio sulla Napoli esoterica. E’ tratto dagli scritti di Laura Miriello, una storica che è esperta anche in esoterismo. Il film rappresenta una Napoli molto noir. Il protagonista si imbatte in una serie di segni per lui sconosciuti, inediti che gli permetteranno di affrontare un viaggio che lo metterà a confronto con la città in cui vive, che è ricca di elementi occulti. E’ molto interessante da vedere, è una chiave di lettura di Napoli davvero poco sfruttata in ambito cinematografico.

Lo ammetto: non è che fossi a conoscenza della materia. Il che, in effetti, è stato un bene perché mi ha fatto affrontare questo progetto come se fossi un foglio bianco sul quale Claudio e Laura hanno lavorato.

A proposito di cinema: qual è il film della vita di Marco Cavalli e perché?

“Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri, con Gian Maria Volontè del 1970. Il film più bello che abbia mai visto. L’ho pensato dopo la prima volta che lo vidi e continuo tuttora a pensare che lo sia. Volontè, a mio giudizio, è la maschera dell’attore, quello che vorrei essere. Il film fa il paio con “Arancia meccanica” di Kubrick: entrambe le pellicole affrontano il tema del potere dello Stato in una maniera sublime.

Tra le altre cose, io amo il cinema italiano, credo di avere una bella cultura al riguardo. “indagine …” è l’apice da questo punto di vista. In aggiunta, costituisce una sorta di summa filosofica, grazie ad una sceneggiatura pazzesca.

Fonti sicure mi dicono che il sig. Cavalli è un bravissimo ballerino di tango. Cosa ti affascina di più di questo tipo di danza?

(Sorride) … Chissà chi te lo ha detto, eh? (Io e Marco abbiamo un’amica in comune, che balla insieme a lui N.d.R.) Per me è una droga. Ho trovato, nel tango, quello che non ho più dal palcoscenico ovverosia: quel rapporto fisico con la presenza scenica, quel rapporto immediato tra il corpo, l’azione, la passione che ti muove dall’interno e, il tutto, indipendentemente dal fatto che ci sia del pubblico o meno! E’ un moto molto intimo tra due persone. Sono 7 anni che ballo. Ora come ora, sarebbe una delle cose più difficili a cui potrei rinunciare.

Da piccolo, mi ricordo di uno sceneggiato televisivo con Gastone Moschin, la cui sigla era “Libertango” di Astor Piazzolla. Avevo 5 anni … quel ritmo, quella melodia così struggente, mi catturarono.

Con la maturità, ho deciso di lanciarmi in questa forma di danza.

Ah, a tal proposito: amo anche la fotografia! Purtroppo sto dedicando poco tempo a questa passione negli ultimi tempi. Ho vinto anche un premio della critica al Napoli Film Festival!

L’amore per il tango spiega la postura. Questo elemento aggiuntivo, questa passione così raffinata rende Marco Cavalli un uomo d’altri tempi. Eppure, sempre al passo con i tempi. Un dualismo divertente.

Cosa dobbiamo attenderci da Marco Cavalli per questo 2017?

Speriamo tantissime cose! Come dico sempre “Io sto qui. Quando qualcuno mi propone qualcosa, io la valuto” (ride di gusto). Con Enrico Iannaccone abbiamo  appena girato un altro videoclip, molto gustoso. Attendo l’uscita del film di Gargano e c’è una web serie con Nicola Guarino, che ho ritrovato dopo un bel po’ di tempo. Stiamo per ultimarla, la durata di ogni episodio è di 6 minuti circa.

Concludiamo l’intervista con una marzullata : fatti una domanda e datti una risposta

In tutta risposta, Marco Cavalli inizia a recitare: “Mi sono svegliato stamattina con una grande voglia di restare a letto tutto il giorno, a leggere. Ho cercato di combatterla per un minuto, poi ho guardato fuori dalla finestra la pioggia e mi sono arreso, mi sono affidato totalmente alla custodia di questa mattinata piovosa. Rivivrei la mia vita un’altra volta? Rifarei gli stessi imperdonabili errori?”  “Sì, se potessi, sì. Li rifarei.” E’ un passo di Raymond Carver, contenuto nei “Racconti in forma di poesia”. Lo lessi tempo fa per un reading e credo sia adattissimo anche in questa occasione.

So che non potete ascoltare la sua voce, ma fidatevi di me: il risultato è da brividi!

Marco Cavalli: io, un attore per passione. was last modified: giugno 6th, 2017 by L'Interessante
6 giugno 2017 0 commenti
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Good
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Good As You in casa Rain

scritto da L'Interessante

Good

Di Luigi Sacchettino

30 maggio 2017.  È sera. Eppure al teatro Ricciardi di Capua ci sono tanti colori. Sì, quelli dell’associazione Rain Arcigay Caserta onlus, che ha organizzato la proiezione del film  “Good As You – Tutti i colori dell’amore” di Mariano Lamberti. L’evento rientra nell’iniziativa CinePride, rassegna cinematografica a tema lgbt ideata dall’Associazione, sotto la direzione artistica di Christian Coduto.

Good As You: i protagonisti

In sala ad accoglierci il regista e uno degli attori, Lorenzo Balducci, che nel film interpreta Adelchi, un ossessivo e soffocante architetto, troppo tendente al controllo.

In un clima molto confidenziale rivolgo la mia operatività verso Lamberti, avendo intravisto il suo ultimo libro “Una coppia perfetta. L’amore ai tempi di Grindr”, e gli domando subito com’è nata l’idea di una storia d’amore da una chat dove l’interazione ha forme spesso liquide, superficiali, a tratti spicciole.

“Quando ho pensato alla storia d’amore non mi sono concentrato sulla chat. L’amore può nascere ovunque, anche in una chat. Ho una coppia di amici che si sono conosciuti lì e tutt’ora stanno ancora insieme”.

Un pensiero ottimista, penso.

Incalzo con una domanda sulla (in)fedeltà; un tema spesso presente nelle storie d’amore.

Mi racconta che a suo avviso siamo portati ad essere curiosi verso il mondo esterno, in una lotta di impulsi- come ci insegnava già Freud, o tra ragione e sentimento, per dirla alla  Jane Austen.

Eppure da primati umani dovremmo essere portati al mantenimento del senso di sicurezza e protezione, di appartenenza e come tale la dimensione di coppia monogama potrebbe essere il progetto più solido e valido per il raggiungimento di tale obiettivo, rifletto tra me e me.

Lamberti ha come padre il cinema: quello concreto, che riporta alla realtà de “i soldi ci sono? Ok, il film si fa”, e per madre l’accogliente letteratura, che lascia ampio spazio all’espressione, in un qui ed ora non vincolato dalla materialità.

Passo a Balducci, che accoglie tutti con un sorriso timido e una capigliatura biondo platino, tutt’altro che anonima.

Mi racconta che tra cinema, tv e teatro- nonostante la grossa passione per quest’ultimo- preferisca il primo, avendolo immaginato sin da piccolo. La possibilità di poter riprodurre dei momenti lo affascina, seppur non ami rivedersi.

Strani meccanismi della mente umana, mi dico; la sua bellezza statuaria è visibile agli occhi di tutti.

Mi incuriosisce quel platino:  Balducci mi rivela faccia parte del suo ruolo nel prossimo spettacolo “Spoglia-TOY”,  di Luciano Melchionna visibile il 16, 17 e 18 giugno al Napoli Teatro festival. Non può rivelarci altro.

Lo prendo in giro, per il giusto mix di curiosità e indizi che fornisce a riguardo.

La serata trascorre con la visione del film, che mantiene ancora viva la comicità e l’attualità, nonostante i 5 anni di età e una legge per il riconoscimento delle coppie di fatto.

Good as you vuole raccontare uno spaccato della dimensione LGBT senza partire dal pietismo o dal melodramma; così, con schiettezza, sagacia, arguzia e simpatia, si affrontano gli stereotipi relazionali. Il sieropositivo da parchetto, la lesbica mascolina, l’etero curiosa e confusa, la bambola sexy, l’effemminato eccentrico e così via.

Lamberti vuole rappresentare una ‘grande famiglia’ il cui principio di aggregazione è la scelta: scegliere le persone con cui condividere, con cui parlare e con cui accompagnare la propria esistenza.

E lo fa dalla visione gay, non dal racconto degli etero. Lo fa da dentro. Con libertà.

Non ci si annoia affatto, e la riflessione è dietro l’angolo.

La mia riflessione è proprio sugli stereotipi, con l’auspicio che lo spettatore di Good as you non si fermi alle generalizzazioni. Il rischio che si può correre è di non aiutare a a normalizzare un vissuto fatto di persone che si svegliano, vanno a lavoro, soffrono e sorridono per amore e si affannano e lottano per la vita.

Con Dignità di persone. Non di orientamenti.

Good As You in casa Rain was last modified: giugno 2nd, 2017 by L'Interessante
2 giugno 2017 0 commenti
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Antonio
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Antonio Zannone: Io Pulp? Sì, ma con gusto!

scritto da L'Interessante

Antonio

Di Christian Coduto

Arrivare a Cellole, stamattina, ha richiesto un po’ di tempo. Complice sia il traffico sia la mia assoluta ignoranza geografica. Attendo Antonio in un bar al centro della città. E’ in leggero ritardo. Provo a chiamarlo sul cellulare. Non mi risponde. Gli invio dei messaggi sui social: anche qui, nessun segnale.

All’improvviso vedo comparire Antonio sull’uscio del locale. Abbigliamento sportivo, una maglietta a maniche corte. Occhiali da sole d’ordinanza. Si gira intorno. Incrocia il mio sguardo e non mi saluta. Si avvicina al tavolino dove sono seduto. “Sto locale è per fighetti” esordisce “Vieni con me”.

Mi conduce per delle stradicciole di campagna, usciamo dalla città. “Uh, un po’ come nei tuoi corti horror” gli dico. “Già” la sua risposta.

Arriviamo nei pressi di Baia Domizia, in un bar scalcinato. “Qui abbiamo girato alcune esterne di The Pyramid perché, d’inverno, si svuota ed assume una forma post apocalittica”. Solo allora inizia a sorridere. Ci sediamo e ordina due birre. Dopo aver visto la mia faccia contrariata, fa spallucce “Le birre rimangono sempre due, me le bevo io ugualmente”.

In un habitat a lui più congeniale, Antonio ritorna ad essere se stesso: un ragazzo che non ha alcun interesse nei confronti delle mode e di tutto ciò che fa tendenza. Si toglie gli occhiali e tira fuori tutta la sua simpatia. Comprendo ora il perché del suo atteggiamento iniziale …

Antonio Zannone risponde alle domande de “L’interessante”

Chi è Antonio Zannone?

La domanda più difficile in assoluto: io non parlo mai di me, mi imbarazzo. Anche quando mi chiedono “Cosa fai?” ho difficoltà a rispondere. Non mi prendo mai troppo sul serio. Come se tutto fosse un bellissimo gioco. Una mia cara amica dice che le ricordo Percy Shelley che va incontro alla tempesta, perché mi butto nelle cose, senza aver paura delle conseguenze. Osservo tanto, parlo molto poco, solo quando ho veramente qualcosa da dire. Forse è per questo che ho iniziato a fare cinema, comporre musica … sono due mezzi espressivi che mi permettono di dire tutto ciò che ho dentro.

Quando nasce la passione per il cinema di Antonio Zannone?

Non ho un ricordo preciso, in realtà. Però ti posso dire una cosa: da piccolino, guardando “Ben-Hur” in televisione con mio nonno, lui mi disse “Li vedi quei cavalli? Sono della scuderia di mio cugino!” In una sequenza c’è anche lui: una comparsa a cavallo! Avevo 5/6 anni … pensai che fare cinema fosse davvero bello. Con mio papà guardavo i western di Sergio Leone che, tra le altre cose, è stato regista di seconda unità proprio di “Ben-Hur” … vedi che tutto torna ? (Sorride). Ad 8 anni ho visto “Zombi 2” di Lucio Fulci con mia mamma, di notte. I miei genitori mi hanno sempre permesso di vedere la tv fino a tardi. Figurati, alle elementari, ero l’unico che poteva vedere “Twin peaks” di David Lynch. Il giorno dopo mi sentivo molto figo perché tutti mi chiedevano notizie in merito a questo serie (ridacchia). Nel tempo, rubai una videocamera super vhs nel negozio di elettrodomestici della mia famiglia. Nessuno la comprava e la presi: aprii semplicemente la vetrina e iniziai a girare le prime cose, a sperimentare.

Nel 2006 Antonio Zannone esordisce con il corto “L’assassino nel Diavolo” ed è subito pulp! Due anni dopo arriva “Il sequestro e la rapina”. Lo stile ben definito, che oramai già gli appartiene, e una storia che riserva davvero tante sorprese …

Sì sono d’accordo. Avevo già nella mia mente un quadro piuttosto chiaro del tipo di cinema che volessi fare. Però, prima, dovevo apprendere il linguaggio cinematografico, conoscere le regole di base, è una cosa fondamentale! Poi c’è Tarantino che, a quanto si dice, non ha mai studiato … ma questa è un’altra storia (ridiamo). “L’assassino del Diavolo” lo girai proprio con  due amici, mia cugina e la videocamera di cui ti parlavo prima! Non scrissi nemmeno la sceneggiatura … ero davvero tutto improvvisato. C’era solo l’amore per i B movie! Mi sono divertito da morire a lavorare con il lattice, il sangue finto, tutta la parte degli effetti è stata molto interessante. Lo inviai pure a diversi Festival, ma da un certo punto di vista non lo considero nemmeno un esordio, quanto piuttosto un divertissement tra amici.

“Il Sequestro e la rapina” è un corto piccolino, quasi amatoriale, ma è anche vero che ho avuto un direttore della fotografia, un fonico e attori più preparati. Una vera e propria troupe. Nel cast c’è Elio D’Alessandro, che lavora moltissimo in teatro. Nel corto ci sono personaggi pulp, un po’ al limite, sopra le righe, tanto sangue, situazioni estreme e violente, le cose ci sembrano chiare, ma si rivelano essere tutt’altro, i buoni si rivelano i cattivi … insomma, quelle situazioni a sorpresa, destabilizzanti. Il classico colpo di scena. L’idea della storia mi piaceva moltissimo. Al di là dei risultati finali (lo trovo ancora imperfetto), con questo corto ho capito quale fosse la mia strada e che avrei dovuto proseguirla per bene. Così ho frequentato una scuola di cinema!

Mi colpisce subito la sua modestia. Sul set è un professionista, lavora a ritmi serrati, ma riesce ad affrontare il tutto senza prendersi eccessivamente sul serio. Per lui fare cinema è un gioco. Rimanere con i piedi per terra gli permette di affrontare nel modo giusto sia le cose belle sia le delusioni che, inevitabilmente, possono esserci in questo mestiere.

Ci parli un po’ di “S. Balentino”? Hai deciso di parlare della festa degli (orrore!) innamorati in una chiave decisamente cupa, seguendo lo sguardo di un bambino …

(Strabuzza gli occhi) Non lo so come tu faccia a sapere dell’esistenza di “S. Balentino”. E’ un corto che non è mai stato distribuito, è stato proiettato una sola volta in occasione dell’anteprima. E’ stato il primo lavoro che ho realizzato dopo aver terminato la scuola di cinema. Fui ingaggiato da una piccola casa di produzione che si occupava di progetti legati all’ambito scolastico. Me lo ricordo con piacere perché, per la prima volta, venni pagato per portare a termine l’incarico che mi era stato assegnato. Una storia carina, una favola nera, ambientata a San Valentino Torio. Lavorarono con me degli studenti di una scuola media. Il tema del corto è l’amore. Però il mio stile mi ha portato a fare una cosa decisamente meno mielosa. Ho sempre amato le favole nere, credo che si sia capito (ride). Il protagonista è un bambino che ha subito un trauma, in seguito alla morte del papà. E’ un po’ chiuso in se stesso, tende ad essere “cattivo” anche se, in realtà, non lo è per davvero. Un giorno la professoressa (una strega) gli fa una sorta di incantesimo e lui si risveglia in questo mondo in cui non c’è alcuna forma di sentimento, di amore. La madre non lo saluta, non gli prepara la colazione al risveglio e così via. In pratica, si ritrova in un mondo in cui tutti si comportano come lui. Un giorno una bimba sta per essere investita da una macchina e lui accorre a salvarla, venendo investito al suo posto. Poi, però, si sveglia e si ritrova nel suo letto e capisce che tutto era un sogno.

Una favola per bambini che, sono convinto, avrebbe potuto darci diverse soddisfazioni nei Festival come il Giffoni, per esempio. La produzione, però, non volle doppiarlo. I ragazzini coinvolti erano molto bravi e volenterosi, ma non avevano studiato recitazione. A mio giudizio il doppiaggio sarebbe stato necessario. Quindi, il progetto è rimasto lì, non ha avuto un seguito. Peccato.

Per me rimane sicuramente un’esperienza formativa, senza alcuna ombra di dubbio.

“Bastard Serial Killer! Kill! Kill!” è un omaggio di Antonio Zannone a Quentino Tarantino e Russ Meyer. Gli appassionati del genere vanno in visibilio e raggiungi le 25mila visualizzazioni sul web. Quanto è stato divertente realizzarlo?

Uh, si potrebbe parlare per ore di questo corto! La mia idea originaria era quella di girare un vero e proprio film. Capirai, avevo da poco terminato la scuola di cinema ed ero pieno di idee e di entusiasmo. Ma in Italia, soprattutto per ciò che concerne l’aspetto produttivo, le cose sono piuttosto complesse e delle idee te ne fai poco, quindi optai per un cortometraggio (sogghigna). Pensa che fui costretto a tagliarne circa 5 minuti per poterlo inviare ai Festival: per essere un corto, all’epoca, era considerato troppo lungo! Per quello che io considero il mio vero esordio, volevo che ci fosse il giusto omaggio al cinema di serie B, ma anche a Lucio Fulci, Umberto Lenzi, Ruggero Deodato … tutto quello che vedevo sin da piccolino, in pratica. E certo c’è anche Tarantino, che ha ripreso certi stili cinematografici e li ha rimessi insieme. C’è praticamente di tutto: la famiglia di malati riporta alla memoria “Non aprite quella porta”, c’è anche molto di Rob Zombie, un regista in gamba. C’è anche tanta ironia. Il che è tipico del mio carattere: io tendo a ridere un po’ di tutto, anche delle cose terribili.

La storia è quella di una banda di malviventi che rapina un furgone portavalori e il capo della banda, sotto effetto di meta anfetamina, inizia a sparare e ammazza un sacco di gente. Il gruppo riesce a trovare rifugio in una casa in campagna, dove nasconde la refurtiva. Vengono arrestati. Dopo anni escono dal carcere e vengono a scoprire che, in quella casa, ora vive una famiglia di squinternati cannibali.

Sì, è stato divertente girarlo, ma anche molto stressante: le riprese sono durate una settimana. Iniziavamo alle 8 del mattino per finire intorno alle 3, 4 del mattino del giorno dopo. Però ti dico una cosa: con l’esperienza che ho accumulato negli anni, se tornassi indietro, con il budget di allora, oggi, realizzerei quasi un intero film! Il corto vinse diversi premi, le recensioni furono davvero eccellenti.

Ecco, quindi, “Apocalypse” che entra a far parte del lungometraggio (diretto a cinque mani) “The Pyramid”. Lavori con il mito indie Alex Visani, che supervisiona l’intero progetto. Il tuo episodio si contraddistingue per l’ironia, un tuo marchio di fabbrica.

“The Pyramid” è stata una sorta di conseguenza naturale del successo di “Bastard”: Alex cercò di riunire i registi che, in quel periodo, non solo fossero più attivi, ma anche più adatti ad un progetto basato sulla collaborazione. Considera che, tra pre e post produzione e tutta la fase di presentazioni nei Festival, sono trascorsi oltre due anni. In tutto questo periodo, non c’è stato mai alcun problema tra di noi. Tutti ci abbiamo creduto molto e credo che il risultato finale sia davvero buono, soprattutto se consideri il budget bassissimo.

Alex aveva capito che, in quel periodo, stava prendendo piede la formula del film ad episodi. Però, in questo caso, il film ha una peculiarità in più: i 4 cortometraggi non sono slegati, a se stanti e poi cuciti insieme. Tutti e 4 i corti costituiscono altrettante parti della stessa storia. L’elemento che raccorda i vari segmenti, va da sé, è la piramide del titolo.

E’ stato bello prendere parte a questo progetto. Con Alex siamo entrati subito in sintonia, c’è una gran bella amicizia tra di noi. Ci ho messo del tempo perché la troupe non è stata pagata quindi dovevo attendere di averla a disposizione per girare. Gli unici soldi li ho investiti per i costumi, gli effetti speciali e i rimborsi. Abbiamo girato soprattutto nei fine settimana.   

In “The portrait” torni a lavorare con David Power, con cui avevi già girato “Apocalypse”. Quanto è importante, per la riuscita di un progetto, l’empatia regista/attori coinvolti?

Originariamente doveva fare parte di un progetto collettivo costituito da tanti cortometraggi poi, per problemi di tempo, non riuscii a completarlo. Ero impegnato in “The Pyramid”, quindi sfruttai lo stesso budget, la stessa troupe e gli stessi attori per terminarlo. E’ ispirato al racconto “Il ritratto ovale” di Edgar Allan Poe.

Il protagonista del corto è un pittore/serial killer che dipinge le sue vittime cercando di rappresentare sulla tela l’attimo in cui queste muoiono.

Per quanto riguarda David, credo che ci siano degli attori adattissimi ad interpretare un certo ruolo. Trovarli è fondamentale per realizzare qualcosa di convincente. Con lui è nata una simpatia immediata, ma soprattutto una grande stima: è un attore incredibile. Con questo corto ha vinto il premio come migliore attore alla IX edizione del The reign of horror short movie award 2014!

Parliamo di “Stigmate”, l’ultimo (capo)lavoro di Antonio Zannone …

Sei troppo buono! Beh, di sicuro credo moltissimo a questo progetto e prima o poi sono convinto che arriveranno molte soddisfazioni.

E’ stato un lavoro velocissimo: non ho mai realizzato un progetto con la stessa celerità in vita mia! Ho buttato giù la sceneggiatura in un pomeriggio, di impatto, non l’ho più ritoccata. Per questo motivo la prima stesura è stata proprio quella che ho utilizzato, al momento delle riprese. Organizzato in due giorni, girato in un giorno e mezzo, montato in una settimana. Prima di inviarlo ai Festival, ho fatto diverse prove: l’ho inviato a tutti gli amici che stimo e a coloro che fanno questo lavoro (produttori, registi, anche di mainstream). Ho ricevuto ottimi feedback.

Io ho immaginato un diverso contesto, un presente alternativo in cui la chiesa ha mantenuto un potere temporale e in cui svolge anche operazioni di polizia e magistratura. Ci ritroviamo, quindi, in questa caserma dove il signor Marlowe viene condotto in arresto perché accusato di essere un ateo. In questa situazione un po’ kafkiana, il protagonista viene sottoposto a diverse angherie psicologiche e fisiche, fino a quando non verrà trasformato in un martire da utilizzare a proprio vantaggio dalla chiesa, da mostrare ai fedeli. La religione, in realtà, l’ho utilizzata come pretesto per raccontare la storia del potere che fa delle nostre vite ciò che vuole. Anche quando parliamo di democrazia. Non è affatto un corto contro chi crede in Dio, mi preme ribadirlo, bensì sull’uso subdolo che il potere ha sempre fatto delle religioni. In più, volevo portare le persone a riflettere sul fatto che nel nostro paese non esista il reato di tortura.

Il corto è stato presentato, in anteprima, al Napoli Film Festival con molto successo.

Antonio Zannone, però, è anche un musicista …

Beh, sono un musicista non professionista. Anche se ho sempre suonato, sin da piccolo, per me la musica è soprattutto uno sfogo. In questi anni ho suonato tantissimo, ho fatto molti concerti con “I Malpertugio” e “This is not a brothel”, ma anche con progetti solisti, perfino all’estero. Però la musica rimane soprattutto una passione. La mia vera professione è quella del film-maker.

 

Hai realizzato tanti videoclip per diversi musicisti: Il Malpertugio, Lain, Carbonifero … trasformare in immagini le note musicali è complesso, soprattutto considerando che devi raccontare una storia in un intervallo di tempo, spesso, piuttosto ristretto?

Allora … quando ho iniziato a girare dei video, le prime cose riguardarono, ovviamente, proprio i miei progetti musicali. Il mio video più famoso, in tal senso, è “Zany zoo” con un featuring di Roberta Gemma. Questi lavori sono piaciuti molto e tanti altri musicisti, diverse band, mi hanno contattato affinché realizzassi per loro delle clip. Considero i videoclip uno svago, un momento di relax azzarderei. Hanno un linguaggio differente rispetto a quello cinematografico, non ci sono vincoli di sceneggiatura. Puoi affidarti alle immagini. In aggiunta a ciò, il mondo dei videoclip è assai vicino al surrealismo e questa è una cosa che mi piace tanto, soprattutto per ciò che riguarda la pittura. Mi ispiro ai quadri di Dalì, Max Ernst. Non sei obbligato a raccontare una storia … per me è estetica.

Si gira spesso intorno, osserva tantissimo, riuscendo contemporaneamente a rispondere alle mie domande. E’ un animo inquieto, ha molto da dare.

Antonio … domanda multipla: ultimo film visto al cinema, ultimo cd acquistato, ultimo spettacolo teatrale al quale hai assistito.

Non vado spesso al cinema perché mi irrita quando le persone sedute accanto a me iniziano a smanettare con il cellulare. Ciononostante, ho visto due volte “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Al teatro non vado mai. Compro moltissimi vinili, l’ultimo è stato “Unknown pleasures” dei Joy Division.

 

Cosa dobbiamo attenderci da Antonio Zannone per questo 2017?

Come prima cosa: creare una mia casa di produzione. Ci sto già lavorando. La fonderò a Dubai, molto probabilmente. Da settembre vorrei trasferirmi. C’è un buon equilibrio tra le tasse da pagare e tutte le altre spese che ne derivano. Lì di sicuro non potrei fare splatter, horror e così via, però mi dedicherò a reportage, video, documentari per le aziende. Gli introiti di questi progetti li potrò reinvestire per realizzare, in Italia, opere nel mio stile. Non voglio girare cose brutte o fatte male, il mio desiderio è quello di trasformare in immagini le storie che mi va di raccontare.

Ho già pronte un paio di sceneggiature … vedremo quale riuscirò a trasformare in film.

Diventa di colpo serio. Un elemento a sorpresa in questa intervista. Durante la nostra chiacchierata non si è risparmiato in battute e sberleffi. Eppure, ci tiene a sottolineare che punta in alto. Ha dei sogni da realizzare e, forse, ha trovato la strada giusta, quella che gli permetterà di attuarli.

Ed ora … marzulliamo : fatti una domanda e datti una risposta

Ma interesserà a qualcuno quello che sto dicendo in questa intervista? Secondo me, solo a te! (Scoppia a ridere).

Nella strada di ritorno verso la mia macchina osservo Antonio per un po’: sì, è ancora un bambino, che si entusiasma di fronte ad una macchina crea-emozioni. Probabilmente, con il cuore e la mente, è ancora lì, sul divano insieme al nonno, a cercare di carpire alcuni dei segreti di realizzazione di un film. Un animo buono (ma questo non glielo diciamo!) che esorcizza con la violenza estrema e lo splatter un evidente bisogno di comunicare …

Antonio Zannone: Io Pulp? Sì, ma con gusto! was last modified: maggio 23rd, 2017 by L'Interessante
23 maggio 2017 0 commenti
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Gianni
CinemaCulturaEventiIn primo piano

Recensione: “La Tenerezza” di Gianni Amelio

scritto da L'Interessante

Gianni

Di Christian Coduto

La Tenerezza (Italia, 2017)  *

Regia: Gianni Amelio (5/6)

Con: Renato Carpentieri (8), Elio Germano (6), Giovanna Mezzogiorno (6), Micaela Ramazzotti (6), Maria Nazionale (6/7), Greta Scacchi (5/6)

La trama del film di Gianni Amelio

Lorenzo è un uomo piuttosto anziano. Ha un importante trascorso da avvocato e un presente rivolto alla solitudine: ormai vedovo, ha infatti un rapporto di grande freddezza con Elena e Saverio, i suoi figli. Dopo essere uscito indenne da un infarto (con tanto di ricovero in ospedale e una conseguente evasione alla Harrison Ford ne “Il fuggitivo”), l’uomo decide di tornare a vivere nella sua bella magione, intrecciando sporadici rapporti con pochi esseri umani. A Lorenzo piace osservare le persone, cerca di capire tanto di loro, ma non è in grado di esternare le sue emozioni.

Una serie di coincidenze fortuite lo porta ad interagire con Fabio e Michela, i suoi nuovi vicini di casa, genitori di due figli decisamente irruenti e (leggermente) maleducati …

Lo dico subito: è davvero doloroso, in questa recensione, parlare male de “La tenerezza”, ma da un regista del calibro di Gianni Amelio, che ci ha regalato gioellini come “Il ladro di bambini”, “Porte aperte” (con uno straordinario Gian Maria Volonté) e “Lamerica” era lecito aspettarsi un po’, per non dire molto, di più.

Il film ha una serie di difetti assolutamente imperdonabili, che saltano immediatamente all’occhio: la sceneggiatura, in primis, è priva di ogni qualsivoglia tipo di pathos narrativo. Non si riesce mai a provare empatia nei confronti dei protagonisti della vicenda. E’ costruita (dallo stesso Amelio e Alberto Taraglio) su sequenze fini a se stesse. Non c’è sequenzialità. Si ha l’idea di una serie di riempitivi per portare il film alla lunghezza minima necessaria.

Lorenzo  e Fabio camminano. Tanto. Troppo. Che cosa stanno provando? Non è dato saperlo.

I dialoghi sono quanto di più limitativo ed irritante si possa immaginare: soggetto, predicato e complemento. Stop.

È pur vero che i personaggi principali della vicenda sono tutti disadattati, infelici, insoddisfatti, ma allo spettatore non arriva nulla, se non una successione infinita di attimi di freddezza.

Alcuni personaggi compaiono e scompaiono senza motivo: che fine fa Aurora, la mamma di Fabio, ad esempio?

Quale significato attribuire alla sequenza conclusiva (che, ovviamente, non rivelerò)? Possibile che i 103 minuti di proiezione avessero come unico scopo quel (ridicolo) finale?

Amelio, in una recente intervista, ha rivelato che il suo sogno era quello di ambientare un suo film a Napoli, una città che ama moltissimo. Scegliere le zone meno curate e in completo restauro (vedasi la sequenza ambientata nella Galleria Umberto I, sinceramente un po’ forzata tra le altre cose) non ha reso giustizia ad una delle città più belle del mondo.

Anche l’occhio meno esperto non avrà difficoltà a notare evidenti errori di montaggio.

E’ mia ferma opinione che il realizzare un’opera cinematografica non sia necessariamente un fatto obbligatorio. Se le idee mancano, è preferibile un dignitoso silenzio, soprattutto tenendo conto del passato importante del cineasta.

Altrettanto doloroso è, infine, constatare la deludente performance di un cast di tale caratura: Elio Germano, Micaela Ramazzotti, Giovanna Mezzogiorno e Greta Scacchi appaiono in difficoltà, danneggiati da dialoghi al limite del ridicolo e da una scarsa caratterizzazione dei personaggi che gli sono stati affidati.

Un applauso a Maria Nazionale che affronta, invece, in maniera spigliata e realistica il suo compito, regalando alla sua Rossana la giusta dose di veracità. Vincente l’intonazione, convincente la postura.

“La Tenerezza” è però, a tutti gli effetti, un film con Renato Carpentieri: l’attore recita con il corpo, la voce e gli occhi. I segni del tempo sul suo viso aggiungono espressività ad un solido professionista, troppo spesso sottovalutato.

Aspettiamo Gianni Amelio con un ritorno in grande stile dopo questa pellicola che speriamo sia un caso unico nella sua bella carriera.

Termino con una domanda: perché dare così tanto spazio, sulla locandina, alle figure di contorno di Germano, Mezzogiorno e Ramazzotti, quando il protagonista della vicenda è, al contrario, Lorenzo?

Meditate gente, meditate …

Recensione: “La Tenerezza” di Gianni Amelio was last modified: maggio 11th, 2017 by L'Interessante
11 maggio 2017 0 commenti
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Davide
CinemaCulturaIn primo piano

Davide Montecchi: da grande voglio essere vivo

scritto da L'Interessante

Davide

Di Christian Coduto

Il thriller italiano ha parenti e radici illustri: Mario Bava, Lucio Fulci, Aldo Lado sono solo alcuni dei nomi di punta di un genere che, nel tempo, è stato ingiustamente bistrattato e messo in secondo piano. I nomi di Dario Argento, Ruggero Deodato, Lamberto Bava e Michele Soavi, amati nel nostro paese (e idolatrati all’estero) vengono associati alla violenza fine a se stessa. Come se quella ricerca sottile della paura, del creare angoscia, non fosse meritevole di rientrare nell’ambito della cinematografia che conta davvero. Anni ed anni di ridicola ed incomprensibile serie B. Non a caso, le ultime produzioni thriller/horror (Ivan Zuccon, Domitiano Cristopharo, Lorenzo Bianchini) sono tutte di natura indipendente. Vincono premi nel mondo, riempiono le sale, ma nessuno (tranne i siti specializzati) sembra interessarsene davvero. Oggi incontro Davide Montecchi, che ha esordito alla regia con “In a lonely place” un thriller psicologico indie, che ha qualità tecniche e artistiche di gran lunga superiori alla maggior parte dei prodotti preconfezionati che ci vengono propinati nelle sale da molto tempo a questa parte. Davide ha un sorriso smagliante. E a buon diritto: il film ha già vinto dei premi e si appresta a conquistare il mercato estero. Una storia complessa, articolata, recitata magnificamente da Luigi Busignani, che nel film è Thomas e da Lucrezia Frenquellucci, che interpreta Teresa.

Come spesso accade, anche Davide è completamente l’opposto di ciò che mi sarei aspettato, considerando il tema del film: vivace, ironico, allegro. E’ molto orgoglioso del suo film, nel corso dell’intervista lo ribadisce, ma sempre con un velo di umiltà.

Davide Montecchi parla di sé.

Chi è Davide Montecchi?

Domanda complessa. Rispondo con l’aforisma del pittore Balthus «Sono un pittore di cui non si sa nulla. Adesso potete guardare i miei quadri».

Quando è nato l’amore per il cinema? Quando hai capito che diventare un regista sarebbe stato il tuo scopo nella vita?

Ricordo che ero bambino e guardavo un qualche film di Dario Argento alla televisione, forse “Suspiria”. Mi colpì moltissimo e credo che la passione sia nata lì.

Ti sei laureato al DAMS con una tesi sul regista Peter Greenway. Cosa ti affascina maggiormente di questo cineasta?

Il suo essere radicalmente differente da chiunque altro.

Parliamo del tuo primo film, “In a lonely place”. Un thriller/drammatico. Ma, sostanzialmente, è un film sull’amore: disturbato, malato, folle, certo, ma sull’amore …

Sì, è esattamente questo il tema del film. Thomas è un romantico, un uomo che patisce un amore non corrisposto fatto di sofferenza e senso di abbandono. E in lui è forte la contraddizione tra amore e odio, tra venerazione fanatica e disprezzo verso Teresa, la donna che ama … o forse il disprezzo è riservato solo ad alcune delle sue parti interiori.

Thomas è in fondo una specie di Antonio Delfini, lo scrittore delle “Poesie alla fine del mondo” che scrisse versi bellissimi ma pieni di tristezza e rancore alla donna che amava “Quanta pena mi fai … quanto dolore …/Lo schifo il disprezzo che ho per te/… pur sempre amore …/si tramutò una sera a Montenero/ questa estate per il tuo pensiero/ in fervida preghiera. E mai fu così sincero.”

Hai realizzato diversi cortometraggi e vari videoclip musicali. Com’è stato il passaggio alla dimensione lungometraggio?

Naturale e più piacevole di quello che credevo. Ero abituato a fare praticamente tutto da solo. Avere persone valide e capaci con cui collaborare è stato splendido.

Partendo dal fatto che un film NON lo fa il budget, quanto è costato “In a lonely place”?

Pochissimo, ma solo perché tutti i componenti della troupe, per amore del progetto, hanno accettato di lavorare con retribuzioni simboliche. Ovviamente tutta la sceneggiatura è stata costruita per esaltare al massimo quello che avevo disponibile.

Nel film, l’intero peso è sulle spalle di due soli attori, Luigi Busignani e Lucrezia Frenquellucci. Scelta azzeccatissima: sono bravissimi! Come sei arrivato a loro?

Sono in realtà “arrivati in dono”: ci siamo conosciuti casualmente per altri progetti, e quando si è trattato di scegliere gli attori con cui lavorare mi sono sembrati la soluzione più naturale ed efficace. Forse anche la scrittura dei personaggi è stata in parte inconsciamente influenzata da loro.

Quanti sono stati i giorni di lavorazione sul set?

Circa 30 di riprese, e circa un anno tra montaggio e post produzione.

Nel film, i protagonisti non sono solo Thomas e Teresa. Anche la polvere depositata sui mobili dell’albergo fa la sua parte. A tal proposito: ci sono una fotografia e un gioco di luci straordinarie …

Merito di Fabrizio Pasqualetto, il direttore della fotografia e Marco Nanni, l’operatore di camera. Sono stati interlocutori di straordinaria tecnica e sensibilità, capaci di tradurre in realtà le mie idee astratte.

Del film hai curato non solo la regia, ma anche il soggetto, la sceneggiatura, il montaggio e ne sei produttore. Ora, rivedendolo, sei soddisfatto del risultato finale?

Il regista e il montatore sono molto soddisfatti. Il produttore, con cui parlo ogni giorno, è incazzato perché sta ancora aspettando di rientrare dell’investimento … mi dice che forse ho sbagliato a fare un film così diverso, difficile da capire, per pochi.

Ma sono fatti suoi. A me non interessa. Sì, ho fatto un film per pochi. “Per noi felici pochi”.

“In a lonely place” è un progetto indie al 100%. A tuo giudizio, quali sono i pregi e i difetti di un lavoro indipendente?

Libertà totale, isolamento totale.

Domanda multipla: ultimo film visto al cinema, ultimo cd acquistato, ultimo libro letto, ultimo spettacolo teatrale al quale hai assistito.

Al cinema ho visto “Guerre Stellari”, il cd non ricordo, forse un cofanetto del Battisti ultimo periodo, quello con i testi di Pasquale Panella. Di libri ne comincio a leggere diversi al giorno ma ne finisco pochi. L’ultimo che ho iniziato è un profilo critico su Pietro da Rimini, il pittore del ‘300. A teatro ho visto il bellissimo “Sleep No more”.

Cosa dobbiamo attenderci da Davide Montecchi per questo 2017?

Ho scritto un secondo film. Ma sarà un progetto più grande e complesso, spero di trovare i fondi necessari al più presto.

Ed ora un omaggio a Marzullo : fatti una domanda e datti una risposta

“Cosa vuoi essere da grande?”  “Vivo.”

Che dire … segnatevi questo nome: entro pochi anni, ne sono certo, entrerà nel novero dei registi che contano nel nostro paese!

Davide Montecchi: da grande voglio essere vivo was last modified: maggio 6th, 2017 by L'Interessante
6 maggio 2017 0 commenti
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Sergio
CinemaCulturaIn primo pianoTeatroTv

Sergio Del Prete: un ragazzo timido, rinato grazie alla recitazione.

scritto da L'Interessante

Sergio

Di Christian Coduto

Arriva nei pressi di Piazza Plebiscito in perfetto orario. Sorridente come sempre. Ha un atteggiamento amichevole che suscita immediatamente allegria. Mi saluta in maniera educata e cordiale.

Un caffè nel celebre “Gambrinus” ci sta tutto. Soprattutto oggi pomeriggio: Napoli con il sole è la fine del mondo. Sergio, da persona socievole e abituata ad essere in contatto con tante persone, scherza allegramente con i camerieri. Sembra quasi di casa.

L’intervista sarà veloce, ritmata. Eppure, senza affanni. Tende a coinvolgerti, ad abbracciarti con le parole. “E’ una parte di Napoli che conosco molto bene” mi dice “Ho lavorato anche nel Tunnel Borbonico, tempo fa. Un’esperienza molto bella, quella di Noi vivi, ambientata durante la seconda guerra mondiale”.

Sergio Del Prete ci parla del suo percorso artistico.

Chi è Sergio Del Prete?

Un trentenne, della provincia di Napoli, che ama il mare e il cibo.

Quando hai capito che la recitazione avrebbe avuto un ruolo così importante nella tua vita?

Nel momento in cui ho visto che stava diventando il modo migliore che avessi per comunicare: un adolescente timido e riservato aveva finalmente trovato un modo per farsi “accettare”.

Il connubio attore/timidezza è piuttosto frequente. Molti sono i personaggi del mondo dello spettacolo che hanno delle piccole remore, che tendono alla riservatezza. Per molti di quelli che ho conosciuto ed intervistato era un fatto tangibile, evidente. Ammetto, stavolta, di essermi sbagliato: il modo in cui è seduto, il suo modo di parlare, persino l’abbigliamento riflettono una sicurezza incredibile. Forse, cerca di darsi un tono per non lasciare trasparire quei piccoli limiti che, inevitabilmente, ogni essere umano possiede. Apparire “imperfetto” (virgolette d’obbligo) non lo aiuterebbe a superare di certo il suo essere introverso. Un leone con un cuore tenero? Definiamolo così.

Sei un attore che si è fatto le ossa sul palco, in realtà più piccole e in produzioni importantissime. La gavetta sembra essere un optional, soprattutto per i personaggi (o presunti tali) che provengono dalla televisione. Come affronti questo involgarimento che sta subendo il teatro?

Come per tanti attori napoletani, le mie prime ispirazioni sono nate dalla grandezza di Eduardo, la genialità di Totò e la delicatezza di Massimo Troisi. Personaggi che trasmettono involontariamente, come tutti i grandi, il senso del sacrificio, che non è sempre una parola che deve far paura. La gavetta prevede anche una base di curiosità nell’artista, nel volersi confrontare con diversi metodi. Purtroppo viviamo nell’epoca del “tutto e subito”, dei “fenomeni del momento”. L’involgarimento non lo subisce il teatro, ma il suo mercato e, purtroppo il pubblico. Il teatro è molto più grande di tutti noi. È un involgarimento che deriva dai produttori che sono sempre più interessati, giustamente o ingiustamente, solo ai numeri e non ai numeri uniti alla qualità. Da attore non disprezzerei certo ruoli televisivi, ma cercherei allo stesso momento di avere sempre di più quella curiosità del bambino/attore di teatro.

Hai lavorato, in diverse occasioni, con un artista del calibro di Ernesto Lama. Ultimo in ordine cronologico, il bellissimo progetto “Anonimo napoletano”. Quanto è importante la sintonia con il regista per la resa sul palco?

Ernesto Lama è un po’ un mio “padre artistico”. Artisti geniali come lui ce ne sono davvero pochi in giro. Da diversi anni lui conduce laboratori, trasmettendo il suo sapere teatrale che è infinito. È uno di quegli artisti che il teatro glielo vedi negli occhi, nelle mani, nelle rughe. Impari osservandolo attentamente, osservando le sue infinite sfumature. La sintonia con un regista è decisiva ai fini dello spettacolo. Il regista non deve fare altro che stimolare all’ennesima potenza l’attore e farlo sguazzare nella sua libertà all’interno di un contenitore. L’attore per natura è libero, non lo puoi ingabbiare, ma lo devi accompagnare per mano. Se vuoi davvero il massimo da un attore lo devi stimolare, affiancare, non ingabbiarlo.

Un’altra esperienza importante: “Signori in carrozza”, con Giovanni Esposito, ancora Ernesto Lama e Paolo Sassanelli, che ne cura la regia …

La mia prima tournèe. Un’esperienza fondamentale per la mia carriera. Sono arrivato a questo spettacolo grazie ad Ernesto Lama che mi ha proposto al regista Paolo Sassanelli, che mi ha scelto dopo aver sostenuto un provino. La fortuna di aver lavorato in questo spettacolo sta nel fatto di aver avuto la possibilità della ripetitività. Si ha l’opportunità di “provarti” come attore ogni sera, di calibrare con il pubblico i tuoi tempi, i tuoi sguardi, i tuoi movimenti. Poi, avere l’opportunità di stare in scena con Ernesto, Giovanni e Paolo, non capita tutti i giorni. Questa opportunità l’ho sfruttata come una grande scuola, osservando la grandezza, i dettagli, i particolari, le piccole abitudini e manie di questi tre grandi artisti. Giovanni Esposito è tra gli attuali attori più bravi d’Italia a mio parere, un attore intelligente, dal quale devi rubare la sua grande professionalità e precisione. Con Ernesto impari tanto mestiere, è uno di quegli attori che sa perfettamente cosa accade alle sue spalle, uno che conosce i centimetri del palco in cui si trova, a memoria. Paolo Sassanelli invece è un poeta, il suo metodo inizialmente sembra essere scoordinato, ma alla fine ti accorgi che la sua regia è un orologio di poesia, un grande uomo. Una sua frase che non dimenticherò mai è: “Uno spettacolo bello lo fanno in tanti. Noi dobbiamo cercare di fare uno spettacolo straordinario”.

Per il Napoli Teatro Festival Italia 2016 reciti ne “La tempesta”, accanto a Michele Placido

 

Un’esperienza emozionante per diversi motivi. Prima di tutto incontrare Placido: ero un po’ intimorito da lui a dire il vero. Quando incontro grandi uomini di teatro e dello spettacolo cerco di relazionarmi a loro sempre con grande rispetto e riserbo, ma lui è una persona semplicissima, che ha il sud negli occhi.

Ma un’emozione ancora più forte l’ho provata perché ho recitato uno dei testi più belli, secondo me, della storia del teatro: la traduzione della “tempesta” di Eduardo De Filippo. Un testo che leggi e mentre lo fai ti batte il cuore forte. Ho recitato la parte di Calibano, lo schiavo orco dell’isola. In quella occasione, ho scoperto che Placido aveva interpretato lo stesso ruolo ben 30 anni prima.

 

Quest’ultima frase me la dice con una punta di orgoglio e di immensa soddisfazione. Sempre, però, nell’ottica del bambino che si avvicina al mondo del teatro: con stupore, curiosità, tenerezza.

Sei apparso in tv in un piccolo ruolo in “Un posto al sole”, ma soprattutto in “Sotto copertura 2”. Quali differenze hai trovato, in termini di approccio al personaggio, dinamiche, tempistiche, rispetto alla realtà teatrale?

Sono due mondi differenti. L’attore è un atleta e il cinema, la televisione e il teatro sono semplicemente sport differenti. L’approccio al personaggio cambia non solo in base al contesto/sport, ma anche in base al ruolo. Ci sono ruoli per i quali lo studio inizia tempo prima perché devi entrare in dinamiche di vita che non ti appartengono e da attore devi avere la lucidità di entrare e uscire da questa ad ogni ciak battuto. Li è tutto molto più veloce, soprattutto in televisione. La mia vita è in teatro, dove c’è il tempo di capire cosa stai facendo, dove sei e in che modo puoi esprimerlo. Il pubblico è lì, non si scappa, se sbagli sei fregato, ma sei fregato soprattutto con te stesso. Se svolgi il tuo lavoro come Dio comanda il pubblico lo riconosce sempre.

Al cinema sei stato diretto da registi del calibro di Guido Lombardi, Mario Martone, Sidney Sibilia. Cosa provi quando (e se) ti rivedi sul grande schermo?

Rivedo subito i miei limiti e i miei errori, sono molto critico con me stesso. Sono uno stakanovista, mi stanco raramente e cerco sempre di fare meglio, e credo si possa riuscire solo riconoscendo i proprio limiti e i propri errori.

Ecco, appunto: l’autocritica. Nel corso dell’intervista, ciò che avevo intuito all’inizio appare molto più chiaro, evidente.

Partecipi a “Caserta dream palace”, un maestoso cortometraggio diretto da James McTeigue. Credi che, da un punto di vista registico, gli artisti stranieri seguano dei percorsi differenti rispetto ai nostri cineasti? Intendo: emozioni da trasmettere, uso della tecnica e dei mezzi tecnici a disposizione, montaggio, direzione degli attori …

L’impressione che ho avuto è che in questi grandi progetti, nulla è lasciato al caso e tutti sanno perfettamente cosa fare. Tecnicamente sono straordinari, in Italia c’è ancora un metodo artigianale, che a mio parere non è sempre sbagliato. C’è una grande differenza artistica, credo che l’Italia da un punto di vista “industriale” debba ancora lavorare tanto, ma ci sono dei grandi artisti che spesso vengono schiacciati da dinamiche che di artistico hanno ben poco.

Un’altra collaborazione importante è quella con il regista Roberto Solofria: insieme a lui interpreti e dirigi “Chiromantica Ode Telefonica Agli Abbandonati Amori”, che state portando in tournèe da molto tempo. Ti va di parlarcene?

“Chiromantica ode telefonica agli abbandonati amori” è uno spettacolo che nasce perché io e Roberto Solofria, direttore del Teatro Civico14 di Caserta, che conosco da più di 10 anni, abbiamo sempre provato un amore forte per quegli autori coraggiosi che, negli anni ’80 a Napoli e in Italia, hanno dato una sterzata alla drammaturgia contemporanea e hanno dato vita ad un nuovo modo di fare teatro. Parlo di Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Giuseppe Patroni Griffi e Francesco Silvestri. Leggendo i testi di questi meravigliosi autori, non ci interessava però fare un semplice collage, ma unire i loro testi, come si unirono loro, collaborando, per le scene dell’epoca, inserendoli in un unico contesto che li rappresentasse. Leggendo i loro testi vennero fuori parole come: passione, amore, abbandono, telefono, gelosia, Napoli. Ci interessava unire questi testi a persone con una vita devastata, non considerata, ai margini della società, rinchiusi in quella gabbia che è metafora dell’impossibilità di andare verso quella libertà di amare, quella voglia di urlare il proprio abbandono. Ma a chi? Chi ascolta i due protagonisti? Chi ha il coraggio di liberarsi dai propri limiti? “Chiromantica ode telefonica agli abbandonati amori” é tra gli spettacoli più emozionanti e formativi che fino ad ora io abbia incontrato sul mio sentiero teatrale, perché racconta qualcosa che purtroppo, troppo spesso, si perde di vista: L’essenza. La sostanza. Raccontiamo quindi, la storia di due persone che denunciano il loro abbandono, la loro voglia di amare ed essere amati, con un velo di chiromanzia che magicamente contorna la dura verità del teatro. Cerco di non affezionarmi troppo ai miei lavori, personaggi, ma con “Chiromantica” è nata una storia d’amore, lo ammetto. È uno spettacolo che ho nell’anima, perché rispecchia esattamente la mia idea di teatro, la mia idea di vita, dice tutto di me, mi mette a nudo.

 

Teatro, cinema, tv, radio. Attore e regista. Quale pensi sia la collocazione più adatta a Sergio Del Prete?

La risposta può sembrare banale, ma sicuramente il teatro. È il mio modo di comunicare, è dove si ha la libertà. Viviamo in una società che ci costringe ad essere attori, a rispettare dei ruoli che non vogliamo, ma che siamo costretti a rispettare, in teatro invece c’è la libertà di esserlo. Nel privato infatti sono molto riservato, ho pochi amici fidatissimi, a teatro invece mi esprimo apertamente, riesco a fare quello che voglio, rispettando sempre le regole del gioco. Come dicevo prima, mi metto a nudo. Ah mi colloco anche benissimo in cucina, adoro cucinare quanto amo fare l’attore (scoppia a ridere).

Domanda multipla: ultimo film visto al cinema, ultimo cd acquistato, ultimo spettacolo teatrale al quale hai assistito.

Ultimo film, “la vendetta di un uomo tranquillo” di Raúl Arévalo e mi è piaciuto così così

Ultimo cd, l’ennesimo di Pino Daniele. Ho una passione maniacale per Pino Daniele e per la sua musica. Mi manca tanto.

Ultimo spettacolo, Play duet, con Tonino Taiuti e Lino Musella, meraviglioso spettacolo.

Cosa dobbiamo attenderci da Sergio Del Prete per questo 2017?

Spero spettacoli belli da far vedere, però appena lo so pure io te lo dico.

Termino con una domanda Marzulliana : fatti una domanda e datti una risposta

Cosa avresti fatto, se non avessi iniziato a fare l’attore? Non ho la più pallida idea, è l’unica cosa che riesco a fare. Forse il cuoco.

Un incontro interessante, il nostro. Un’anima da studiare, da conoscere meglio. Di sicuro, un uomo dalle grandi doti attoriali.

Sergio Del Prete: un ragazzo timido, rinato grazie alla recitazione. was last modified: maggio 6th, 2017 by L'Interessante
6 maggio 2017 0 commenti
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Vincenzo Comunale: la profonda ironia di un ventenne

scritto da L'Interessante

Di Christian Coduto

In occasione dell’ultimo spettacolo della stagione del Drama Teatro Studio (Via Piave 195, Curti) di Rosario Copioso e Dario Pietrangioli, incontriamo oggi l’attore comico Vincenzo Comunale. “Sono confuso … ma ho le idee chiare” da lui scritto e interpretato, è una pochade ironica, ricca di battute pungenti, mai volgari. Sorprendentemente matura, nonostante la giovanissima età dell’autore. Si affrontano temi quali l’essenza della nascita e della vita, la difficoltà di trovare un lavoro, con un occhio alla politica che profuma di freschezza e originalità; un’analisi quasi filosofica. Si ride di gusto, ma si è protesi a ragionare, con un pizzico di amarezza. Il pubblico applaude ripetutamente. Al termine dello spettacolo, ci sediamo dietro le quinte e parliamo un po’.

Vincenzo è socievole, spiritoso, simpatico. “Beh è un comico, ci mancherebbe!” qualcuno potrebbe dire, ma non è così: tanti attori che hanno fatto della risata il loro punto di forza nel lavoro, nella vita privata sono decisamente malinconici. Lui preserva invece quella positività trascinante, contagiosa. E’ rilassato, molto soddisfatto dell’andamento della serata. Ascolta con attenzione ciò che gli viene detto. È una spugna: assorbe e ne fa tesoro. Ha un animo di una persona più adulta.

Vincenzo Comunale si racconta.

Chi è Vincenzo Comunale?

Un ragazzo di 21 anni, napoletano, uno studente universitario che si diletta a fare il comico! Un monologhista comico che cerca di trasformare la sua passione in un mestiere vero e proprio. Alcune esperienze importanti ci sono già state, sarà il tempo a decidere (sorride).

Il tuo mito è Massimo Troisi. Però hai una tua personalità ben definita. Quanto tempo c’è voluto per forgiare la tua vena artistica?

Credo che la personalità artistica sia la rivelazione del proprio talento. Ha dei tempi, è un continuo work in progress. Non puoi mai dire di essere arrivato. Il grande Totò diceva che i comici iniziano ad essere interessanti a 40 anni, io ne ho 21 figurati! (Ridiamo). Mi sto creando uno stile, scrivendo i testi dei miei spettacoli, nella postura, cercando di evitare la banalità e la volgarità. Allo stesso tempo, però, credo che nella costruzione di ogni identità sia necessario un punto di riferimento. Non amo solo Troisi, ma anche Vincenzo Salemme, Woody Allen, Jim Carrey, Enrico Brignano. Poi, ovviamente, svincolarci dai nostri modelli è la parte più difficile. Considera anche questo: fare il comico, a Napoli, è un po’ come fare il calciatore ed essere argentino … ti paragoneranno sempre a Maradona!

Che cosa fai nel tempo libero? Dove trovi l’ispirazione per ciò che racconti?

Un comico, a mio parere, è una sorta di medico: non è mai fuori servizio. Deve avere i recettori della risata sempre pronti a captare qualcosa, una ispirazione. E’ necessario un occhio vigile nei confronti della realtà, i nuovi linguaggi e così via. Solo così puoi portarli sul palco nella maniera più opportuna. In effetti, tra l’università e questo lavoro, non è che io abbia molto tempo libero, ma non disdegno le uscite con gli amici o un buon film.

Ci parli un po’ della tua esperienza a “Zelig”?

La realizzazione di un sogno! Sin da piccolo, mentre i miei amici sognavano di diventare calciatori, io volevo partecipare a questo programma televisivo, giuro! Ho sempre avuto le idee molto chiare, al riguardo. E’ stato bellissimo ritrovarmi accanto ad artisti che stimo; condividere il camerino con il Mago Forest e Ale & Franz per me è stata una grandissima emozione. L’ho considerato un punto di partenza, non di arrivo, ovviamente.

E’ un ragazzo pratico, ragiona su ciò che vuole fare e, solitamente, lo fa nel migliore dei modi. Parla di questa esperienza con orgoglio, gli occhi gli brillano, poi ritorna subito con i piedi per terra. Dice di essere una persona normale. Un termine che non deve essere frainteso: è normale il suo modo di vivere, senza vantarsi, senza divismi. E’ straordinaria invece la sua sensibilità.

Sei abituato a lavorare sia in teatri grandissimi, sia in realtà off come il “Drama” di stasera. In termini di empatia con il pubblico, quali differenze ci sono?

Contrariamente ad alcuni comici che, quando vedono una platea piena, hanno paura, io mi faccio forza, mi sento a mio agio. La risata si diffonde a macchia d’olio: è contagiosa. Gli spazi piccoli sono l’ideale per serate di laboratorio, per testare battute e pezzi. Come soddisfazione personale, un teatro enorme (a Zelig erano 2500 persone) è un’esperienza formativa. L’emozione c’è sempre, sia chiaro. Considera che la mia palestra è stata il Teatro Diana, un pubblico importante da 800 posti a sedere. L’empatia si può creare con 10, 100, 1000 spettatori. Un comico deve essere camaleontico e riuscire ad adattarsi alle varie situazioni.

La comicità non è mai fine a se stessa. Non si può fare ridere dall’inizio alla fine, senza un momento di riflessione. E’ necessario il retrogusto amaro, che i tuoi monologhi hanno senza ombra di dubbio …

 

Ti ringrazio per questa osservazione. E’ semplicemente un diverso modo di pensare. La mia filosofia comica, se possiamo definirla così, si basa proprio sulla meditazione. Credo che l’ironia sia uno strumento potentissimo per comunicare. Questo linguaggio va riempito di messaggi. Esiste anche una comicità fine a se stessa. Non la condivido, non la porterei sul palco, ma la rispetto.

Solitamente, quanto tempo impieghi per scrivere un monologo?

 

Dipende, non c’è una durata ben definita. Ci sono monologhi che hanno richiesto pochissimo tempo: l’ispirazione è stata folgorante, poi sono stati testati in scena e sono stati arricchiti. Altri pezzi, invece, hanno richiesto una gestazione decisamente più lunga.

Cosa dobbiamo attenderci da Vincenzo Comunale per questo 2017?

Questo non lo so nemmeno io! A parte la battuta, mi aspetto di continuare a fare quello che sto facendo: serate, live e così via. Lavorerò sia con il gruppo dello Zelig lab Salerno sia in proprio, con altri miei spettacoli da portare in giro nei locali e nei teatri.

 

Omaggio a Gigi Marzullo : fatti una domanda e datti una risposta

Uh, bella questa! Allora : qual è la domanda più difficile che potrebbero farmi? Questa! (ridacchia).

In bocca al lupo!

Vincenzo Comunale: la profonda ironia di un ventenne was last modified: aprile 27th, 2017 by L'Interessante
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PINA-TURCO-8
CinemaCultura

Pina Turco: sì, era proprio questa la vita che volevo

scritto da L'Interessante

Di Christian Coduto

Mi dà appuntamento in un bar in periferia di cui non conoscevo l’esistenza, lo ammetto. “Non perché io sia sofisticata o radical chic” chiarisce subito “Semplicemente perché ho una voce talmente squillante che mi farei sentire da mezza Caserta”. All’incontro arriva puntualissima. Indossa una camicetta bianca, che mette in risalto la sua gravidanza. “Sono al sesto mese, ci siamo quasi”. Ha un sorriso incantevole, in cui è facilissimo perdersi. Gentile, rilassatissima, si accarezza il pancino. Riesce ad essere armoniosa nei movimenti, nonostante il piacevole ingombro. Ride in modo contagioso. Dà l’idea di essere una donna attiva, che si rimbocca le maniche. Non c’è tempo per essere indecisi, la vita corre. Troppo. Mi chiede se ho visto il suo ultimo film, “La parrucchiera” e cosa ne penso. Affronta l’intervista come se fosse per lei la cosa più naturale del mondo. Ha una bella notorietà, ma non ama sbatterla in faccia a nessuno. Pragmatica, concreta, ha i piedi fortemente radicati al suolo. È l’immagine della forza di volontà.

Pina Turco parla delle sue esperienze artistiche.

Chi è Pina Turco?

Pina Turco è una ragazza della provincia di Napoli, di Torre del Greco precisamente. Solare  e divertente, ma con un profondo lato oscuro. Ora però ha un sorriso nuovo, aperto. Uno sguardo lucido e un senso critico spietato verso se stessa.

Quando nasce il tuo amore per la recitazione?

Ho sempre amato questo lavoro, l’ho sempre desiderato! Il mio futuro, come quello di ognuno, è arrivato come un servo lento, ma fedele. Devi sapere che non ho avuto una formazione attoriale classica. E’ stata una scelta mirata: non volevo essere schiava della mia passione, volevo amarla sempre, anche da lontano, anche quando non si faceva cingere, ma volevo esserne allo stesso tempo libera per dominarla. Solo così facendo anche lei ha amato me, non ci siamo mai asfissiate! (Ride)

Tanta popolarità come Maddalena De Luca in “Un posto al sole”. Un personaggio “scomodo” perché mette in crisi il lunghissimo rapporto d’amore tra Silvia e Michele.

Quello di Maddalena è stato un duro colpo per i fan di “Un posto al
Sole”, ne ero consapevole. Tantissime persone mi scrivevano , mi odiavano , volevano che io trovassi un’ altra storia all’interno della serie. Per fortuna la coppia ha resistito ed è stato un bene per tutti, anche per me! (Scoppiamo a ridere)

Tra pochi mesi diventerai mamma. In un paese (piuttosto) maschilista come il nostro, quello della gravidanza è un momento molto delicato. Sei una donna estremamente pratica ed intelligente, come bilancerai il tuo lavoro di attrice e quello di mamma?

Non ne ho la minima idea, non voglio essere ansiosa. A mano a mano che si presenteranno le cose, cercherò delle soluzioni più adeguate per il bene mio e della mia famiglia. Per fortuna ho un compagno straordinario (il regista Edoardo De Angelis N.d.R.) che mi segue in ogni passo e che condivide con me qualunque tipo di decisione.

Sei una bravissima attrice, ma anche una bellissima donna. Nel mondo dello spettacolo, spesso le due cose sembrano essere incompatibili. Quanto è stato impegnativo riuscire a convincere delle tue qualità artistiche?

Per fortuna la mia bellezza è un orpello che ho messo a favore dei personaggi che ero chiamata a rappresentare, per cui l’ho sempre utilizzata in maniera funzionale. Nella vita privata mi è servita a conquistare il mio futuro marito. Beh … ha fatto il suo dovere.

Quest’ultima risposta mi spiazza di nuovo. Non ha tempo da perdere nell’autocompiacimento. E’ consapevole di avere delle qualità, certo, sa di essersi meritata quello che ha ottenuto.  Eppure sono argomenti, per lei, di cui si potrebbe quasi fare tranquillamente a meno. Ha interpretato un ruolo? E’ piaciuto al pubblico e alla critica? Benissimo: è arrivato già il momento di andare avanti e pensare ad altro, ad un nuovo progetto.

Diretta da Marco Risi, reciti in “Cha cha cha”, accanto a Luca Argentero. Che ricordi hai di questa esperienza?

Marco Risi è un regista stupendo! Ci sono opere della sua carriera a cui sono molto legata. Vedevo i suoi film, da piccola, e mi sembravano le cose più belle a cui potessi assistere. Ho una stima infinita per lui. Mi ricordo tante prove, prove, e ancora prove … balletti e cha cha cha. Mi sono divertita tanto, ne avevo la forza e l’entusiasmo, è stato emozionante.

Parliamo di “Una grande famiglia?”

Riccardo Milani è stato una scoperta per me. Lo conobbi al cinema per “Auguri professore”, un film con Silvio Orlando che ho amato molto. Credo sia il suo film
più bello. “Una grande famiglia” … l’unico set che io abbia fatto al nord … lo ricorderò per forza. La Brianza non è esattamente la mia terra, quindi l’esperienza mi ha entusiasmato. Un ruolo di qualche puntata, ma divertente. Primo Reggiani mi cantava le canzoni neo melodiche, mi sentivo un po’ a casa (sorride).

Debora Di Marzio e “Gomorra – La serie tv” … un argomento di cui nessuno ti chiede mai notizie, vero?

Debora è stata la bomba della mia vita, come “Gomorra” d’altro canto. C’è una scena alla quale sono molto legata, quella del parco, quando cerco la mia bambina, la adoro! Poi, però, se penso a quante mazzate ho preso e dato durante la colluttazione nella scena finale con Marco D’Amore, allora mi passa tutta l’euforia! (Ride a crepapelle) Scherzo, ovviamente. “Gomorra” è stata un’esperienza dolce e potente, non la dimenticherò mai
più. Ero così felice, soprattutto durante la lavorazione della prima serie, che se ci penso mi faccio tenerezza da sola. Ero piccola … e quelle mazzate mi sono servite, in tutti i sensi! Il fatto che ora, ne “La parrucchiera”, ci sia Cristina Donadio, mi fa pensare un po’ che il mio cordone non si sia del tutto tagliato con la serie. Ho un profondo legame con Cristina: lei e le sue cose mi appartengono sempre un po’. Scusate se mi permetto, ma l’affetto è affetto.

Nel 2015 una nuova esperienza, per te: il cortometraggio “Bellissima” del quale sei sia autrice sia produttrice. Come ti sei ritrovata in queste vesti?

Benissimo! Amo scrivere. “Bellissima” è stata un’esperienza libera e divertente e per questo vincente. Ho seguito ogni fase della lavorazione, soprattutto quella attoriale , Giusy Lodi resta la mia migliore scoperta, ne vado fiera. La sua voce mi emoziona, il suo modo di fare è geniale. Io, Alessandro Capitani e Gennaro Marrazzo abbiamo tratto solo beneficio da questo piccolo capolavoro, per me preziosissimo: io ho conosciuto il  mio futuro marito, Alessandro sta per girare un lungo e Gennaro Marrazzo è ormai un affermato casting director, meglio di così non sarebbe potuta andare! Sono felice perché abbiamo
avuto la “Fortuna del principiante”. Abbiamo lavorato un’estate intera per poterlo produrre come desideravamo e fare tutto in una maniera fluida; sono stata aiutata da tantissime persone preziose. Un gran lavoro.

Sei la protagonista assoluta del film “La parrucchiera” di Stefano Incerti, in questi giorni nelle sale. Una commedia colorata, ma con un retrogusto amaro …

Dopo “Gomorra” mi è arrivata una telefonata da parte di Cristina Donadio; ero a Milano con Edoardo, stavamo ritornando da Cannes. L’idea mi fare un film con lei, con un soggetto così insolito, mi divertiva tanto. Ho letto la sceneggiatura e ne ho parlato con Edoardo. Ho conosciuto Stefano, abbiamo lavorato con una lena insolita. Così è nata Rosa. Tutti i miei personaggi hanno una vena amara, questo li rende veri, sinceri, puri. Ho avuto un profondo rispetto per Rosa: il suo bisogno di volersi ritagliare un posto nel mondo mi commuove ancora.

La Rosa del film è una lavoratrice, ma anche una mamma che ama incondizionatamente il figlio combina guai e una donna che ama. Un personaggio multi sfaccettato. Ti è piaciuto interpretarlo?

E’ stata un’avventura all’arrembaggio, un’atmosfera felliniana. Ho amato Rosa sin dal nostro primo incontro. Sapevo che solo io avrei potuto darle lo spessore che meritava. Ho molto rispetto del mio lavoro e dei miei personaggi. Nonostante i suoi limiti,  Rosa è pura, una ragazza selvatica se vuoi, ma che impara con il tempo a credere in se stessa e questo fa pensare.

Il film inneggia all’amore multirazziale, ma non solo: Carla (interpretata da Stefania Zambrano) è una donna transessuale che lotta per preservare la sua dignità, perché vuole amare chi vuole, perché è se stessa e si vuole bene in quanto essere umano. Un messaggio di grande apertura. Ma questo è il cinema … come la vedi la situazione attuale, nella realtà? Credi che ci sia ancora molto da fare?

Molto, molto, molto e molto ancora! Non si finisce mai  di migliorare, di crescere, di sfidare i propri limiti. Personalmente ho conosciuto poche donne con la femminilità spiccata di Stefania Zambrano e l’amore per se stessi è la base di ogni sano vero amore, l’amore
per la dignità genera qualsiasi altro tipo di amore, senza quello l’amore non esiste, esiste lo sfizio amoroso, l’amoretto, come direbbe lo scrittore Javier Marías, ma il vero amore parte da quello verso se stessi.

Io mi occupo di cinema. Qual è il film della tua vita e perché?

Il film più bello della mia via nasce tra fine luglio e metà agosto. In seconda posizione
c’è Bogart con “Casablanca” che mi ha spiegato cosa sia un uomo. Infine c’è “Bellissima” di Visconti che mi ha spiegato cosa sia una donna e una mamma, direi che sto bene così. (Sorride)

Il parto ricorre spesso nel corso della nostra chiacchierata. Ma come darle torto? Per una donna è un momento delicato, importante, un turning point nella sua vita. Ogni volta che ne parla, le brillano gli occhi.

Cosa dobbiamo attenderci da Pina Turco per questo 2017?

Allora … quello che mi aspetto io: un figlio prima di ogni cosa! Ho un film in cantiere, ma
non aggiungo altro, permettimi un bel po’ di scaramanzia …

Concludiamo con una domanda alla Gigi Marzullo : fatti una domanda e datti una risposta

“Era questa la vita che volevo?” … Beh  l’ho costruita, me la sono inventata partendo dal nulla, l’ho desiderata e amata, plasmata, costruita e sudata. Sì, era proprio quello che volevo! 

Con la stessa grazia, Pina si alza e mi saluta garbatamente.

Sì … sono sicuro: sarà una splendida mamma.

Pina Turco: sì, era proprio questa la vita che volevo was last modified: aprile 27th, 2017 by L'Interessante
27 aprile 2017 0 commenti
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Aurelio de Matteis
CinemaCulturaIn primo piano

Aurelio De Matteis: un attore alla ricerca dell’amore

scritto da L'Interessante

Aurelio.

Di Christian Coduto

Avevo già incontrato Aurelio De Matteis alcuni anni prima, in occasione di uno spettacolo teatrale: preciso, attento, rigoroso, era riuscito a dare forma ad un personaggio difficile, con una naturalezza e una spontaneità che mi avevano lasciato basito. Ho modo di rivederlo, oggi pomeriggio, per parlare del suo ultimo progetto, lo spettacolo “Acqua Santa” (da lui diretto insieme a Costantino Punzo) e delle sue tante esperienze artistiche. Al telefono mi ha chiesto di incontrarci a Piedigrotta, nel Parco Vergiliano. In attesa del suo arrivo, lancio più di un’occhiata alla tomba di Giacomo Leopardi. Ogni volta che metto piede, qui, l’effetto è sempre lo stesso: il tempo e lo spazio diventano un tutt’uno, è facile perdersi in questo vortice informe. La mente vaga liberamente. Ogni elemento stuzzica il ricordo, ogni immagine crea un’epifania. Sono talmente impegnato ad osservare i particolari dell’entrata del Colombario di Virgilio che non mi accorgo di averlo alle spalle. Mi giro e rimango sorpreso: mi ricordavo di un viso e di un corpo più tondeggianti, ma questi hanno lasciato spazio ad una silhouette longilinea. Gli dico che lo trovo in splendida forma. Mi ringrazia timidamente. Ha un abbigliamento vagamente retrò, decisamente dandy. Ha un portamento nobile, che fa pendant con il suo cognome. E’ come se mi trovassi di fronte ad un’altra persona; eppure, c’è un qualcosa che non è cambiato: quello sguardo così attento e profondo. Quegli occhi che rivelano uno stato di malinconia perenne. O, alternativamente, di ricerca continua. Nelle parole, nei gesti, nei respiri. Propri e delle persone che lo circondano.

Ci accomodiamo su una panchina del Parco. E’ una giornata caldissima. Gli odori e i colori della Natura sembrano entrare a far parte della nostra chiacchierata.

Nel corso dell’intervista mi osserva con attenzione. Mantiene sempre lo sguardo. È misurato, contenuto, pacato nei toni. Parla tantissimo. “Sono logorroico, me ne rendo conto!” si scusa, con un’ingenuità quasi adolescenziale. Eppure affronta temi importanti, assaporando le parole, dando loro la corretta intonazione e l’adeguato significato.

Aurelio De Matteis si racconta

Chi è Aurelio De Matteis?

Allora, questa domanda già mi mette seriamente in crisi, lo sai? In realtà, io ancora non lo so! Forse, non lo saprò mai! (Ride) La propria esistenza è un costante mistero, un enigma. Devi sapere che io non amo molto le definizioni. Le lascio agli altri e mi diverte ascoltare ciò che gli altri pensano di me. Ecco perché, forse, preferisco la domanda “Chi potrebbe essere Aurelio De Matteis?”. Una cosa che cerco di scoprire giorno per giorno. La mia idea è che non siamo esseri definibili. Se proprio vogliamo sforzarci a fare un ”calcolo” , io non andrei per somme o aggiunte, bensì per sottrazione: credo che la vita ci tolga qualcosa. La convinzione che i genitori ci proteggeranno in eterno, per esempio. Ci toglie la lucidità mentale. Ciò che ci caratterizza, in effetti, è che noi rimaniamo un’energia in cerca di uno scopo. E questo scopo per me rimane l’amore. Senza amore non resta nulla. Forse, ripeto, forse solo alla fine del nostro percorso riusciamo a capire ciò che siamo stati. È un discorso anomalo, piuttosto filosofico, me ne rendo conto, ma sono fatto così.

Aurelio e la recitazione. Una lunga storia d’amore. Quando è nata?

Il teatro è stato sempre presente nella mia vita. Io provengo da una famiglia di artisti. Sono imparentato con la famiglia Maggio e Luisa Conte; è la prima volta che lo dico. Ho iniziato tanti anni fa, credo fosse il 1994, con Pino De Maio. Sai come succede, si inizia a “giocare”. Poi, anno dopo anno, quello che era un innamoramento, un’infatuazione, si è trasformato in una vera e propria scelta. La decisione di convivere. Una scelta definitiva (e di cui non potrei mai pentirmi) che ho preso nel 2009, quando ho abbandonato il mio vecchio lavoro; guadagnavo bene, ma non ero felice, non era quella la mia strada. Quella scelta mi ha tolto tutto da un punto di vista economico, ma i sacrifici mi hanno permesso di eliminare il superfluo, tutto quello di cui non avevo effettivamente bisogno. Ho fatto entrare nella mia vita i colori delle emozioni e il favoloso inganno delle parole. Sì perché la parola è un’arma, da usare con cautela. Basta sbagliare un’intonazione e quella parola viene fraintesa. Però, allo stesso tempo, rappresenta un mondo estremamente affascinante di cui non possiamo fare a meno. Io amo parlare, si era capito, vero? (Scoppiamo a ridere) Ho avuto la fortuna di incontrare, lungo il mio cammino, dei maestri incredibili che mi hanno formato, tra le pieghe delle quinte e i drappeggi del sipario. Ho osservato tanto, ho fatto esperienza e tanta gavetta. Agostino Chiummariello, Fortunato Calvino, Vincenzo Borrelli, Tonino Taiuti, Paolo Spezzaferri, Costantino Punzo mi hanno insegnato tanto, con i loro diversi modi di vivere l’arte. Ma ho avuto la fortuna di lavorare anche con giovani talenti, come Maurizio Capuano, Vittorio Passaro, Giuseppe Fiscariello e Franco Nappi. Con quest’ultimo abbiamo realizzato recentemente “Il ritratto di Dorian Gray”, con Roberta Astuti. Volevo aggiungere questo: per me essere attore è un modo di essere e non di apparire. Io non amo molto apparire. Non vado alla ricerca smodata dell’ovazione, dell’applauso. Io trovo l’espressione di me stesso nel momento in cui vivo quella cosa. Ciò mi permette di scoprire tante cose di me. Adesso, forse, deluderò o sorprenderò qualcuno, ma io non ho la passione per il teatro, bensì per la vita. Se non avessi la passione per la vita, non potrei esprimermi attraverso il teatro, perché nella recitazione io vivo fino a consumare ogni singolo istante della mia esistenza, che poi svanisce in quel momento. L’attore è consapevole di questa sua dolce condanna: quello che vive, nasce e muore in quell’istante. In effetti mi ritengo un eroe tragico (ride di gusto).

Le tue esperienze artistiche spaziano da Pirandello fino ad arrivare a Plauto, passando per Scarpetta. Tanti mondi diversi, che richiedono una differente immedesimazione. Ti piace recitare nel tuo dialetto? Ci sono artisti che sembrano rinnegare le proprie origini, incomprensibilmente.

Allora, quelli che rinnegano le proprie origini mi fanno piuttosto sorridere, sono sincero. Disconoscere il proprio tessuto culturale, a mio parere, ti impedisce di trasmettere qualcosa di te. Non si può non tenerne conto, ti pare? Forse sarebbe opportuno cercare di capire cosa spinga una persona a rinnegare le proprie origini, le proprie tradizioni. Forse per fare la figaiola nei salotti culturali. Io amo il mio dialetto: il napoletano ha una musicalità meravigliosa. E’ una lingua vera e propria, il cui fascino risiede nel fatto che si è arricchita nel corso del tempo, si è evoluta. La tradizione deve essere presente, senza però esserne schiavi. Bisogna rivalutarla, viverla, reinterpretarla.

Le mie esperienze variano tanto, è vero, però l’approccio è sempre lo stesso, nonostante  gli obbiettivi siano differenti. Alla base, c’è sempre tanta formazione e tanto studio.

Nel 2013 sei il protagonista assoluto di uno spettacolo molto intenso e delicato “Silvia ed i suoi colori”, ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto. Ti va di parlarcene?

Ti dico una cosa che non ho mai detto: io vengo da Scampia. Ho vissuto lì per venti anni. La morte di Silvia Ruotolo me la ricordo molto bene. Vivere a Scampia non è semplice, te lo garantisco. Lì vivevamo una doppia condanna: l’impossibilità di fare davvero qualcosa e l’abbandono delle istituzioni. Adesso le cose sono migliorate tantissimo, per fortuna. Nel mio rione non si spaccia più. I bimbi con i quali giocavo non ci sono più, lo dico con dolore. Io mi sono salvato per caso, perché ho avuto una famiglia solida alle spalle, mi ha salvato la cultura. Tanti anni fa, una sera, chiesi a mio papà di raccontarmi una fiaba. Lui, per tutta risposta, prese un’enciclopedia e mi lesse alcuni miti e leggende dell’antica Grecia. In particolar modo, mi parlò di Prometeo, un’immagine che mi ritorna spesso in mente quando vado a Scampia e, in generale, nella vita. Avere il coraggio di andare oltre e di sopportare con dignità la pena, senza risparmiarsi mai. Tornando allo spettacolo, diretto da Agostino Chiummariello e scritto da Roberto Russo, posso dire con orgoglio che ha ricevuto delle recensioni splendide. E’ stato definito uno dei testi più belli sul tema della camorra. Siamo abituati ad altri brand, ora. In questo spettacolo il termine camorra non esce mai. E’ un inno poetico alla vita e all’amore. Ci soffermiamo solo sulla bruttezza delle cose, troppo spesso. Silvia continua a vivere attraverso gli occhi dei suoi figli, che ho avuto l’onore di conoscere. Vive attraverso il ricordo dei suoi amici, di suo marito. E’ uno spettacolo molto intenso da vivere. Tanti si sono commossi. Spero che lasci un insegnamento: quello di non abbattersi mai. Lo abbiamo rappresentato a Padova, dove ho avuto modo di parlare con alcuni ragazzi di un’associazione dedicata proprio a Silvia Ruotolo.

La camorra si evolve, si trasforma, assume forme sempre diverse. Bisogna rimanere sempre in guardia.

Qual è l’esperienza teatrale alla quale sei più legato?

(Ci pensa un po’). Allora, non mi lego alle opere di cui sono protagonista. Le affronto tutte allo stesso modo, anche quelle il cui testo non mi appartiene. Pur tuttavia, ci sono due esperienze alle quali sono legato, ma per fattori extra teatrali. In primis, mi ricordo quando Costantino Punzo mi scelse per la versione teatrale de “Il Postino” nel ruolo che fu di Massimo Troisi. Lui è stato il fondatore del “Centro Teatro Spazio” proprio insieme a Troisi. Una grandissima emozione. Lo spettacolo venne rappresentato anche in occasione del ventennale della morte di questo grande artista, proprio nel “suo” teatro, a San Giorgio a Cremano. Con Costantino, da allora, è nata un’amicizia indissolubile e una grande collaborazione artistica.

Poi sicuramente “Filosofia in vestaglia“, un progetto che fra poco compirà un anno. Ma su questo sono più riservato e non ti dirò il perché (ride).

Certo, la bellezza di questo lavoro è proprio quella di poter conoscere le persone, di analizzare i particolari. Nella vita, questo, non accade sempre purtroppo. La gente non ne ha la voglia o il tempo.

Il tuo ultimo progetto è “Acqua Santa” in cui si parla di omosessualità al femminile. E di omofobia. La storia è ambientata nel 1800. A tuo parere, le cose sono davvero completamente cambiate?

Purtroppo no, non credo che le cose siano cambiate. La storia di Annina e Maddalena, nello spettacolo, viene rappresentata con la massima brutalità. Forse, una volta c’era un tipo di omofobia “leonina”. Di fronte al diverso si ruggiva, i ragazzi o le ragazze omosessuali venivano sbranati e gettati via. Adesso, invece, si è creato un qualcosa di più pericoloso: c’è un’omofobia “volpina”, che si esercita con battutine, sguardi superiori, paletti anche giuridici. Qualcuno può sorridere di fronte alle sentinelle in piedi, ma sono sintomo di un qualcosa di molto preoccupante. E’ un’omofobia nascosta, latente, che opera tra le pieghe. “Acqua Santa” è la coppa della tolleranza, che noi non abbiamo ancora bevuto. C’è ancora tanto lavoro da fare, troppo. Lavorare con Ares e Marilia Marciello è stato davvero bellissimo. Nel momento in cui non si saranno più le definizioni etero, gay, lesbica, trans, bisex, ma solo la parola amore allora avremo superato tutti gli ostacoli.

Più che un’intervista, sembra una seduta dallo psicologo. Glielo dico, si dimostra d’accordo. Ha un piglio filosofico nei confronti della vita. Ha una profondità di quelle rare: analizza ogni frase, controlla il ritmo della conversazione, rielabora le mie osservazioni. È uno scambio estremamente stimolante. Mi dice che uno dei suoi più cari amici, Armando (laureato in filosofia) ama confrontarsi con lui perché (parole sue!) “Non capisce nulla di filosofia e lui gli apre nuovi mondi!”.

Sceneggiatore, attore, regista. Qual è la tua connotazione più naturale? E’ vero che sai anche suonare l’armonica a bocca?

Ah ah ah! Ma come fai a saperlo? Per me la musica è una componente della mia quotidianità. Ascolto ogni tipo di musica, non sono legato a nessun gruppo musicale, a nessun genere, non faccio distinzione. Però preferisco la musica, rispetto alla canzone. Mi aiuta a riflettere, a rilassarmi. Ci sono delle melodie che, insieme ad alcuni odori, riportano alla mente dei momenti meravigliosi che ho vissuto. L’armonica è una vera e propria estensione di me, anche se è entrata da poco nella mia vita. In precedenza ho suonato la chitarra. Alcuni amici mi hanno consigliato questo strumento, anche perché è pratico, comodo. Anche in relazione al mio modo di vestire, che è piuttosto ricercato. Sogno di suonare il blues e il country, punto in alto! Al momento, però, le uniche melodie che ho imparato sono “Imagine” e “Nearer my God to thee”, che è stata l’ultima melodia suonata dall’orchestra sul Titanic, prima della tragedia. Siccome sono ateo, sostituisco God con man, ovverosia uomo. Così la canzone diventa “Più vicino a te, uomo”.

Per ciò che riguarda la mia connotazione più naturale, ovviamente è quella di essere attore. Leggo e scrivo tantissimo (racconti, pensieri, poesie). Mi piacerebbe scrivere delle sceneggiature, al momento ho realizzato solo qualche adattamento, ma c’è bisogno di studio. Ho una mentalità ancora troppo attoriale.

Aurelio De Matteis, da attore di teatro, qual è la tua posizione nei confronti di chi esce da un reality in cui lo scopo è quello di spalare le feci in Nicaragua e si ritrova all’improvviso ad interpretare 15 film da protagonista?

(Ride a crepapelle) Christian, sono sincero: non guardo mai la televisione. Il mezzo televisivo ha una cassa di risonanza che può essere pericolosa. Può creare una notorietà effimera. Purtroppo siamo abituati ad affezionarci a persone che “vivono” in una scatola (anche se adesso sono dei quadri veri e propri!). C’è un approccio superficiale, inutile, all’arte, ma con chi dovremmo prendercela? Con chi guarda questi programmi o con chi ce li propone? A tal proposito, ti racconto questa cosa: venni invitato ad esibirmi all’interno di un premio teatrale come guest. Io, che mi esibii con due maschere (una neutra e una di Pulcinella) interpretando un monologo che avevo scritto, chiesi solo che non venisse detto il mio nome al termine della performance. Non per snobberia, ci mancherebbe. Il messaggio era un altro: non è importante chi indossa la maschera, ma la maschera in quanto tale; l’emozione, l’idea erano tutto ciò che contavano davvero.

Quali sono i tuoi attori preferiti?

(Spalanca gli occhi) Guarda, farei prima ad elencarti quelli che non amo. Ci sono sicuramente attori che studio continuamente: Leo de Berardinis e Perla Peragallo, per esempio. Tra le altre cose, erano anche una coppia nella vita. Credo che non ci sia niente di più bello che creare arte insieme alla persona che ami, è un miracolo della vita. Adoro anche Roberto Latini e Federica Fracassi. 

Ed ecco che ricompare la parola amore. Mi domando cosa spinga questo ragazzo a ricercare questa emozione in ogni gesto della sua vita. E’ una forma di salvezza, forse? La necessità di un porto sicuro per evadere dalle brutture che ci circondano? Un completamento in quanto essere umano? Chissà. Oppure nulla di tutto ciò. Tanto è inutile chiederglielo: la sua mente, nel frattempo, ha già elaborato mille altri pensieri.

Io mi occupo di cinema. Il mondo della celluloide attinge dal teatro e viceversa. Qual è il film della tua vita e perché?

Ecco un’altra domanda che mi mette in crisi! Amo tantissimi film che associo, come la musica, ad altrettanti momenti della mia vita. Adoro il cinema di Aleksandr Sokurov, di Emir Kusturica e di Stanley Kubrick. Sono poetici, viscerali, pieni di vita. A questo punto dovrei cambiare la domanda in “Qual è il film che ti appartiene di più?” e la risposta sarebbe “Barry Lyndon”. La prima volta l’ho visto ripetutamente per tre giorni di fila! Avevo anche letto il romanzo, che mi aveva catturato completamente! E’ un film che parla di ricerca dell’amore.

Cosa dobbiamo attenderci da Aurelio De Matteis per questo 2017?

Magari lo sapessi! Sono un pirata che naviga a vista. Ho buttato l’orologio, non sono miliardario e vivo costantemente nel qui e nell’ora. Non programmo, anche se ovviamente ho tante idee e proposte. A maggio affronterò una storia multo cruda “Io, Pietro Koch”, sulla vita di uno dei peggiori fascisti mai esistiti sulla faccia della terra. E’ ambientata tra il 1943 e il 1945. E’ una storia rappresentativa di alcune dinamiche che coinvolgono l’essere umano in determinati contesti. Ho in testa questo progetto da almeno tre anni. Mi incuriosisce l’animo umano, anche quando commette crimini così efferati. Vorrei che il pubblico cercasse di capire, insieme a me, il perché di alcune azioni. Andare oltre le apparenze: questo è l’obbiettivo.

Alla Marzullo : fatti una domanda e datti una risposta

“Aurelio perché racconti e sei ossessionato, nelle tue storie, da tre elementi che sono l’amore, il tempo e il mare?” Risposta: “Perché un giorno, presto o tardi, diventeremo una sola cosa.”

Il sole sta tramontando. Inizia a fare quasi freddo nel momento in cui ci salutiamo. Mentre mi avvio all’uscita, lancio un’ultima occhiata ad Aurelio: è ancora fermo lì, intento a pregustarsi i sapori di un luogo intriso di cultura. Capisco che non ha ancora voglia di andare via. Lo immagino perdersi, confondersi, mescolarsi, entrare a far parte del vortice informe che si è creato all’interno del Parco. Chissà se, nel suo viaggio, troverà l’amore di cui parla spesso e ha bisogno. Sarà un percorso interessante, ne sono davvero sicuro.

Aurelio De Matteis: un attore alla ricerca dell’amore was last modified: aprile 14th, 2017 by L'Interessante
14 aprile 2017 0 commenti
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Ares Kent: la somma di tutte le mie vite

scritto da L'Interessante

Ares.

Di Christian Coduto

 

Il mondo del teatro è ricco di magia. E’ innegabile. C’è un fascino che non riesci a spiegare con le parole, ma lo vivi, lo senti, lo percepisci. L’attore trasuda emozioni. Emana un’aura di luce. Se ne rimane incantati.

Oggi incontro Sara Esposito, meglio conosciuta nel settore come Ares Kent. Si presenta con i capelli biondo cenere, quasi tendenti al bianco. Sparati in testa. Un abbigliamento che aggiunge un ulteriore pizzico di aggressività. Sorride educatamente, parla poco. Con quell’aspetto così irruente è lecito aspettarsi una persona un po’ scostante. Poi la osservi meglio e inizi a capire un po’ di cose: non mi guarda subito dritto negli occhi. E’ timida da morire. È necessario trovare un modo per renderla più a suo agio. “Sai che il tuo look è troppo figo?” esordisco. Sorride di nuovo. Alza lo sguardo, stavolta. “Dopo tanti anni, non mi sono ancora abituata  a fare le interviste”, rivela. Appunto. Durante l’intervista parlerà di tante cose, spesso facendo dei voli pindarici. È molto dettagliata nelle risposte perché desidera essere compresa in pieno. Ringrazia tutte le persone che l’hanno accompagnata (e lo fanno tuttora!) in questo suo viaggio. Riconoscenza … che bella questa parola …

Ares Kent si racconta ai microfoni de “L’interessante”

Chi è Ares Kent, o Sara Esposito che dir si voglia?

(Sorride). Immagino che tutti, quando gli fai questa domanda, ti dicano  : ”Uh che bello!”, vero? Secondo me è una domanda terribile, cattivissima, sappilo! Qualcuno diceva che, anche mentre una persona ti parla, ti stai evolvendo. Quindi già non sei più la persona che ha iniziato la conversazione. Cinque minuti e sei già cambiato. Ora … non mi ricordo chi abbia pronunciato questa frase, perché io sono una frana con i nomi … ah sì forse era il mio fruttivendolo di fiducia (ride)! Però sta di fatto che mi ci ritrovo perfettamente. Credo che valga, in generale, per tutti gli attori. Sara Esposito è una maschera, come Mercuzio o Ofelia. E’ un prestanome che mi è stato dato, ma una definizione non te la posso dare. Forse perché ancora non l’ho trovata, o forse perché gli attori cercano di vivere più vite … Sara è la somma di tutte queste vite. E’ tutte le vite che vivrà.

Quando è nato l’amore per la recitazione?

Credo che non sia mai nato, sai? Mi spiego: non è stato, che so, un colpo di fulmine. Ce l’hai o non ce l’hai, punto. Magari te ne accorgi ad un certo punto, ma è un semplice richiamo. Ad un certo punto non ne puoi più fare a meno. Io spesso ho avuto un rapporto di amore e odio con il teatro, in alcuni momenti l’ho allontanato perché non ero ancora pronta al sacrificio. Figurati che una volta ho lasciato tutto e sono andata a vivere a Parigi, pensando di non ritornare mai più. Ma poi ho avuto il richiamo di cui ti parlavo. Una data precisa in cui mi sono resa conto di tutto non la so. Però ti dico questo: ogni volta che tocco quelle tavole, mi innamoro come se fosse la prima volta e so che non posso farne a meno.

 

Esordisci a teatro con “Sogno di una notte di mezza estate” diretta dal bravissimo Giuseppe Miale Di Mauro, con il quale ti ritroverai a lavorare in più occasioni.

Mia mamma voleva che io facessi danza classica … cioè io, capisci? (Ridiamo) Non essendoci mai riuscita a convincermi, mi iscrisse a questa scuola di recitazione, “La Bazzarra” a Torre del Greco. Lì c’era anche un piccolo corso di danza, che era in realtà movimento del corpo. Lì ho conosciuto Giuseppe Miale Di Mauro, che è stato il mio primo maestro. E’ una persona fantastica, ha creduto in me da subito. A lui devo davvero tanto. Insieme abbiamo fatto “Sogno di una notte di mezza estate”, in cui ero Zeppola il capocomico, uno dei personaggi più difficili che io abbia mai interpretato. Con Giuseppe ho lavorato diverse volte, considerando che mi ha conosciuto quando ero davvero piccolina. Mi ha sostenuto in un momento molto delicato della mia vita; senza di lui non avrei continuato questo percorso.

2011 un anno importantissimo: l’incontro con “Papi” Luciano Melchionna e “Dignità Autonome di prostituzione”. Qui sei “La massaggiatrice”, ma nel tempo hai assunto anche un altro ruolo, quello dell’aiuto regista.

Il grande Luciano! Anche questa volta, il mio rapporto con il teatro è stato legato ad un caso: avevo smesso di fare teatro, mi ero iscritta all’Accademia delle Belle Arti di Napoli e stavo studiando per diventare grafica pubblicitaria. Angelo Pepe, il mio migliore amico (nonché bravissimo attore), mi chiese di fargli spalla per un provino al Teatro Bellini. Avevo tagliato i ponti con il teatro per una brutta esperienza, ma lo accompagnai per l’amicizia che ci lega. Per il provino portammo “La strana coppia” di Neil Simon. Lì incontrai Luciano Melchionna. Ero un pulcino. Mi chiese se fossi interessata ad entrare nell’Accademia. Lì per lì gli dissi di no, l’ho ringraziato e sono scappata a gambe levate (ride!). Poi, parlando con Angelo, mi resi conto che era giusto che facessi quel provino. Purtroppo, lui non passò quel provino … credo che sia una di quelle sorprese che ti riserva la vita … per fortuna lui ha continuato a realizzare i suoi sogni in ambito teatrale, con grandi soddisfazioni. Con Luciano, dicevo, ho ripreso a studiare, stavolta seriamente. E’ un insegnante molto severo, ma è anche una persona di grande dolcezza. I tre anni all’Accademia sono stati tosti, indiscutibilmente, ma mi hanno permesso di conoscere una persona che si è fidata di me. Gli sono davvero riconoscente. A “DAdP” ho iniziato come maitresse, poi aiuto regista ed infine come attrice. Un passaggio graduale, ma necessario. “La massaggiatrice” è’ un gradino importantissimo per la mia carriera. Fuori dalla stanzetta è ammaliante, ha un aspetto un po’ avvolgente, da pantera, ma all’interno della stanza rivela un cuore, un’anima fragile, completamente differente. Un connubio perfetto tra la tecnica e la scoperta dell’emotività (parlo della mia esperienza personale, ovviamente). Lo spettacolo, lo sappiamo, è molto articolato. Bisogna fare attenzione ad ogni particolare. Però è un’esperienza che mi ha permesso di crescere tantissimo. Lavorare come attrice, aiuto regista e così via, tutto insieme, è una bella palestra, ma regala infinite soddisfazioni!

Nel momento in cui racconta del provino andato a male del suo più caro amico, si rabbuia. Glielo si legge negli occhi. Un gesto toccante; il mondo dello spettacolo è ricco di persone che pensano solo ai propri interessi, ai propri sogni. Lei non è così: dà l’idea di essere una persona che ha dei principi da rispettare. La vita non ti impone delle regole, ma ti permette di scegliere come affrontarla. Sara/Ares ha scelto la correttezza.

Lavori sia in teatri enormi come il Bellini sia in realtà più piccole, o off che dir si voglia. Quali sono le differenze in termini di empatia con il pubblico secondo te?

Quando hai la fortuna, come me, di ritrovarti catapultata in un mondo fantastico come quello di un teatro pieno di luci e “sicuro” perché c’è una produzione dietro, sai di aver preso parte a qualcosa di gigantesco, però rischi di perdere il contatto con la realtà. Questo è il motivo per il quale continuo a vivere il teatro off: mi mantiene radicata con i piedi per terra. Preservo la mia umanità. Il teatro ti da e ti toglie e tu devi essere pronto a rialzarti. Non si molla così facilmente, ti pare? Mio nonno mi ha cresciuta con l’idea del lavoro svolto costantemente e con umiltà. Mai dimenticarsi del punto da cui sei partita. Perché a 26 anni ho ancora tanta tanta strada da percorrere. Questo doppio binario che percorro mi piace. Ora, in termini di pubblico: gli spettatori abituati al grande teatro, sono anche “viziati” perché ci sono comfort e tutto il resto. Chi va a cercare nell’off è meritevole di rispetto, perché sa che ci sono metodologie e dinamiche alternative.

Insieme agli altri dignitosi, partecipi alle riprese del videoclip degli Stag “Oh Issa”

Sì, un’esperienza molto divertente. L’abbiamo girato a Latina. Gli Stag collaborano con Luciano Melchionna da molto tempo, da “Dignità autonome di prostituzione” a “L’amore per le cose assenti” fino ad arrivare a “Parenti serpenti”. Sono dei ragazzi dolcissimi. Eravamo su questa spiaggia, ad un certo punto ci siamo ritrovati a rotolare, fare casino. Oramai il cast di DAdP è una realtà molto affiatata, una grande famiglia. Se dicessi che è stata una sorta di gita sarebbe scorretto ed ingiusto perché si parla di lavoro, c’erano una serietà e professionalità indiscutibili, però è stato sicuramente piacevole e abbiamo lavorato in maniera spedita.

Compari nel cortometraggio “Amore Lieto Disonore” di Onofrio Brancaccio … come hai vissuto il passaggio dal teatro a quello del cinema?

La mia parte era davvero molto piccola …  dico la verità: ho una paura incredibile della macchina da presa, mi imbarazza molto! Lo so che è una cosa strana, soprattutto se lo dice un’attrice, però ti giuro che ci sto lavorando su (ridiamo). Per fortuna, nonostante l’imbarazzo, la mia prova è stata apprezzata! Nel cast, tra le altre cose, c’era anche l’attore Federico Tocci. E’ stata la prima volta che ho visto un professionista all’opera, davanti ad una cinepresa.

Ares Kent è una delle protagoniste di “JustLove”, un corto dolcissimo e commovente. Ti va di parlarcene?

Certo, quello della Wycon Cosmetics. Un video girato dai ragazzi di “Casa Surace”. Mi hanno contattato a nome di Claudia Federica Petrella, una bravissima attrice napoletana che lavora con Carlo Buccirosso, che avevo conosciuto durante uno stage che avevo frequentato. Si cercavano degli attori particolari … il mio attuale colore dei capelli era adattissimo. E’ stata una cosa molto carina e delicata. Nulla è stato pilotato. Tra noi attori non c’erano delle vere e proprie coppie, però i ragazzini e gli adulti coinvolti nel progetto hanno iniziato a tirare a caso i nomi … in effetti eravamo stati selezionati per alcune caratteristiche precise. I bambini sono stati spiazzanti. Sorprendenti. All’inizio erano molto timidi, perché non sapevano bene se potevano dire o non dire … poi, una volta sciolti, hanno iniziato a fare degli accoppiamenti assurdi. Io sono stata appioppata praticamente a tutti (ride). Una bimba mi associò ad un ragazzo di colore perché disse che io ero bianca bianca dai capelli in giù e lui si adattava a me. Lavorare con i più piccoli è un’esperienza formativa, perché noi tendiamo a dimenticare quello che pensavamo. A tal proposito, è giusto citare “Il Piccolo Principe”: tutti sono stati bambini, ma nessuno se lo ricorda … credo che questo romanzo sia la mia piccola Bibbia.

Sei giovanissima, ma hai un curriculum ricchissimo di esperienze folli e inusuali: “Volgarità gratuite ad un prezzo ragionevole” è quella con il titolo più geniale.

E’ un titolo piuttosto particolare, vero? Questo spettacolo è stato scritto e diretto da Maurizio Capuano, un’esperienza davvero squinternata. Maurizio è uno dei soci attivi del teatro ZTN, anch’esso off, di Napoli. Lì vi ho lavorato con il mio gruppo di sperimentazione, “La Gag”. “Volgarità” è nato come un omaggio ai Monty Python. Una serie di sketch irriverenti, anche piuttosto blasfemi … si passava da problematiche relative ai problemi sessuali (in un momento dello spettacolo ho interpretato un pene che parlava con il suo padrone, giusto per dire!) fino ad arrivare alla religione (io facevo Gesù bambino che dormiva nella culla, mentre la Madonna impugnava un fucile, pronta a prendersi con la forza i doni dei Re Magi). Delirante, ma molto molto divertente. In questo spettacolo ho lavorato con Giuseppe Fiscariello, con cui ho collaborato spesso. Gli voglio un gran bene!

Qual è l’esperienza alla quale sei più affezionata?

In realtà dirtene una sola sarebbe riduttivo. Ogni esperienza che ci capita nella vita è fondamentale, perché ci arricchisce sia nel bene sia nel male. Forse il ruolo di Mercuzio in “Romeo e Giulietta”. Me ne innamorai. Si accese una lampadina, non saprei spiegarlo bene a parole. Un’empatia incredibile. Poi, sicuramente, “Antigone”. Un bellissimo spettacolo, peccato che abbia avuto una vita più breve. Sempre con i ragazzi de “La Gag”. Un personaggio che mi ha aiutato a sbloccarmi. Quando frequenti l’Accademia, apprendi dei meccanismi e talvolta può capitare di cadere nella meccanicità, appunto. Con questo ruolo mi sono sentita libera, proprio perché “La Gag” basa il suo lavoro sull’istinto, sull’improvvisazione. Ovviamente c’erano sempre delle regole da seguire, ci mancherebbe altro, ma il respiro era differente. Con “Antigone” mi sono ammorbidita: ne fui felice, perché rischiavo di irrigidirmi per seguire troppo la tecnica. Ultima, ma non meno importante, “La massaggiatrice” delle Dignità autonome di prostituzione, di cui parlavo prima …

Parliamo ora di “Acqua Santa”, un progetto al quale sei molto legata.

Sì, è uno spettacolo che ho affrontato e sto ancora affrontando con la mia compagna, Marilia Marciello, che mi supporta e mi sopporta durante le prove, a casa. Soprattutto per ciò che riguarda la memoria! Ci sosteniamo su quel palco. E’ una gran forza e una grande fortuna poter recitare insieme a lei. Il testo è stato scritto da Giuseppe Pompameo e diretto da Costantino Punzo e Aurelio De Matteis. Anna Capasso si è occupata degli intro musicali. E’ un bel lavoro di squadra. Costantino e Aurelio hanno una professionalità e una pazienza infinita! Saremo a Napoli i giorni 1 e 2 aprile al teatro Arca’s a via Veterinaria n.63. La storia è incentrata sulla vita di due ragazze che vivono in un paesino piuttosto retrogrado. Siamo agli inizi del ‘900. Maddalena ed Annina sono innamoratissime. Non posso spoilerare troppo, posso solo dirti che è uno spettacolo che cerca di smuovere gli animi, le coscienze. Spesso sentiamo dire che “L’omosessualità non è un problema”. Il che è vero, però per molti non è un problema fino a quando non ce l’hai in casa. Lì le persone cambiano improvvisamente il pensiero. Oggi, come allora, è difficile affrontare un discorso così. Viviamo in una società che “accetta” e già il termine di per sé è completamente errato. Non c’è nulla da accettare! Accettare il fatto che uno sia moro e l’altro abbia i capelli rossi? Che uno sia alto e un altro basso? L’omosessualità esiste, nessuno deve elemosinare il permesso di essere se stesso. Noi esistiamo. Siamo nel 2017 e c’è ancora gente che decide per gli altri, se ciò che uno fa in camera da letto sia giusto o sbagliato!

Il suo lato forte, più potente, quello che combatte per ciò che ritiene giusto, esce fuori. le sue idee devono essere difese, vanno rispettate. Protette. In quanto essere umano e in quanto coinvolta in una storia d’amore importante. Ares è un cucciolo, ma sa tirare fuori le unghie quando è necessario. Le esperienze della vita la stanno modellando, regalandole una sensibilità assai rara da ritrovare. E’ l’unico momento dell’intervista in cui alza davvero la voce, prendendosela con un fantomatico qualcuno, che non è in grado di comprendere il suo bisogno di essere, per quello che è.

Io mi occupo di cinema. Qual è il film della tua vita e perché?

Non credo di averne solo uno. Credo che ce ne siano tanti, per il semplice fatto che credo ci sia un film per ogni periodo della nostra vita. Posso dirti a quale film io sia maggiormente affezionata: “The mask” con Jim Carrey. Un altro “incontro”, di cui parlavo prima. Da piccola, lo guardavo in continuazione. Andavo nell’asilo di mia mamma e mi esibivo nello sketch delle pallottole. Conosco tutte le battute a memoria! E’ il classico film che rivedo sempre con quel pizzico di malinconia.

Cosa dobbiamo attenderci da Ares Kent per questo 2017?

Eh … bella domanda! Ci sono in prospettiva tanti progetti, tanta voglia di fare cose nuove. Di provare. Ho letto dei libri che hanno impegnato la mia mente, mi sono rimessa a studiare (un attore, per migliorarsi, non finisce mai di studiare, ricordiamocelo!). Non per scaramanzia, ma non posso anticipare ancora nulla. Mentre io mi rimbocco le maniche, voi incrociate le dita per me (sorride).

Un abbraccio!

Grazie a te per la tua gentilezza!

Ares si allontana dopo avermi salutato affettuosamente. Le apparenze, spesso, ingannano. Cammina impavida, orgogliosa. Quella chioma biondo cenere andrà sicuramente lontano.

Marilia Marciello

Marilia Marciello

Ares Kent: la somma di tutte le mie vite was last modified: aprile 5th, 2017 by L'Interessante
5 aprile 2017 0 commenti
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